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Metodologie di analisi e zonazione del rischio di frane sismoindotte

Le metodologie per l’analisi e la zonazione del rischio di frana indotta e/o riattivata da sisma vengono generalmente classificate in livelli corrispondenti a gradi di dettaglio crescente, in termini di: definizione dell'azione sismica, accuratezza dei rilievi geologici e della caratterizzazione geotecnica, complessità dell'analisi di stabilità del pendio, e significato ingegneristico dei parametri rappresentativi degli effetti dell'azione sismica sugli elementi esposti al rischio.

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Nell'approccio proposto da Silvestri et alii (2006) vengono individuati quattro livelli di analisi del rischio di frana in zona simsica sinteticamente descritti nella tabella 18.

Tabella 18 Livelli di analisi del rischio frana in zona sismica (Silvestri at alii 2006)

Analisi di primo livello

In linea generale, una metodologia di zonazione sismica di Livello I è indirizzata ad ottenere una valutazione preliminare dello stato di rischio a scala regionale, basata sull’uso di dati storici di danneggiamento, interpretabili con correlazioni empiriche riferite a diverse tipologie di meccanismi deformativi.Per le analisi di I livello, ai fini della zonazione per franosità, sono presentati due tipi di approccio:

a) i metodi basati sulla relazione magnitudo-distanza; b) i metodi basati sul criterio della minima intensità.

Tali metodologie considerano solo la numerosità e la distanza epicentrale degli eventi franosi osservati in occasione di terremoti passati e correlano questi elementi alla intensità o alla magnitudo del sisma. In questo modo viene evidenziata l’influenza di un solo fattore scatenante (il terremoto) e trascurata completamente sia quella dei fattori predisponenti (condizioni morfologiche, geotecniche e idrauliche del pendio), sia quella di un altro importante

fattore scatenante quali le piogge. Di conseguenza, le relazioni così trovate risultano avere una validità strettamente locale e non sono direttamente applicabili al di fuori del contesto originario. In base alla studio di numerosi casi relativi a fenomeni di instabilità prodotti da eventi sismici per lo più nel territorio degli Stati Uniti, Keefer & Wilson (1989) hanno ricavato, per ogni categoria di frana correlazioni empiriche tra la magnitudo del terremoto e distanza dalla sorgente del fenomeno di dissesto attivato che permettono di perimetrare l’area entro cui può verificarsi un fenomeno franoso indotto da un evento sismico, di cui vengano fissate magnitudo e posizione della

sorgente (figura 34). Gli eventi appartenenti alla prima categoria, come mostrato da Keefer e Wilson sulla base dell’osservazione di numerosi casi reali, sono quelli che si manifestano a maggiore

Figura 34 Massima distanza epicentrale per le diverse categorie di frane indotte da terremoti di differente magnitudo (TC4,1993)

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distanza dall’epicentro. Studi condotti da Yasuda e Sugitani (1988) mostrano, inoltre, che la massima distanza epicentrale di frane superficiali è maggiore di quella di frane profonde.

Nel Manuale di Zonazione vengono riportati e messi a confronto i risultati degli studi condotti da alcuni ricercatori sui terremoti occorsi in diverse parti del mondo per stabilire un legame tra la massima distanza alla quale si sono verificati i movimenti franosi e la magnitudo dell’evento sismico. Le analisi svolte indicano che

l’estensione dell’area interessata da eventi franosi in paesi con clima arido (Iran e Armenia) è minore di quella in paesi con clima umido (Giappone e Filippine) e che la massima distanza rispetto a una faglia è minore che rispetto a un epicentro. Sulla base di queste considerazioni vengono proposte nel Manuale TC4 una serie di curve che definiscono la relazione distanza epicentrale massima-magnitudo per frane distruttive e non distruttive in paesi con clima

arido e con clima umido. L’osservazione degli eventi franosi avvenuti in seguito al terremoto umbro- marchigiano del settembre 1997 ha mostrato un buon accordo con le relazioni indicate nella figura 36. La distanza delle frane dagli epicentri delle due scosse principali (rispettivamente di magnitudo 5.5 e 5.8) è risultata infatti compresa tra 0 e 20 km.

Con i metodi basati sul criterio della minima intensità viene stabilito per la zona in esame il valore minimo dell’intensità cui è associato il

manifestarsi di fenomeni franosi. Keefer

e Wilson (1989), ad esempio,

analizzando la distribuzione del numero di terremoti che hanno causato fenomeni di instabilità dei pendii, in funzione della loro intensità, indicano che il valore minimo dell’intensità che può indurre instabilità è pari a V÷ VI gradi nella scala Mercalli Modificata. Tiwari B. e Ajmera (2017) adottando un approccio simile a quello adottato da Keefer hanno proposto delle correlazioni tra accelerazioni di picco ed area interessata da frane sismiondotte.

Figura 36 Relazione tra area interessata da frane sismoindotte e PGA - Tiwari B. e Ajmera (2017)

Figura 35 Relazione tra magnitudo e distanza epicentrale per l'attivazione delle frane sismoindotte (TC4, 1993)

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Analisi di secondo livello

I metodi di I livello forniscono risultati di scarso interesse ai fini della zonazione per instabilità dei pendii. In particolare, quelli basati sulle relazioni magnitudo-distanza consentono di stimare l’estensione dell’area in cui possono manifestarsi eventi franosi a condizione che siano state identificate le eventuali sorgenti sismiche, epicentri o faglie sismogenetiche, cosa estremamente difficile nel territorio italiano, a sismicità molto diffusa. I metodi di I livello, prescindendo da qualunque informazione morfologica, geotecnica e idraulica, non sono in grado di fornire nessuna indicazione specifica sulla pericolosità del singolo sito. I metodi di II livello consentono di migliorare notevolmente la qualità dei risultati con l’aggiunta di alcuni dati relativi alla topografia, alla geologia, alle condizioni idrauliche e alla piovosità, acquisiti con indagini speditive e/o da rapporti e documenti esistenti. Tali metodi sono finalizzati soprattutto alla redazione di carte di suscettibilità e vengono generalmente applicati suddividendo l’area in esame in celle quadrate di dimensioni opportune.

Gli approcci più comuni di zonazione di II livello considerano la pericolosità sismica locale espressa in termini di accelerazione massima al suolo, a volte includendo gli eventuali effetti dell’amplificazione locale e restituiscono carte del danno atteso basate sull'uso del modello di Newmark o di correlazioni tra spostamenti e parametri sintetici del moto sismico (p.es. accelerazione di picco o intensità di Arias) da esso derivate. Nell’ambito dei metodi di analisi dinamica semplificata, il modello del blocco rigido di Newmark rappresenta a tutt’oggi il più semplice e di diffuso impiego. La teoria del blocco rigido, sulla quale si basano i metodi degli spostamenti, è stata introdotta da Newmark (1965) nella metà degli anni ’60 per lo studio della stabilità in condizioni sismiche di dighe in terra e rilevati arginali; successivamente, numerosi altri autori ne hanno esteso l’applicazione a differenti problemi di natura geotecnica, che includono analisi di stabilità di pendii e rilevati, muri di sostegno a gravità, fondazioni superficiali Madiai (2009). Il metodo di Newmark considera il volume di terreno potenzialmente instabile come un blocco rigido che scorre su un piano inclinato. Al blocco si associa un valore di accelerazione critica ac, che rappresenta la soglia di accelerazione da superare per mobilitare la resistenza al taglio ed innescare il fenomeno franoso. Nel complesso, gli approcci comuni o comunque più ricorrenti in questi studi sono:

• pericolosità sismica locale definita mediante scenari deterministici (massimo terremoto storico o eventi sismici recenti), ed espressa in termini di accelerazione massima al suolo, a volte includendo gli eventuali effetti dell’amplificazione locale;

• valutazione del rischio di instabilità ottenuta da analisi pseudo-statiche con metodi dell’equilibrio limite, quasi sempre in ipotesi di pendio indefinito, per la semplicità di implementazione su GIS mediante gestione di un limitato numero di informazioni in termini di pericolosità sismica, dati topografici e proprietà geotecniche;

• proprietà geotecniche assunte in base a cartografia geologica 1:10.000 ÷ 1:50.000, con parametri assegnati uniformi per ogni formazione geologica cartografata;

Pag. 90 a 249 • condizioni di falda parimenti uniformi, e corrispondenti a situazioni "estreme" (falda

ovunque assente, oppure ovunque affiorante al piano di campagna);

• carte del danno atteso basate sull'uso del modello di Newmark o di correlazioni tra spostamenti e parametri sintetici del moto sismico (p.es.accelerazione di picco o intensità di Arias) da esso derivate.

Nella tabella 19 è riporata una sintesi dei principali studi di letteratura con esempi di zonazione di livello II del rischio di frana in zona sismica che spesso hanno come finalità l’individuazione delle aree più sucettibili d’innesco di frane sismo-indotte e vengono applicate in ambiente GIS

Tabella 19 Esempi di zonazione di livello II del rischio di frana in zona sismica Silvestri et alii (2006)