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Capitolo 3 Metodologia di Costruzione della

3.4 Metodologia di annotazione

3.4.4 Specificità cultural

3.4.4.2 Mezzi paralinguistici, cinesici e prossemic

La ricerca sulla comunicazione non verbale si fonda su studi antropologici, sociologici e psicologici e una delle trattazioni più esaustive è quella di Poyatos (1993) il cui contributo investe anche il campo della traduzione letteraria e audiovisiva (1997).32 In particolare, tutte le ricerche dello studioso confluiscono nella teorizzazione della triplice struttura di base della comunicazione umana (Basic Triple Structure):

“Paralanguage and kinesics were not being studied together, at least not sufficiently; and neither were, from an interactive point of view, all the other systems whose analysis could not be disassociated from what I already saw as a triple and inseparable body, language, paralanguage-kinesics (1993: 122)

Le tre componenti individuate sono accuratamente descritte. Il termine “linguaggio” ingloba un primo strato segmentale costituito dai fonemi che si combinano in morfemi e, a loro volta, contribuiscono alla strutturazione sintattica dell’enunciato, da cui è possibile distinguere il secondo livello, detto appunto “soprasegmentale”, costituito da ciò che viene comunemente qualificato per mezzo dei tratti specifici dell’intonazione (id. 129). Con il termine “paralinguaggio”, lo studioso si riferisce, invece, al modo in cui un messaggio verbale viene emesso, e concerne tutti gli stimoli vocali non verbali che fanno corona al comune linguaggio verbale, quali le qualità primarie della voce (tono, risonanza, qualità dell’articolazione) che ne connotano i tratti individuali e le vocalizzazioni, suddividibili a loro volta in qualificatori (qualifiers), ossia timbro, intensità, estensione; caratterizzatori (differentiators), atto del sospirare, sbadigliare, aspirare o espirare rumorosamente, mugolare, tirare su col naso, ecc.; e segregati vocali (alternants), ossia le intercalazioni sonore del tipo uh-uh, mmmh e loro varianti (id. 130). Il termine “cinesica” denota invece le

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Vedasi anche la trilogia più recente dello stesso autore (Poyatos 2002a, 2002b, 2002c) che riprende quasi integralmente i temi del volume del 1993, inquadrandoli alla luce degli studi su narrativa letteraria, teatro e, incidentalmente, anche del cinema.

gesticolazioni, i movimenti del tronco, degli arti, delle mani, le espressioni della mimica facciale e la postura che, in combinazione o non con strutture linguistiche o paralinguistiche, sono dotate di particolare accezione comunicativa (id. 132). Da quest’ultimo tratto della comunicazione non verbale, si distingue infine la “prossemica”, ossia lo studio dell’uso che l’uomo fa del suo spazio sociale e personale e della percezione che ne ha (orientamento spaziale, ecc.). Secondo Poyatos, i primi tre aspetti possono realizzarsi in combinazioni specifiche esaltando di volta in volta l’uno o l’altro degli elementi o il nuovo significato che emerge dalla loro associazione (id. 150-153). Sulle modalità di espressione e di combinazione dei tre tratti influiscono poi le condizioni intra e inter-sistemiche, nonché quelle ambientali e culturali, che favoriscono la convenzionalizzazione di alcune associazioni, contribuendo alla specializzazione emblematica dei costrutti nelle varie lingue e culture.

Appare quindi significativo, in un corpus multimediale che permette di accedere alla totalità delle componenti comunicative e dialogiche, su un piano visivo (cinesico, prossemico) e acustico (prosodico e paralinguistico), prevedere etichette di annotazione di questi tratti, opportunamente riuniti sotto la macro- categoria mezzi paralinguistici, cinesici e prossemici. La caratteristica peculiare della post-sincronizzazione, sia essa intra o interlinguistica, è infatti quella di sovrapporre la parola ad azioni, gesti ed espressioni facciali preesistenti, imitando gli attori originali. Proprio dal raggiungimento di un’adeguata “isocronia”, l’esatta corrispondenza con la durata dell’enunciato del personaggio sullo schermo, o della “sincronia totale con il personaggio”, che include una corrispondenza più generale su un piano paralinguistico, cinesico e prossemico (character synchrony: Fodor 1976: 72), dipendono spesso le valutazioni positive o negative sul doppiaggio filmico, sebbene le soglie di tolleranza al riguardo appaiono variabili da paese a paese e da cultura a cultura (Rowe 1960). È evidente che l’aggiunta di tali tratti non pertiene alla fase traduttiva che è scritta, ma a quella dell’adattamento, e in maniera ancora più incisiva alla fase interpretativa finale. La sceneggiatura adattata viene infatti recitata dai singoli attori e, in tale ulteriore

trasformazione, il dialogo filmico tende a proporsi come una forma, sebbene fittizia, di scambio comunicativo interazionale.33

Ai fini dell’illustrazione della metodologia di annotazione applicata, partiamo da una rassegna dei ruoli che i comportamenti non verbali soprammenzionati possono svolgere nella comunicazione umana, classificabili in sei funzioni specifiche (Bonaiuto/Maricchiolo 2003: 20):

(1) la ripetizione: è il caso del gesto che ripete il significato della parola;

(2) la contraddizione: un caso è dato, per esempio, da una lode verbale fatta con un tono sarcastico. Nella comunicazione spontanea, si è notato che quando si ricevono messaggi verbali e non verbali in contraddizione tra di loro, si tende generalmente a fare maggiore affidamento su quelli non verbali, ritenendo che i segnali non verbali siano più spontanei e più difficili da dissimulare o da fingere;

(3) la sostituzione: il comportamento non verbale può sostituire il messaggio verbale;

(4) la complementazione: il comportamento non verbale può modificare o integrare i messaggi verbali, come quando la lode è accompagnata da un sorriso;

(5) l’accentuazione: il comportamento non verbale enfatizza alcuni aspetti puntuali della parola, per esempio i movimenti della testa e delle mani sono frequentemente utilizzati a questo scopo, sebbene vi siano notevoli differenze, sia culturali che individuali;

(6) la relazione e regolazione: si utilizza la comunicazione non verbale per regolare il flusso comunicativo tra le persone che partecipano all’interazione. Un cenno del capo, un movimento degli occhi, un cambiamento di posizione, danno all’interlocutore un feedback per agire opportunamente durante lo scambio.

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Considerare tali elementi all’interno della dinamica del dialogo filmico appare ancora più significativo se si tiene conto che da alcune ricerche sul rapporto tra comunicazione verbale e non verbale emerge che le modalità di trasmissione dei messaggi prevalgono sui contenuti e i messaggi verbali stessi, i quali rappresenterebbero solo il 10% rispetto al 30% dell’apporto del tono della voce e al 60% dato invece dal linguaggio del corpo (Bonaiuto/Maricchiolo 2003: 12).

Nella finzione filmica, è chiaro che le suddette funzioni della comunicazione non verbale vengano utilizzate in prospettiva mimetica e rappresentativa, in particolare quelle che accompagnano naturalmente l’elocuzione, quali quelle indicate sub 1), 4) e 6). Tuttavia, le funzioni sopraccitate possono essere accentuate, in frequenza o modalità, fino a giungere alla loro stereotipazione (si pensi alle interpretazioni di attori come Roberto Benigni in Vita), sovvertite a fini estetici per ottenere effetti innaturali paradossali (si ricorda una scena di Caruso, in cui il maresciallo esorta il protagonista ubriaco a rimanere calmo con una sequenza ripetuta e ritmata di parole, gesti e un tono di voce che imita il linguaggio bambinesco), oppure impiegate per finalità specifiche. Per esempio, l’utilizzo della funzione sub 2) nella trasposizione filmica implica sempre, a differenza dell’interazione spontanea, una volontà del regista di conferire al contenuto della comunicazione non verbale un ruolo di primazia su quello verbale, secondo la regola per cui nulla in un film è accidentale, per l’innata sinteticità della narrazione che comprime tempi e spazi del racconto. È opportuno, inoltre, ricordare che molte caratteristiche filmiche, quali le tecniche di narrazione e montaggio, che confluiscono nella “grammatica filmica”, hanno subìto anche esse un processo di codifica, stando al quale a determinate sollecitazioni è prevedibile e, per certi versi auspicabile, già un certo tipo di risposta. Ciò contribuisce a caratterizzare la comunicazione filmica, e nel suo novero, la comunicazione verbale e non verbale, come il rinvio costante a regole e norme conosciute e condivise da parte di registi e pubblico di una data comunità.34

A fini estetici e narrativi, vengono altresì utilizzate le funzioni sub 3) e sub 5). Nello specifico, il punto 3) ci riporta al tema delle unità “olofrastiche”, ossia di unità che, per forza allocutiva, deitticità e contenuto proposizionale, equivalgono a un’intera frase o più propriamente a un enunciato. Oltre alle interiezioni, anche la maggior parte dei linguaggi non verbali possono infatti considerarsi olofrastici

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Metz sostiene l’ipotesi del cinema come codice: “ci sembra che si possano distinguere almeno due grandi tipi di organizzazioni significanti, i codici culturali e i codici specializzati. I primi sono talmente assimilati che i fruitori li considerano “naturali” e costitutivi della stessa umanità; la manipolazione di questi codici non ha bisogno di nessun apprendimento speciale e cioè di nessun apprendimento all’infuori di quello costituito dal fatto stesso di vivere in una società [..] I codici che chiamiamo specializzati riguardano invece attività sociali più specifiche e limitate, si offrono esplicitamente come codici e hanno bisogno di uno speciale apprendimento (anche il cinema è tra questi). Questa bipartizione è altresì abbastanza operante nello studio dei codici gestuali (1972: 157).

(Renzi et al. 2001). In quest’ultimo caso, la difficoltà maggiore, in chiave traduttiva, sta nel decifrare quei comportamenti cosiddetti emblematici, che posseggono una definizione e una traduzione verbale specifica, e il cui significato simbolico è perfettamente noto all’interno di una determinata cultura, ma potrebbe non esserlo in un’altra. Esulano da questa problematica i comportamenti illustrativi o affettivi, correlati ad esempio alle espressioni facciali delle emozioni ritenuti comuni a tutte le culture umane (cfr. 3.4.4.1, a proposito della non necessità di traduzione di alcuni tipi di humour visivo).

Applicando la riflessione sulle possibili funzioni della comunicazione non verbale al testo audiovisivo, è dunque possibile stilare un elenco di regole generali per l’annotazione paralinguistica, cinesica e prossemica (condotta rispettivamente tramite le etichette prosodia specifica, gestualità specifica e mimica e prossemica). In prospettiva monolinguistica:

(1) i casi sub 1) e sub 6) non vengono generalmente annotati in virtù della “ridondanza” che si crea tra sistema di comunicazione verbale e non verbale. La possibilità per l’utente di ricorrere in qualunque momento al testo audiovisivo completo rappresenta tuttavia un aiuto costante per risolvere casi di riferimenti deittici ambigui, grazie alla presenza dei cosiddetti language markers (Poyatos 1993: 147) che sottolineano visivamente la successione acustica e la strutturazione sintattica, oppure per interpretare la particolare valenza performativa dell’enunciato in virtù del supporto prosodico;

(2) i casi sub 4) e 5), proprio perché completano o accentuano il messaggio verbale, agendo sui fenomeni summenzionati, sono invece sempre annotati;

(3) infine, la contraddizione (2) e la sostituzione (3) sono altresì sempre etichettate, giacché la comunicazione non verbale svolge in questo caso una funzione specifica di ancoraggio del contenuto verbale al canale visivo e di progressione della narrazione, proprio per l’assenza di un correlato verbale.

In prospettiva di collisione interculturale, la comunicazione non verbale (gestualità, mimica e prossemica) è soggetta ad annotazione a prescindere dalle funzioni specifiche svolte, laddove le modalità di rappresentazione non sono condivise dalle due lingue/culture messe a confronto (gesti simbolici).35

In conclusione, ci pare opportuno chiarire l’applicazione dell’etichetta prosodia specifica che, maggiormente rispetto alle altre etichette, potrebbe incorrere in critiche di soggettivismo. In effetti, la riconoscibilità dei vari tratti segmentali viene spesso risolta scientificamente mediante mezzi di analisi meccanica (spettrogrammi) estensivamente utilizzati nella trascrizione e annotazione di corpora orali come base per la segmentazione degli enunciati (Cresti/Moneglia 2005). Questi sistemi permettono di tratteggiare le caratteristiche di timbro, intensità, estensione (qualificatori) e le qualità primarie della voce e sono stati utilizzati in linguistica e nella traduzione audiovisiva per studiare aspetti connessi alla trasposizione di stati di animo e attitudini del parlante (Moneglia 2008; Franzelli 2008). Tuttavia, nonostante la scientificità della rilevazione della curva prosodica, ottenuta con tali mezzi, la valutazione dell’apporto specifico dei vari tratti al significato dell’enunciato o alla connotazione degli stati di animo viene comunque condotta su basi interpretative e soggettive.

Il sistema di etichettatura da noi adottato, invece, mette in evidenza, intuitivamente e facendo affidamento alla competenza prosodica e socio- linguistica del ricercatore, quelle scene in cui si rileva una deviazione significativa da una prosodia valutabile come prototipica in relazione a una data situazione comunicativa e in cui alcuni elementi grammaticali specifici, quali interiezioni/onomatopee e segnali discorsivi in genere, sostituiscono o contraddicono il correlato verbale per mezzo del tratto prosodico, aggiungendo un significato specifico all’enunciato. L’annotazione riguarda, quindi, non i qualificatori, ma ciò che abbiamo in precedenza definito caratterizzatori e segregati vocali (ossia i tratti soprasegmentali). Si tratta, ad esempio, delle interiezioni che, se associate a una particolare intonazione, spesso sostituiscono risposte brevi, commenti, osservazioni, come sì, no, ok, ecc. o che, se collocate

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Si rinvia a Chaume (1997; 2004b: 320-324) e Zabalbeascoa (1997) che per primi si sono occupati delle strategie di traduzione di gesti iconici e oggetti culturali.

all’inizio o alla fine di un enunciato, ne modificano o rafforzano l’effetto perlocutivo. Lo stesso dicasi per altre parti grammaticali, quali aggettivi, verbi e nomi (cfr. supra). Un altro esempio di fenomeno prosodico degno di annotazione è dato dai calchi o prestiti di fonosimboli/interiezioni, o tratti intonativi della lingua originale. In molti film francesi del corpus, i parlanti utilizzano l’onomatopea pff accompagnata da un gesto della mano e da prosodia specifica per esprimere la disapprovazione risentita per il comportamento di qualcuno o, più in generale, un atteggiamento di disaccordo (per es. in Image). In italiano, tale fonosimbolo non è utilizzato negli stessi contesti e appare piuttosto innaturale sulla bocca di un parlante nativo. Laddove non è possibile eliminarlo per restrizioni dovute a inquadrature di primo piano, è la prosodia che riesce a supplire all’effetto di innaturalezza, restituendo parte dell’effetto perlocutivo originale. Heiss (2000a) cita un altro caso significativo in Mimì, in cui l’intonazione regiolettale degli attori italiani è imitata dai doppiatori tedeschi, proprio come parte delle strategie generali di preservazione dell’ambientazione italiana.