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Capitolo 3 Metodologia di Costruzione della

3.4 Metodologia di annotazione

3.4.4 Specificità cultural

3.4.4.1 Specificità linguistiche

La categoria specificità linguistiche comprende le etichette: figure di parola, espressioni idiomatiche, formule in situazioni specifiche, annunci ufficiali, humour verbale, allocutivi, alterati, segnali discorsivi, intercalari, interiezioni/onomatopee, abbreviazioni/acronimi. Alcuni di questi descrittori si sovrappongono parzialmente l’uno all’altro, come avviene, per esempio, nel caso dell’etichetta segnali discorsivi e interiezioni/onomatopee, e figure di parola e humour verbale. Una delle ragioni per la classificazione adottata sta nel fatto che una descrizione contrastiva in chiave traduttiva può essere condotta con diverse finalità e sotto diversi punti di vista. Al fine di non limitare i molteplici approcci applicabili, si è ritenuto valido, per alcuni fenomeni linguistici, mantenere una

doppia classificazione, pragmatica e grammaticale, tenuto conto anche del fatto che attualmente il corpus testuale non è annotato con i metodi di etichettatura delle parti del discorso.

L’etichetta figure di parola riunisce i casi di linguaggio figurato, che tipicamente dilatano il contenuto del valore referenziale, implicando la distinzione di diversi livelli più o meno profondi di significato, e le cui associazioni trovano fondamento nel contesto socio-culturale in cui la parola viene usata.26 La lingua parlata non è infatti per niente astratta. Al contrario, per rendere le idee cerca costantemente dei punti di contatto con il mondo sensibile, ricorrendo a paragoni e immagini. In particolare, il linguaggio giovanile e l’argot sono due varietà di lingua che, a dispetto della loro instabilità, fanno largo uso di tropi (cfr. 3.4.5). Analogamente, anche la lingua filmica, proprio per la natura intrinseca delle figure retoriche come immagini verbali, cioè di rappresentazioni linguistiche che donano luce e colore all’espressione, ne è costellata (Polselli 2003: 117). L’etichetta include, pertanto, figure quali metafora, similitudine, metonimia, sineddoche, allitterazione, paronomasia, sinestesia, ripetizione, ossimoro, iperbato, anadiplosi, climax, poliptoto, eufemismo, ecc.27 Le figure di parola possono essere create ad hoc dall’autore e, per questo, essere originali, oppure fisse, lessicalizzate. In quest’ultimo caso, si parlerà di “espressioni idiomatiche” che, nella nostra classificazione, comprendono frasi fatte, modi di dire, idiomatismi, collocazioni, clichés.28 È interessante, inoltre, notare che, come analizzeremo nei capitoli successivi, queste etichette sono molto spesso associate ad altre etichette correlate al repertorio linguistico (registri, linguaggi specialistici, gerghi, idioletti), alla presenza di riferimenti culturali, nonché a mezzi paralinguistici e cinesici, e a particolari situazioni comunicative. Il loro studio è,

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Vedasi Mortara Garavelli (1994) per un’ampia trattazione teorica del tema in questione. 27

La figura dell’eufemismo, definibile come “interdizione di una parola o di un’espressione ritenute sconvenienti”, può consistere nella soppressione totale o parziale del termine interdetto oppure, più spesso, nella sua sostituzione (Serianni 1991: 744), e includere casi di linguaggio tabù (taboo language) e di censura. Vedasi Azzaro (2006) per un’analisi quantitativa delle espressioni tabù rilevate in un corpus di film inglesi doppiati in italiano.

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Quest’ultima categoria è molto più problematica per la traduzione poiché, a differenza del tropo creativo che può essere trascritto, molto spesso il cliché o l’espressione idiomatica deve essere trasposta per mezzo di un’espressione equivalente nell’altra lingua, rispettando senso e registro linguistico, e implicando spesso una modulazione del punto di vista (Podeur 1993: 71- 107).

quindi, molto interessante perché consente l’individuazione di cluster di attributi notevoli, la cui analisi può mettere in luce importanti strategie traduttive.

L’etichetta formule in situazioni specifiche sta ad indicare i casi di linguaggio formulare, comprendenti anche formule giuridiche e formule di cortesia, saldamente ancorate a una data situazione comunicativa. Come per le etichette precedenti, anche in quest’ultimo caso notiamo che la categoria è spesso associata ad altre etichette significative, che segnalano, ad esempio, il dominio specialistico al quale tali espressioni pertengono. L’etichetta annunci ufficiali include, invece, comunicazioni di ordine pubblico, di vita civile, molto spesso trasmesse attraverso mezzi meccanici, quali altoparlanti, microfoni, radio e televisione, a loro volta associabili a situazioni comunicative specifiche.

La categoria dello humour verbale è su un piano teorico ampiamente dibattuta in letteratura.29 Chiaro (2004) definisce lo humour come “a segment of written or spoken language produced with the intent of creating a positive humour response in

the respondent.” L’etichetta include alcuni tropi specifici (paronomasia,

eufemismi, domande retoriche, uso dei termini in maniera paradossale) e si trova, spesso, in combinazione con riferimenti culturali specifici. Tuttavia, alcune realizzazioni di humour verbale possono essere ricondotte ad aspetti di altra natura, quali fenomeni prosodici e paralinguistici tipici (balbuzie, tic linguistici, tono di voce inadeguato allo scambio comunicativo, ecc.) oppure dettagli visivi grafici, o forme di gestualità che denotano invece tipologie di humour non verbale. La definizione da noi adottata è pertanto onnicomprensiva, includendo non solamente la paronomasia, il gioco di parole, le barzellette, ma anche altri tropi, come le allitterazioni e tutte le forme di humour detto referenziale (referential humour), inclusi i commenti umoristici e le allusioni. Resta escluso dalla classificazione, lo humour non verbale ancorato alle immagini, il quale, spesso, non necessita di essere mediato proprio perché, basandosi su gag esclusivamente visive, alla stregua di quanto accadeva nel cinema muto, può ritenersi, a parere di alcuni studiosi, universalmente decodificabile (Zabalbeascoa 1996: 225).

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Il nome dell’etichetta è calcato sull’espressione inglese verbally expressed humour (VEH), coniata da Ritchie (2000) e ripresa da Chiaro (2006) e comprendente tutta la gamma di humour relativo a messaggi di natura orale o scritta.

L’etichetta grammaticale che riunisce gli allocutivi indica quelle parti del discorso che servono a rivolgersi all’interlocutore e che sono tipicamente veicolati da pronomi personali (deissi personale) e dalla forma verbale (in italiano, tu, lei, voi; in francese tu, vous), ma anche da forme lessicali (vocativi/appellativi) che vengono spesso utilizzate in lingue come l’inglese per supplire alla mancata grammaticalizzazione dell’allocuzione (Ulrych 1996). La loro segnalazione è importante poiché tramite le forme allocutive vengono codificati significati sociali, quali la superiorità/inferiorità e distanza/vicinanza, esplicitando il rapporto esistente o che si vuole instaurare tra gli interlocutori. Inoltre, come dimostrato da Pavesi (1996: 127), la preponderante frequenza nell’italiano doppiato dall’inglese di vocativi e dell’allocuzione lessicale, anomala rispetto all’uso comune in italiano, è uno dei tratti rappresentativi dell’esistenza di una terza norma, quella dell’italiano doppiato.

L’etichetta plurima degli alterati (diminuitivi, accrescitivi, vezzeggiativi, peggiorativi) riunisce le forme alterate di un sostantivo e più raramente di un aggettivo, avverbio o verbo, risultante dall’aggiunta di suffissi specifici (per l’italiano: -ino,-etto, -ello, -uccio, -one, - otto, -accio, ecc.; per il francese: -ard, aille –asse, -elle, -et –ot, ecc.). Il fenomeno grammaticale è definito, per l’appunto, alterazione, e si configura come una particolare forma di suffissazione “con la quale il significato della parola di base non muta nella sua sostanza, ma soltanto per alcuni particolari aspetti (quantità, qualità, giudizio del parlante)” (Dardano/Trifone 1985: 334). Tali suffissi contribuiscono pertanto a connotare affettivamente la parola (vezzeggiativi/peggiorativi) o a conferire un’idea di piccolezza/grandezza (diminutivi/accrescitivi). Inoltre il loro impiego contraddistingue determinati livelli di variabilità interna alla lingua di modo che, nel corpus, l’assegnazione di tale attributo va sovente di pari passo con quella di etichette relative al registro.

L’attributo segnali discorsivi riunisce “quegli elementi che, svuotandosi in parte del loro significato originario, assumono dei valori aggiuntivi che servono a sottolineare la strutturazione del discorso, a connettere elementi frasali, interfrasali, extrafrasali e a esplicitare la connotazione dell’enunciato in una dimensione interpersonale, sottolineando la struttura interattiva della

conversazione” (Renzi et al. 2001: 225 e ss.).30 Stante a questa definizione e ad altre analoghe (cfr. Serianni 1991: 361-365; Bazzanella 1994: 145-174), la classe in questione è una classe aperta e trasversale a diverse categorie grammaticali, potendo fungere da segnali discorsivi operatori di coordinazione (e, ma), operatori di coordinazione avverbiale (cioè), avverbi frasali (praticamente), interiezioni (eh?), sintagmi verbali (guarda) con funzione fatica (che Bazzanella 1994 denomina fatismi), sintagmi preposizionali (in qualche modo) ed espressioni frasali (come dire). Ciò che li caratterizza è la loro polifunzionalità, ossia la rilevanza del contesto, sia linguistico che extralingistico, per la loro interpretazione. Da qui l’esigenza di segnalarli in concomitanza con altri tratti (spesso di natura paraverbale) e in situazioni specifiche (parlato telefonico) in cui, mancando appoggi verbali tipici dell’interazione faccia a faccia, quali gesti, movimenti del corpo, sguardi, la presenza di segnali discorsivi aumenta in maniera rilevante (Renzi et al. 2001: 228). Come tali, questi elementi si possono rinvenire in una varietà di collocazioni all’interno del dialogo, sotto forma di cumuli (sequenza di segnali in cui ognuno svolge la stessa funzione, per es. i fatismi) o catene (sequenza di segnali in cui ognuno svolge una funzione specifica), ma sempre in stretta dipendenza con i tratti prosodici, in base ai quali sono loro attribuibili diverse sfumature di significato. Le funzioni principali dei segnali discorsivi, nel dialogo faccia a faccia, sono di natura interazionale (con opposizione dei segnali dalla parte del parlante o dell’interlocutore) e metatestuale (per una tassonomia esaustiva, cfr. Bazzanella 1994: 163). Il parlato filmico, in mancanza di altre forme di rappresentazione della frammentarietà del dialogo spontaneo, sembra utilizzare a piene mani i segnali discorsivi, le forme interiettive, gli intercalari e altri segnali paraverbali, quali i fonosimboli, per veicolare quell’impressione di spontaneità da cui deriva la rilevanza di tali elementi in quanto oggetto di studio specifico della traduzione audiovisiva, soprattutto dall’inglese (Chaume 2004; Romero Fresco 2007), ma anche da e verso il tedesco (Nadiani 1996, Heiss/Soffritti 2008).

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La difficoltà di categorizzazione, data la loro intrinseca “vaghezza” semantica, risulta evidente dalla difformità terminologica, tuttora abbastanza diffusa, anche quando si utilizzi la stessa etichetta, degli elementi compresi nella classe (Bazzanella 2001: 42-43).

Abbiamo, invece, a parte classificato, sotto l’etichetta intercalari, parole ed espressioni analoghe e similari che, per abitudine, vengono ripetute nel discorso, quali cioè, insomma, praticamente. Tali forme possono essere avverbi, interiezioni o altre parti grammaticali, con particolare funzione discorsiva (per es. riempitiva), enfatica, e a volte ironica, rientrando di fatto nella definizione di segnali discorsivi, data in precedenza, e in quella delle interiezioni, che segue. Gli intercalari connotano in maniera specifica il discorso del parlante e, avendo carattere di ripetitività, vanno a formare in maniera costituiva parte dell’idioletto di un determinato personaggio (vedasi 3.4.5.1).

La categoria delle interiezioni/onomatopee, che per certi versi può considerarsi subordinata alla precedente categoria dei “segnali discorsivi”, comprende le interiezioni, le locuzioni interiettive propriamente recensite dalle grammatiche (per l’italiano: Renzi et al. 2001: 416-417; Serianni 1991: 367-377), e le onomatopee (o fonosimboli), intese come sequenze foniche che tendono a riprodurre o a evocare un suono (Serianni 1991: 377-378). La differenza fondamentale tra interiezioni e segnali discorsivi sta nel fatto che una parte dei segnali discorsivi non funziona autonomamente come enunciato, come avviene nel caso delle interiezioni, parte delle quali, in seguito a un processo di grammaticalizzazione attestato, hanno finito per acquisire funzioni di tipo esclusivamente testuale. L’interiezione viene, infatti, spesso definita nelle grammatiche come una parola-frase che trasmette in modo convenzionalizzato, depositato nel lessico, un atto linguistico completo (Renzi et al. 2001: 403). Essa è caratterizzata dalla presenza obbligatoria di elementi deittici, da un valore illocutivo esplicito (che consente di distinguerla su un piano pragmatico) e da un contenuto proposizionale (es. toh= questo fatto mi sorprende). Le interiezioni possono esprimere uno stato delle conoscenze del parlante (es. incredulità: macché, see…, affatto, bum!), alcuni scopi del parlante (es. disprezzo: poh, puah...), oppure richieste di conferma, domanda o azione (beh, come, cosa), e inglobano altresì formule di cortesia (per es. complimenti, evviva, alla salute), di saluto (buongiorno, ciao, arrivederci), invocazioni (Dio, Gesù) e imprecazioni

(accidenti, boia, cavolo).31 Trattandosi ancora una volta di elementi lessicali, la loro annotazione sul dato multimediale sarà effettuata solo allorché appaiono in concomitanza con altri tratti semiotici significativi. Come per i segnali discorsivi, anche per questa etichetta molti sono stati gli studi condotti al riguardo nell’ambito della traduzione audiovisiva (Cuenca 2006; Matamala 2007; Magazzino 2008). Da questi contributi, in prospettiva contrastiva, emerge che, fatta eccezione per le questioni relative alle varie classificazioni interne (interiezioni primarie/secondarie), le problematiche teoriche relative alle interiezioni sono simili in tutte le lingue, per lo meno a livello europeo (Matamala 2004). Inoltre, è prevedibile che una parte delle interiezioni e dei segnali discorsivi annotati sul testo esaminato, notoriamente di post-produzione, siano direttamente riconducibili al processo di traduzione/adattamento della sceneggiatura e, in tal caso, è altresì prevedibile che siano state tradotte in base a corrispondenze più o meno convenzionalizzate; d’altro canto, sussisterà invece una porzione di tali elementi aggiunti spontaneamente in fase di recitazione/doppiaggio, inseriti a supporto e a compensazione di aspetti cinesici, mimici e gestuali e, per questo, ancorati a un uso “autentico” della lingua in contesto.

Infine, l’ultima etichetta di questo gruppo abbreviazioni/acronimi indica quei fenomeni di troncamento e contrazione grafica di una parola, caratteristici di alcune varietà di lingua specifiche, come l’argot in francese e, trasversalmente, il linguaggio giovanile, oppure di terminologie di settori specialistici. Per acronimi s’intendono, invece, quei vocaboli che risultano dalla pronuncia di lettere o sillabe iniziali adoperate in funzione di sigla, e utilizzati a volte, rispetto a quest’ultima denominazione, come sinonimo (Serianni 1991: 737).

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La tradizione grammaticale distingue tra interiezioni primarie che hanno sempre e soltanto valore interiettivo (ohibò, bah, sciò), e le interiezioni secondarie, parti del discorso autonome che possono essere usate anche con questa funzione (avverbi: fuori!; sostantivi: guai! verbi:

andiamo!). Le interiezioni primarie e secondarie sono alla base delle locuzioni interiettive