2. Il crowdfunding per il portico di San Luca
2.3. Modelli di crowdfunding a confronto
Come si accennava precedentemente, “Un passo per San Luca” è stata una campagna di crowdfunding civico di tipo reward-based. Con questo termine ci si riferisce a tutte quelle campagne che si basano sulle ricompense. Esistono infatti vari tipi di crowdfunding a seconda del metodo utilizzato per raccogliere i fondi, e in particolare del ritorno di cui beneficiano i sostenitori a fronte dei loro contributi (Piattelli, 2013; Kraus et al., 2016). Sulla base di questo criterio la maggior parte degli studiosi concorda nel distinguere quattro diversi modelli di
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crowdfunding: donation-based, reward-based, equity-based e lending-based (Piattelli, 2013; Belleflamme, Lambert e Schwienbacher, 2014; Mollick, 2014; Zheng et al., 2015; Kraus et al., 2016).
Il primo modello, come suggerisce il nome, è fondato sulla raccolta di semplici donazioni. Ogni contributo versato è di natura esclusivamente filantropica, a fronte del quale il donatore non riceve nulla in cambio, se non in termini di soddisfazione personale e ringraziamenti da parte dei promotori della campagna (Piattelli, 2013; Mollick, 2014; Zheng et al., 2015; Kraus et al., 2016). Si tratta del metodo più tradizionale, che di fatto differisce dalle normali raccolte di donazioni solamente per l’impiego delle tecnologie e del web 2.0 come infrastruttura attraverso la quale condurre la campagna e ricevere i contributi (Kraus et al., 2016). Come afferma Piattelli (2013), con ogni probabilità il modello donation-based è quello che ha dato origine al fenomeno del crowdfunding nel suo complesso. Un modello di questo tipo si presta molto bene per progetti di raccolta fondi di carattere civico e sociale, caratterizzati dalla capacità di esercitare un forte impatto emotivo su un gruppo di persone fortemente interessate alla causa in questione. Affinché una campagna di questo tipo abbia successo deve fare leva su un pubblico di sostenitori animato dall’altruismo ed estremamente coinvolto dal punto di vista emotivo, al punto da essere disposto a donare senza ricevere nulla in cambio (Barollo e Castrataro, 2013; Piattelli, 2013; Zheng et al., 2015).
Anche nel modello reward-based il sostenitore effettua una donazione, ma in questo caso riceve in cambio una ricompensa. L’entità della ricompensa è estremamente varia: può trattarsi di un bene, di un servizio, oppure della possibilità di usufruire di determinati sconti. In diversi casi a una stessa campagna sono associati vari tipi di ricompense proporzionate all’importo donato (Piattelli, 2013; Mollick, 2014; Zheng et al., 2015; Xu et al., 2016). A livello generale il modello
reward-based è il più diffuso (Mollick, 2014; Kraus et al., 2016) e secondo Barollo (citato da
Giannola e Riotta, 2013) sarebbe la tipologia più adatta alla realtà italiana. Come il donation-
based è adatto per progetti in ambito civico e sociale. Rispetto a quest’ultimo però, il
crowdfunding basato sulle ricompense è particolarmente adatto per campagne che mirano ad ampliare la base dei potenziali donatori: il fatto di ricevere qualcosa in cambio costituisce infatti un ulteriore incentivo a contribuire (Barollo e Castrataro, 2013). Secondo Balboni, Kocollari e Pais (2014) il modello reward-based ha maggiori possibilità di successo perché i sostenitori non vogliono limitarsi a fare donazioni a fondo perduto, ma preferiscono contribuire a una causa comune prendendo parte a un progetto che preveda elementi di reciprocità, anche solo di natura simbolica.
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Un altro importante ambito di applicazione del modello reward-based consiste nella prevendita di un prodotto. Un imprenditore può decidere di fare ricorso al crowdfunding per vendere un bene o un servizio. Una soluzione di questo tipo offre il vantaggio di permettere la raccolta del denaro derivante dalle vendite ancor prima che il prodotto sia entrato in fase di produzione (Barollo e Castrataro, 2013; Piattelli, 2013; Belleflamme, Lambert e Schwienbacher, 2014; Mollick, 2014; Kraus et al., 2016; Xu et al., 2016). Pratiche di questo tipo sono del resto ormai diffuse in campo artistico, in modo particolare per finanziare la realizzazione di film e la registrazione di album musicali (Piattelli, 2013; Mollick, 2014; Xu et al., 2016).
Ad ogni modo, anche quando il crowdfunding reward-based viene impiegato in ambito commerciale, «l’imprenditore può rimanere indipendente e non ha bisogno di aprire il capitale sociale a terzi per finanziare la propria attività» (Piattelli, 2013, p. 12), cosa che invece accade nel modello equity-based. In questo caso, infatti, al centro della campagna di crowdfunding vi è una società, e colui che investe denaro in essa ne diviene contestualmente socio, ricevendo in cambio una quota di azioni proporzionata alla somma versata (Piattelli, 2013; Belleflamme, Lambert e Schwienbacher, 2014; Zheng et al., 2015). In realtà questa tipologia di crowdfunding è più complessa rispetto alle precedenti, anche in virtù dei diversi sistemi di regolamentazione in vigore nei vari paesi (Piattelli, 2013). Ad ogni modo, come si evince da questa descrizione, il modello equity-based trova applicazione quasi esclusivamente in ambito finanziario e imprenditoriale, mentre non è adatto per sostenere progetti di carattere civico (Barollo e Castrataro, 2013).
L’ultimo modello è il crowdfunding lending-based (o crowdlending, o ancora lending
crowdfunding). In questo caso, come suggerisce il nome, il denaro versato dal sostenitore non
viene né donato, né ricompensato con un corrispettivo, né convertito in una partecipazione azionaria, bensì momentaneamente prestato in favore di una società o un progetto, e in un secondo momento verrà restituito secondo le condizioni stabilite al momento del versamento. Una delle principali differenze tra il crowdlending e i normali prestiti erogati dagli istituti di credito è che nel primo caso il finanziamento viene concesso in maniera peer-to-peer, ossia tra pari (Piattelli, 2013; Mollick, 2014; Zheng et al., 2015). Quando il crowdfunding lending-based trova applicazione in ambito civico, molto spesso si assiste a una pubblica amministrazione che chiede in prestito ai cittadini la somma di denaro necessaria per realizzare un’opera o un’infrastruttura destinata ad andare a vantaggio della comunità (Barollo e Castrataro, 2013). Oltre ai quattro modelli finora descritti, più di recente si sta assistendo all’emergere di una nuova tipologia di crowdfunding, denominata royalty-based. Come suggerisce il nome, in questo caso, a fronte di un contributo iniziale, i sostenitori ricevono in cambio una quota dei
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guadagni derivanti dalla commercializzazione di opere protette dal diritto d’autore (Pais e Castrataro, 2014; Belleflamme, Omrani e Peitz, 2015).
A livello italiano il modello dominante è quello reward-based. Secondo uno studio realizzato da Balboni, Kocollari e Pais (2014) più della metà delle piattaforme di crowdfunding presenti in Italia sono basate sulle ricompense, e se ad esse si sommano quelle basate sulle donazioni si arriva all’89% del mercato. Nel più recente report realizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore (2015), queste due categorie sembrano aver subito un leggero ridimensionamento, soprattutto in favore del modello equity-based. Ad ogni modo le piattaforme di tipo reward-
based continuerebbero a mantenere il primato con una quota di mercato del 45%, seguite da
quelle donation-based e equity-based, entrambe al 19%. A questi numeri si somma un ulteriore 12% rappresentato da piattaforme che adottano un modello misto basato sia sulle donazioni che sulle ricompense, mentre la quota di mercato di quelle basate sul prestito appare al momento ancora residuale.
La suddivisione descritta fino ad ora si basa sulla contropartita che i sostenitori ricevono a fronte del loro contributo economico. Esiste però una seconda suddivisione, fondata sulla modalità di trattamento e impiego dei fondi raccolti. Secondo questo principio i progetti e le piattaforme di crowdfunding si distinguono in due tipologie: da un lato quelli che adottano il sistema all-or-
nothing, dall’altro quelli che si basano sul modello keep-it-all (Gerber e Hui, 2013; Pais e
Castrataro, 2014).
Il primo prevede che, per poter ricevere i finanziamenti, i progetti debbano necessariamente raggiungere l’importo prefissato come obiettivo. Il denaro non viene trasferito dai sostenitori ai promotori fino a quando ciò non è avvenuto; in caso contrario i fondi rimangono ai sostenitori. Come si può comprendere dal termine stesso, il modello all-or-nothing è caratterizzato da una netta polarizzazione tra successo e fallimento, e di conseguenza da una forte enfasi sull’obiettivo. In questi casi diventa cruciale fissare l’importo desiderato in modo tale da poterlo raggiungere, altrimenti il progetto non riceverà nulla. La principale piattaforma di crowdfunding all-or-nothing è Kickstarter (Hui, Gerber e Greenberg, 2012; Barollo e Castrataro, 2013; Etter, Grossglauser e Thiran, 2013; Gerber e Hui, 2013; Pais e Castrataro, 2014).
Il modello keep-it-all (definito anche all-and-more o keep-what-you-raise) si basa su una logica diversa. Indipendentemente dal raggiungimento o meno dell’obiettivo prefissato, tutti i fondi raccolti arrivano ai promotori già a partire dal momento in cui le donazioni vengono effettuate e possono essere interamente impiegati in favore dell’iniziativa. Di conseguenza lo spartiacque tra successo e insuccesso è meno netto, mentre risulta più importante il grado di
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raggiungimento. Le più note piattaforme che prevedono il modello keep-it-all sono Indiegogo e Rockethub (Hui, Gerber e Greenberg, 2012; Gerber e Hui, 2013; Pais e Castrataro, 2014). Ciascuno dei due modelli ha i suoi pro e i suoi contro. Da un lato il modello keep-it-all appare più elastico e permette anche ai progetti che non raggiungono l’obiettivo prefissato di raccogliere una quota di fondi che potranno essere poi integrati attraverso altre modalità. In questo modo anche i progetti “falliti” avrebbero comunque buone possibilità di vedere la luce, del tutto o quantomeno in parte. Tuttavia, proprio in virtù della forte polarizzazione che è in grado di creare, il modello all-or-nothing in molti casi sembra essere più efficace: la forte enfasi sull’obiettivo da raggiungere funziona spesso da stimolo per i sostenitori, che risultano più motivati a contribuire per scongiurare un possibile fallimento del progetto. Inoltre, alcuni sostenitori affermano di avere dubbi sul fatto che una raccolta di denaro parziale, consentita nel caso del modello keep-it-all, possa condurre a risultati efficaci (Gerber e Hui, 2013). In definitiva la scelta tra i due modelli dipende molto dalle specifiche circostanze, e soprattutto dal tipo di progetto che si intende realizzare. “Un passo per San Luca” ha adottato un modello di tipo keep-it-all fissando un obiettivo molto alto: in questo modo, qualunque fosse stato l’esito della campagna, i fondi raccolti sarebbero stati comunque impiegati per le operazioni di restauro del portico.