• Non ci sono risultati.

SULLA MODERNITÀ DEL CLASSICO

Franco Stella

Il possibile accordo delle due nozioni - classico e moderno - che nel secolo scorso sono state perlopiù pensate e praticate come antagonistiche, trova, a mio avviso, un sicuro fonda- mento nella razionalità dell’architettura classica antica, espressa nella sintesi vitruviana di firmitas - utilitas - venustas. L’archi- tettura, intesa al tempo stesso come scienza e arte della co- struzione, è affidata a requisiti quali la stabilità e l’utilità, di- pendenti da convenienze tecniche e sociali in continuo diveni- re, e a un requisito quasi assoluto, la bellezza, in rapporto con i caratteri di permanenza dei sentimenti e dell’intelligenza umana delle forme. E’ un’idea di architettura che suggerisce al tempo stesso la necessità dell’imitazione e dell’innovazione delle forme, perché siano intellegibili e perché siano ogni volta in accordo con le peculiarità dell’occasione.

Già nel primo grande confronto del Nuovo con l’Antico, nel- l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, il rinnovamento delle forme, che si affidava a un esplicito rapporto con quelle del- l’antichità greca e romana, è indirizzato dall’ideale della “mo- dernità”. Un analogo ideale di “modernità” delle forme si ripropose nel corso del Settecento, con il tentativo della cultu- ra illuminista di accordare l’architettura agli ideali di una radi- cale riforma sociale, attraverso una nuova riflessione sull’An- tico, che si contrappone sia alla ripetizione delle forme di una Tradizione immobile, sia al loro stravolgimento in nome di una Tecnica in divenire.

L’interpretazione barocca del classicismo è denunciata come un apparato decorativo che nasconde mille licenze ed arbitri, una vuota rappresentazione di prestigio di un’ideologia con-

servatrice. Più in generale, la dottrina vitruviana degli ordini, cardine dell’insegnamento scolastico, è imputata di alimenta- re un estenuante dibattito sulla colonna e sulle proporzioni fon- dato su un’idea della tradizione, che non solo misconosce la produzione di civiltà diverse da quella greco-romana, ma limi- ta le possibilità della sua stessa conoscenza.

Significativamente, le prime energiche contestazioni allo stato delle cose provengono da teologi e filosofi, da frà Carlo Lodoli e dagli abati Cordemoy e Laugier. “Nulla metter si dee in rap- presentazione che non sia anche in funzione”: all’imperativo così perentoriamente enunciato dal Lodoli, Laugier nel suo

Trattato di Architettura (1756) offre il sostegno dell’archi- tettura delle origini, con il modello della capanna rustica. “Quat- tro tronchi perpendicolari disposti in quadrato, riuniti da altri quattro di traverso, su cui poggia una specie di tetto formato da altri rami inclinati a spiovente, che si riuniscono a punta nel mezzo” costituiscono la dimostrazione della coincidenza pri- mitiva degli elementi dell’ordine (colonna, trabeazione, frontone) con quelli della costruzione. Un teorema che non viene fonda- to dall’autorità di una qualche nuova scoperta archeologica, ma dalla volontà di stabilire una regola per l’architettura, in modo che l’architetto “possa dire che cosa è bene o male, non soltanto per il semplice istinto, ma per ragionamento e da uomo istruito sulle vie del bello”. Anziché ripetere l’obiezione, subito avanzata da numerosi critici, dell’improbabilità di quell’origi- naria coincidenza dell’architettura con la costruzione, si può osservare che essa promuoveva l’arbitrio piuttosto che una nuova regola, come Laugier stesso finisce con l’ammettere:

“Che cosa resta all’architetto? Restano le forme, che l’archi- tetto può variare all’infinito, come fa il musicista con le sette note musicali, gli resta il rilievo che procurano le colonne, gli restano le proporzioni.”

Qualche tempo dopo, nella Francia ormai alla vigilia della Ri- voluzione, la ricerca di significato delle forme, insoddisfatta dalla verità della costruzione prospettata da Laugier, si rivolge allo studio delle proprietà dei corpi di agire sui sentimenti, alla “théorie des corps” indicata da Boullée nel suo scritto

Architecture. Essai sur l’art, pubblicato nel 1790.

L’architettura può e deve promuovere, attraverso i sentimenti che le forme possono suscitare, l’uomo sociale rinnovato: “la bellezza domina gli uomini e il carattere dei monumenti come la loro natura serve alla diffusione e al miglioramento dei co- stumi”, ribadisce qualche anno dopo anche Ledoux nella sua

Architecture considérée sous le rapport de l’art, des moeurs et de la législation.

Si può dire che anche la ricerca sulla geometria dei sentimen- ti, come già quella sugli archetipi tecnico-costruttivi, risolve le tradizionali classificazioni e gerarchie nello spazio e nel tem- po, restituendo all’architettura una prospettiva unitaria. Per la rappresentazione intellegibile del carattere di un determinato edificio, interessa l’elemento di persistenza nell’evoluzione sto- rica delle forme, la forma il più possibile universale di una determinata idea-sentimento.“Mettere del carattere in un’opera - dice Boullée - significa impiegare al modo giusto tutti i mezzi idonei per non farci provare altre sensazioni oltre quelle carat- teristiche del soggetto stesso”.

Attraversata da questa aspirazione, la Storia rivela agli archi- tetti le virtù edificanti di figure e luoghi analoghi a quelli antichi e la loro diffusione ben oltre i tradizionali confini storici e geo- grafici fissati dal classicismo ormai da più di tre secoli. Nei progetti dei grandi monumenti collettivi - il Palazzo di Giusti- zia, il Teatro, la Chiesa, la Biblioteca, il Museo, il Cenotafio o il Cimitero - le figure del quadrato, del cerchio e della croce si impongono nelle piante; quelle del cubo, della piramide e della sfera nei volumi; i muri serrati e i colonnati nei recinti: sono figure dettate non da un astratto ésprit de géométrie, ma dal- la convinzione della loro capacità, ovunque sperimentata, di rappresentare il carattere che ciascun edificio deve esprime- re. In rapporto razionale con la Tradizione, si ridefinisce an- che lo spazio dell’invenzione dell’architetto, non tanto nella

sintonizzazione delle forme alle variazioni del gusto e delle mode, quanto nella rielaborazione e sviluppo del repertorio tipologico e compositivo: ad esempio, con l’introduzione di fi- gure di universale evidenza simbolica, seppure ancora inedite nell’architettura - si pensi alla sfera nei progetti dei monumen- ti commemorativo - o con la risignificazione di modelli antichi, ad esempio nell’idea boullesiana della biblioteca come “anfi- teatro dei libri”, o, più generalmente, attraverso nuove compo- sizioni di elementi tipici.

Pochi anni dopo la Rivoluzione, Durand, allievo prediletto di Boullée, spiega il suo interesse per gli edifici antichi con una motivazione affatto diversa da quella del suo maestro. Nel suo Précìs des leçons d’architecture données a l’École

Polytechnique (1802-1805), afferma che “non ci si deve aspettare che l’architettura piaccia, visto che è impossibile che non piaccia, né cercare la varietà, gli effetti o il carattere degli edifici, visto che è impossibile che non abbiano questa qualità”. Non più dunque la bellezza, l’emozione o il carattere, ma l’utilità pubblica e privata, intesa come economia in rap- porto alla convenienza, diventa la ragione dichiarata per cui Durand indirizza la composizione architettonica degli elementi e delle parti di tutti i generi degli edifici verso figure e luoghi analoghi a quelli antichi, che egli stesso qualche anno prima aveva raccolto, confrontato e divulgato. “Le forme più sim- metriche, più semplici, più regolari quali il cerchio, il quadrato, il parallelogramma poco allungato sono le più favorevoli per- ché contengono una pari superficie con uno sviluppo perime- trale minore di ogni altro”. Una ragione importante, che da sola non basta a spiegare le figure e le forme tipologiche cui in realtà tendono le “composizioni” del professor Durand: nelle sue parole, assai più che nei suoi progetti didattici, può tro- vare a mio avviso giustificazione la critica ricorrente alla sua idea dell’architettura come astratta “ars combinatoria” applicabile ai più diversi contenuti figurativi, addirittura anticipatrice delle dissoluzioni tipologiche delle sperimentazio- ni di avanguardia del ventesimo secolo. Negli stessi anni, con analoga urgenza di trovare le forme adeguate per nuovi e vecchi scopi degli edifici nel divenire della società tedesca, Schinkel ritornava a indicare nel carattere, nella “massima fedeltà pos- sibile a ciò che si deve rappresentare”, il principale requisito della rappresentazione artistica: “come la statua e il dipinto devono esprimere uno stato ad essa anteposto, l’opera di ar-

chitettura deve esprimere uno scopo in essa prestabilito, o assumere una fisionomia conforme allo scopo: il suo valore artistico cresce con l’autenticità di questa fisionomia o di que- sto carattere”(1805). Un’idea del carattere che Schinkel che più in generale enuncia nell’idea dell’architettura come “co- struzione elevata dal sentimento”.

Dapprima in nome della Tecnica (la coincidenza con la co-

struzione di Laugier), poi della Bellezza (il carattere di Boullée, Ledoux o di Schinkel) e dell’Utilità (la ricerca della forma più economica della convenienza di Durand): tutte le indicazioni che la ricerca razionale della cultura dell’Illuminismo desume dalla Storia per il rinnovamento dell’architettura convergono nel ribadire l’importanza di alcuni principi dell’architettura clas- sico-antica: le figure geometriche semplici, la coesistenza nel- le costruzioni di muri e di colonne quali elementi con autono- mo significato proprio, la simmetria e la proporzione fondata sull’analogia con la Natura, pur sempre metaforicamente rap- presentata dall’“uomo vitruviano”, che rimane il modello di riferimento anche della moderna “sensibilità” dei fatti architettonici. Al punto che l’architettura che si è affidata a quei principi, viene indicata per la prima volta esplicitamente con il termine “classico”(neo-classico): basti qui dire che si sono formati alla scuola di Durand, architetti quali Leo von Klenze, o Wenzeslaus Coudray, l’architetto di Weimar al tem- po di Goethe, che pubblicherà l’edizione tedesca del Précis nel 1831, con l’approvazione del suo celebre protettore. Alle ragioni che sostengono quell’idea di architettura si con- trappongono ben presto quelle alimentate dall’impetuoso pro- gresso della tecnica, che spingono al riconoscimento dell’au- tonomia del sapere dell’ingegnere da quello dell’architetto, e alla pretesa di un suo ruolo dominante, se non esclusivo, nel progetto degli edifici. Tanto l’ingegnere è sollecitato all’inno- vazione delle forme al passo con le possibilità dei nuovi mate- riali e tecniche costruttive, quanto l’architetto a regredire, in sintonia con il conservatorismo della sua committenza, verso l’eclettica ripetizione delle forme della Tradizione.

E’ significativo dello stato delle cose nella seconda metà del secolo in molti paesi europei, il fatto che la nomina a professo- re di teoria alla École des Beaux Arts (1863) di Viollet Le Duc, singolare figura di architetto - ingegnere che tentava una nuova sintesi fra le ragioni dell’imitazione e dell’innovazione delle forme, abbia incontrato l’opposizione degli studenti che

si appellavano a Durand, e più precisamente al suo Recueil

et parallèle des édifices de tout genre, anciens et modernes

(1800) e non piuttosto al suo Précis, dichiaratamente polemi- co contro l’uso dogmatico e decorativo del sistema degli ordi- ni inteso come grammatica del “linguaggio classico” in archi- tettura. Come già un secolo prima, l’architettura sembrava avere smarrito la capacità di testimoniare la ragion d’essere delle sue forme; l’obiettivo del loro rinnovamento si impose progressivamente nella cultura e nella pratica dell’architettu- ra europea, alla soglia del XX secolo. Si presenta con caratte- ristiche originali e con esiti profondamente diversi dai prece- denti tentativi di modernizzazione, che come abbiamo visto si erano dispiegati all’insegna del “ritorno all’antico”. Come mai prima di allora, nel corso della sua storia, l’architettura viene ora sollecitata a cercare nella Natura e nella Tecnica, al di fuori dal confronto con sé stessa (con la sua propria Storia), la giustificazione delle nuove forme dell’intero universo urbano - dallo spazio aperto ai tipi edilizi e al loro “linguaggio” - che si vogliono funzionali alle trasformazioni della società e alle modificazioni di comportamenti e sentimenti degli abitanti. Le innovazioni urbane, particolarmente sollecitate dalla diffusio- ne dei mezzi di trasporto individuali, e quelle tipologico-edilizie, particolarmente sollecitate dallo scopo di un miglioramento della condizione abitativa nella grande città, si impongono come temi centrali nella cultura architettonica europea all’inizio del se- colo scorso. Della Natura e della Tecnica che diventano i nuovi esclusivi referenti del progetto moderno ci parlano gli stravolgimenti di misura e di figura dei luoghi e degli edifici intervenuti nella costruzione della città europea del dopoguer- ra, attraverso una incessante sperimentazione del nuovo, non più giustificabile con gli ideali della cultura architettonica degli anni Venti-Trenta.

Il “linguaggio” è solo un particolare aspetto di un generale pro- cesso di trasfigurazione urbana ed edilizia: un aspetto che, in virtù della sua immediatezza simbolica, spesso ne adombra altri di ben maggiore importanza (ad esempio la tipologia e la volumetria degli edifici o le loro relazioni urbane) diventando un autonomo criterio di valutazione. Forse all’origine della spropo- sitata importanza che gli viene perlopiù attribuita c’è l’idea che le innovazioni tecnico-costruttive abbiano un “linguaggio” pro- prio, ad esempio quello che negli anni Trenta quello si è riassun- to nelle convenzioni figurative dell’international style, poi va-

riamente manipolate negli sviluppi del progetto moderno. Il non voler rinunciare a materiali e tecniche di una costruzione

progredita, in realtà spesso nient’altro che uno scheletro “inesponibile” e “inabitabile”, può essere una ragione convincen- te per il congedo dall’architettura di muri e di colonne, e dalle regolesenza tempo della rappresentazione della costruzione? La distinzione, che da sempre caratterizza l’architettura di muri e di colonne, fra l’Erscheinungsform (la costruzione in rap- presentazione) e la Konstruktion (la costruzione in funzione) significa al tempo stesso la possibilità della permanenza dei

corpi dell’architettura e il continuo adeguamento dei corpi

della costruzione alle innovazioni tecniche e impiantistiche del tempo. Quasi una ovvietà dire in conclusione che la pro- spettiva di un’architettura al tempo stesso classica e raziona- le, corrispondente a un’idea umanistica della modernità, si con- trappone oggi con forza alla ricerca di forme bizzarre e im- magini spettacolari, che applaudono, e sono applaudite, dall’insignificanza della realtà e della memoria nella società mediatica globalizzata, che al meglio si dispiega in una città di autistici pezzi unici, di loghi per turisti e consumatori, piuttosto che di luoghi per abitanti e cittadini.