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SCARICHI DI RESPONSABILITÀ

Elvio Manganaro

nei termini di economia della cultura, una fruizione del monu-

mento-documento che nel profitto mutua la primaria istanza di conservazione. E questo è più vero per quei tessuti antropici che, a fronte di una modesta quotazione nella borsa valori del patrimonio nazionale, necessitano di tempestiva valorizzazio- ne, pena il rischio del decadimento, non della funzione docu- mentaria, che al più potrà rincrescere qualche storico, quanto del vantaggio competitivo che la nozione di antico e storicizzato sembra garantire nei termini di presunta appetibilità turistica. Al punto che oggi è difficile rintracciare nella attuale prassi urbanistica quella dialettica elementare, tra conservatori pe- danti e un po’ codini e i fautori del moderno a ogni costo, che Rogers vedeva ergersi, come contrapposti formalismi, a con- tesa dei destini delle città.

Così, a conferma di quella arbitrarietà con cui sempre le ge- nerazioni hanno regolato i loro rapporti con l’antico (si veda quanto scritto da Settis alcuni anni fa), ma più generalmente con ogni sorta di lascito delle generazioni precedenti, bisogne- rà oggi fare i conti con l’attuale “imperativo museale”. Ma se è lecito far discendere l’attuale ideologia museale dal riegliano

culto moderno dei monumenti, in quanto decisivo fu lo spo- stare il problema del monumento da un principio di catalogazio- ne a un’esperienza di ricezione estetica, secondo una modalità che, proprio in quanto estranea agli apparati conoscitivi e codi- ficati dalla storia dell’arte, consente per sua natura una declina- zione di massa, va da sé che ricondurre tale Denkmalkultus alle dinamiche del mercato è passo fin troppo breve.

me operativamente, in contesto storicizzato, secondo due prassi limite e apparentemente divergenti, che veicolano le possibilità di intervento: ovvero la pratica del “reversibile” e quella “archeologica”.

Dei presupposti sottesi alle formule del “temporaneo” e del “re- versibile” è facile rintracciare l’origine in quelle istanze, oggi culturalmente egemoni, che lavorano a equiparare la responsa- bilità dell’architetto a quella di designer. Ora tale modalità del “reversibile”, in quanto eminentemente leggera, culturalmente oltre che fisicamente, lo è soprattutto storicamente, perché ri- fiuta a priori un confronto dialettico con una realtà intesa nel suo farsi storico, ma la assume alla sola condizione presente, detto altrimenti, per chi abbia una qualche familiarità con la lin- guistica, negli esclusivi termini di sincronia. Così appare eviden- te che stringendo il campo all’oggetto, perché è evidentemente di oggetti, anche di innegabile qualità formale, che andiamo par- lando, la verifica di questi si esaurirà nella valutazione dei costi e dei benefici, siano essi formali o funzionali, che l’oculato sovraintendente o la comunità locale sapranno certamente com- putare nel migliore dei modi, al fine di valorizzare quel patrimo- nio che sono chiamati a gestire. Ed è interessante notare come tale pratica leggera si coniughi facilmente a un’idea di urbani- stica partecipativa, che ancora ritiene praticabile la risoluzione della marxiana divisione del lavoro attraverso la rimozione della figura dell’intellettuale, nella specie l’architetto, e portando l’in- tera comunità al supermercato del design.

Ma l’opzione del “reversibile” è fuori dalla storia nella misura in cui la pratica che abbiamo detto “archeologica”, ma si sa- rebbe anche potuto dire “storicista”, ne rivendica una conti- nuità più ideale che materiale. Non sarà qui il caso di indugia- re oltremodo sui debiti crociani di una pratica della conserva- zione e del recupero dei tessuti edilizi antichi che nella nozione giovannoniana di ambiente dei monumenti ha la propria ori- gine. E non sembra neanche il caso dilungarsi ulteriormente a descrivere lo statuto di metodologia scientifica che tali pre- messe andranno ad assumere nei procedimenti di ricerca

tipologico-processuale portati avanti dalla scuola romana, chiaramente di sponda muratoriana. Forse più utile è ricorda- re come sia proprio attraverso un allievo di Riegl, ovvero Max Dvoøák, che la conservazione e la relativa tutela del patrimo- nio assumono valore pedagogico e fondativo per una prassi architettonica che si vuole ricondotta al principio esclusivo di

continuità con la storia. Insomma è la conservazione che da disciplina difensiva si emancipa a dare la linea alla nuova architettura e pare superfluo sottolineare come questa linea, dove sempre il nuovo è posto nel solco della tradizione, non possa che definirsi classica, nella accezione, per restare in area tedesca, degli Schinkel o dei Loos. Ma su questo altri hanno già scritto e più analiticamente.

Basti rimarcare, se ce ne fosse infine bisogno, come la ricer- ca di coerenze archeologiche tra lettura e costruzione del nuo- vo, seppur foriera nel laboratorio disciplinare di sintesi scientificamente appaganti, non possa considerarsi estranea (e in questa pretesa risultano evidenti i debiti crociani) ai reali rapporti di produzione culturale, di cui anche l’ideologia “ar- cheologica” è suo malgrado partecipe, almeno quanto il ba-

zar del “reversibile”.

Insomma è ancora una questione di apriorismi attraverso cui risolvere il rapporto con le preesistenze e quindi in breve di

scarichi di responsabilità, abbiano essi un design compia- cente o provocatorio, ma a statuto reversibile e democratica- mente condiviso dalla popolazione, o i crismi di scientificità del

processo tipologico e della nozione di tessuto.

Exit Rogers, con la Lebenswelt, la dialettica del reale e la responsabilità storica e critica che la scelta, sia essa linguisti- ca, tipologica o figurativa, sempre comporta e che non può darsi fuori dai rapporti di produzione storicamente determina- ti. Del progetto, infine, di cui questo testo dovrebbe fornire, almeno nelle intenzioni dei curatori della pubblicazione, ade- guata relazione, sia sufficiente dire che sono proprio i suoi limiti o incertezze (ma non era in fondo un progetto di studen- ti?) a rendere manifesta una linea di condotta che ancora si ritiene non rinunciabile*.

Relazione di progetto

Aramo si è caratterizzata storicamente, nel contesto della Valleriana, come punto di snodo decisivo nei rapporti tra le

Castella della montagna e i crocevia della pianura di Pescia e Montecarlo. La posizione centrale e dominante del rilievo su cui sorge, spartiacque tra la Val di Torbola e la Val di Forfora, mette l’osservatore al centro di una “scena teatrale” da cui è possibile derivare conoscitivamente il sistema di relazioni tra le fortificazioni fiorentine e quelle lucchesi. Parafrasando

Testori, il progetto di un “gran teatro montano” mira così a educare lo sguardo sul rapporto tra le attività umane e il con- testo in cui si trovano, fornendo elementi preliminari ed essen- ziali ad una successiva conoscenza e visita delle dieci Castella circostanti.

Lo studio preliminare della morfologia insediativa e delle tipo- logie edilizie dei diversi borghi è stato riespresso nella fase progettuale secondo un disegno che prova a istruire con l’esi- stente un rapporto di continuità né mimetico né pittoresco. Si sono indagati i manufatti edilizi a ridosso dei più accentuati rilie- vi, l’andamento aderente agli scoscendimenti ed ai terrazzi, i percorsi ripidi che puntano al cuore dell’insediamento e che tal- volta si allargano a formare spazi imprevisti per la socialità, l’im- piego della pietra locale; ossia gli elementi primari della com- plessità e organicità degli insediamenti medievali.

Il progetto si articola lungo un percorso che ha origine nei pressi della strada di accesso ad Aramo per raggiungere la quota 412 di un piccolo rilievo terrazzato alle spalle del borgo. Il visitatore, salendo lungo i crinali dei terrazzamenti, segue un camminamento di ronda protetto da mura. Un centro informa- tivo per il primo approccio con il sistema delle Castella della Valleriana è localizzato alla quota +7 metri rispetto alla strada. È poi possibile scegliere tra un percorso all’aperto, che porta in un’unica tratta alla quota della strada superiore, oppure un per- corso interno alla costruzione che include momenti di conoscenza sempre più approfondita del luogo. Dal centro informativo in- fatti inizia una galleria espositiva che deve far cogliere al visita- tore la storia, ma anche le prospettive future per le Castella, e che si conclude, al piano superiore, in una biblioteca deputata allo studio specifico del contesto. La biblioteca si apre inoltre su una piazzetta, quasi uno slargo del percorso all’aperto, che ospi- ta anche alcune attività commerciali ed artigianali.

Il percorso ascensionale al vero e proprio “teatro montano” comporta l’attraversamento di due schiere di abitazioni per brevi soggiorni, che seguono le curve di livello a cavallo della nuova strada carrabile.

Il “teatro montano” è il luogo simbolico che conclude l’espe- rienza del percorso e allo stesso tempo apre una panoramica vasta e al contempo raccolta sulle Castella*.

* La prima parte del testo è a cura di Elvio Manganaro, il paragrafo “Relazione di progetto” è a cura di Davide Carelli, Irene De Landerset, Massimo Frigerio, Francesca Malvicini.

La capacità di operare sul territorio, attraverso una pianifica- zione attenta degli interventi, nasce dall’attitudine a cogliere le esigenze di una Comunità. La conoscenza del contesto sto- rico ed ambientale, non basta per determinare i parametri utili all’analisi di un sistema complesso come quello che caratte- rizza le valli del Comune di Pescia. Il rispetto per ciò che esi- ste si fonda sulla comprensione dei bisogni che hanno genera- to un certo “tipo” architettonico e non solo sul suo valore este- tico e compositivo.

Sono questi alcuni dei temi che hanno accompagnato la nostra esperienza toscana e che hanno dato l’avvio a delle domande aperte, che ci hanno permesso di formulare un’ipotesi progettuale, finalizzata a porre il cittadino al centro della nostra azione. La richiesta posta dagli organizzatori del workshop era chiara: contribuire a frenare l’esodo di abitanti che dalle valli scendo- no in pianura, valorizzando il territorio a fini turistici e inne- scando un processo virtuoso che potesse risollevare l’econo- mia, nel rispetto della storia di queste vallate.

Il fascino e la forza di questa esperienza va ricercata nel confron- to fra i diversi gruppi di lavoro, nell’eccellente organizzazione messa a disposizione da ISUF Italia e così come sarà chiaro al lettore alla fine di questi contributi, dalla differenza di metodo col quale le varie “scuole” si sono avvicinate al processo progettuale. L’approccio da noi proposto, si basa sul concetto di processo edilizio, inteso come sequenza organizzata di fasi operati-

ve che portano dal rilevamento di esigenze al loro soddisfacimento in termini di produzione edilizia1. In altre parole si può dire che l’idea del progettista, deve necessaria-