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a cura di Monica Pavesio e Laura Rescia

Seicento 319

ma mettendosi al riparo (seppur non riuscendoci) dalle conseguenze di una satira troppo ardita; egli avrebbe contemporaneamente mostrato, grazie ai personaggi di Orgon e Mme Pernelle, il ridicolo della devozione per eccesso di fanatismo.

[laurarescIa]

jean rohou, Les procédés comiques dans

“Andromaque”: effets et raison d’être, «Revue d’histoire

littéraire de la France» 1 varia, mars 2017, pp. 159-184. Rohou recupera il suggerimento di un remoto testo di H. Weinrich (1958), già ripreso da R. Tobin nel 1999 e da J. Emélina nel 2012. L’A. sostiene che negli anni 1666-67, a cui risale la composizione di Andromaque, l’eroismo non è più al centro dell’azione tragica: per- tanto, molti dei comportamenti dei protagonisti della pièce raciniana potrebbero essere riletti alla luce di ca- tegorie della comicità, quali l’autoderisione e i travesti- menti spettacolari e ridicoli. La lettura di Andromaque potrebbe inoltre essere arricchita dall’evocazione degli effetti della teatralità nell’amplificazione della comici- tà. Tuttavia, l’A. precisa che la spettacolarità ludica non andrebbe mai a inficiare il carattere tragico della pièce. [laurarescIa]

trIstan alonge, Racine et Euripide. La révolu-

tion trahie, Genève, Droz, 2017, «Travaux du Grand

Siècle» 43, 414 pp.

Mettere al centro della drammaturgia il personaggio tragico, né del tutto colpevole né del tutto innocente: questa la «rivoluzione raciniana», come Forestier l’ha battezzata, il cambiamento paradigmatico operato ri- spetto alla drammaturgia corneliana, attenta soprattut- to all’intreccio. Dietro a tale mutamento, che realizza il dettato della Poetica aristotelica, ci sarebbe, nell’opi- nione dell’A., un solo e vero modello, Euripide, a cui occorre guardare per comprendere meglio quale sia stato il debito di Racine nei confronti dell’eredità elle- nistica. Se la critica ha sempre privilegiato la compara- zione con Ovidio, con Sofocle o con Seneca, non sono ovviamente mancate le analisi che già assegnavano la priorità allo stesso illustre predecessore, e non solo per la materia delle quattro tragedie ispirate al modello ateniese. Tuttavia uno studio puntuale delle fonti euri- pidee – che, con piacere, constatiamo non sia desueto denominare tali – non era mai stato effettuato. Alonge si è dunque proposto di lavorare in tale direzione, per rispondere fondamentalmente a due interrogativi: Ra- cine sarebbe stato influenzato da Euripide soltanto al termine della sua carriera, come Knight aveva afferma- to in un famoso saggio degli anni Cinquanta? E cosa ne sarebbe stato della sua drammaturgia in assenza di una formazione ellenizzante?

Lo studio si sviluppa su cinque capitoli: il primo è dedicato all’educazione di Racine, alla sua scoperta di Aristotele e della drammaturgia greca; i quattro suc- cessivi sono dedicati rispettivamente a La Thébaïde,

Andromaque, Iphigénie e Phèdre. L’approccio meto-

dologico, che segue la scuola di Forestier e della sua genetica teatrale, si arricchisce di altre tre dimensioni specifiche, che l’autore designa come Bibliothécaire,

Vivante, Interprétative. Si tratta dell’osservazione della

biblioteca dell’autore, dello studio degli aspetti mate- riali del teatro nella loro interazione con la scrittura drammaturgica, e infine dell’esegesi testuale, che tende

a dare risalto alle peculiari interpretazioni e scelte ope- rate dell’autore rispetto alle sue fonti.

Ne emerge il ritratto di un Racine “caméléon”, ca- pace di muoversi tra la sua biblioteca, gli ambienti tea- trali e mondani, mettendoli in relazione in una perfetta sintesi tra erudizione, teatralità e mondanità.

Attraverso questo excursus, l’A. giunge ad afferma- re che Euripide non sarebbe stato un punto d’approdo quanto piuttosto di partenza, e non esclusivamente a livello di intrigo, quanto piuttosto per le tecniche e i meccanismi drammaturgici di produzione di effetti tra- gici. La tragedia euripidea avrebbe consentito a Racine di meglio interpretare i dettami della Poetica aristote- lica, consentendogli di realizzare lo sviluppo moderno dell’interiorizzazione del conflitto tragico.

[laurarescIa]

Allocuzioni di Immortali. Discorsi all’Accademia

francese fra Sei e Settecento, a cura di Mario rIchter,

Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, «CESPES Fonti e Studi», 100 pp.

Il secondo volume della collana CESPES offre in traduzione italiana undici discorsi di accoglienza o di ringraziamento dei nuovi membri dell’Académie, a partire dal 1640, con l’arrivo di Olivier Patru, fino al 1746, data che segna l’ingresso di Voltaire tra gli Im- mortali. Il nuovo genere, venutosi a creare in seno all’i- stituzione delegata al controllo della lingua e del gusto letterario, trova, negli esempi qui forniti, una continui- tà pur nel diverso orientamento dei suoi autori. Così, a fronte di posizioni nettamente conservatrici (Voltaire) o palesemente inneggianti all’assolutismo monarchico (Bossuet, Boileau), si levano voci che, pur sembrando rispettose e docili, rivelano l’orgoglio di un grande au- tore, insofferente delle regole e delle costrizioni artisti- che: così Corneille offre un saggio di sapiente arte re- torica, come suggerisce il curatore Mario Richter, con l’evocazione dell’ineffabilità della sua gioia, dimostran- do di fatto all’Accademia e ai membri che lo avevano criticato «di saper dominare l’arte drammatica fino alla sua più alta espressione, che consiste in un estatico si- lenzio». Oltre all’introduzione generale, il curatore e traduttore presenta ogni singolo discorso con l’aiuto di un cappello iniziale, e lo chiarisce attraverso opportu- ne note storico-letterarie.

[laurarescIa]

jeande la FontaIne, Favole (Libri I-VI), a cura di

L. Pietromarchi, con testo a fronte, Venezia, Marsilio, 2017, «Letteratura universale Marsilio», 518 pp.

«La plus part des fables d’Ésope ont plusieurs sens et intelligences: ceux qui les mythologisent, en choisis- sent quelque visage, qui cadre bien à la fable: mais pour la plupart, ce n’est que le premier visage et superficiel: il y en a d’autres plus vifs, plus essentiels et internes, auxquels ils n’ont sceu penetrer». Così Montaigne (Es-

sais, II, 10), che certo ha presenti, oltre agli incunaboli

del genere, Esopo e Fedro, anche le riscritture favoli- stiche rinascimentali, come La moral filosofia di Doni e

La prima veste dei discorsi degli animali di Firenzuola.

Ma le sue parole a nessuno si attagliano meglio che a uno scrittore di un secolo dopo, a Jean de La Fontaine, la cui prima raccolta di favole, Libri I-VI, che esce nel 1660 – altre ne seguiranno, fino a quella in dodici libri, del 1694 – ci arriva ora nella bella traduzione di Luca

Pietromarchi. Si comprende subito, dall’Introduzione, che Pietromarchi è affascinato dall’«aspetto più vivo, più essenziale ed intimo» delle favole di La Fontaine. Ne mette in luce la raffinatissima eleganza, il legame con lo stile della conversazione mondana, «la novità e la leggerezza», ma anche il suo scrutare, attraverso le maschere degli animali, la dura «realtà terrestre», che ne fa «lo specchio elegante, quanto implacabile, delle violenze del suo tempo».

La Fontaine ha il dono della «grazia», il suo raccon- tare è di una inarrivabile fluidità, proprio per la capa- cità di intrecciare, attraverso la «transizione» – come ben vide Leo Spitzer in un saggio famoso: L’arte delle

«transizione» in La Fontaine – tutti i fili del suo di-

scorso, che è fatto di gesti, di riflessioni, di esprit, di ragione. La favola I,11 si chiude con un omaggio a La Rochefoucauld, al «lago» delle sue Maximes, che riflet- te implacabilmente tutte le manchevolezze dell’animo umano. E molti temi, in effetti, sono comuni ai due scrittori, ma dove il grande moralista è lucido e amaro, La Fontaine «ôte à la vérité sa tristesse, au badinage sa frivolité» (Taine). La traduzione di Pietromarchi ci restituisce felicemente la «grazia» di questo stile, i suoi ritmi, le sue pieghe, la libertà dei «vers variés». Ecco come Dama Volpe – in quella favola che è un remake di una branche del medievale Roman de Renart – par- la allo stupido Caprone, dopo essere uscita dal pozzo, dove erano finiti per dissetarsi, arrampicandosi sulla sua schiena: «“Se di grazia il cielo ti avesse dato | tan- to giudizio quanto barba al mento, | non saresti, così alla leggera, | sceso in questo pozzo. Addio, io ne son fuori. | Tu vedi di uscirne, e provale tutte: | quanto a me, ho un daffare | che non mi permette proprio di aspettare”. | In ogni situazione, occhio alla conclusio- ne». (III, 5).

Quanta brillante eleganza nelle sue favole, ma pro- prio nel momento in cui ci seduce con la dolcezza, con una sorta di insinuante affabilità, ecco che La Fontaine dispiega i suoi pensieri più audaci, lancia le sue frecce più acuminate. È ben consapevole di essere un filoso- fo – polemizza con Cartesio sull’anima degli animali, si richiama a Machiavelli … – e nel Discours à Madame

de la Sablière, dice del suo intento di introdurre nel-

le favole «des traits | de certaine philosophie | subtile, engageante et hardie». Le Loup et l’Agneau (I, 10) è una spietata denuncia della natura del potere, dove «la ragione del più forte è sempre la migliore», della sinuosa ferocia a cui può giungere il suo esercizio. «La Fontaine – scrive Pietromarchi – situa la favola nel più bucolico dei paesaggi, presta all’agnello il più candido dei linguaggi, ma solo per rendere ancora più tagliente la rasoiata del lupo che divora quella parola tanto in- genua e innocente, “senza processo”, come recita l’ul- timo verso. Un ultimo verso da leggersi come estremo omaggio di La Fontaine a Fouquet». E per il sovrinten- dente Fouquet, che Luigi XIV destituisce e getta in pri- gione, La Fontaine, fedele all’amicizia, scrive un’amara

Elegia in suo favore, che circola subito manoscritta.

Tra i protagonisti delle favole spicca il Leone: ra- ramente magnanimo, come nella favola II, 11, dove risparmia un topolino finito fra i suoi artigli per poi essere soccorso da lui e dai suoi denti quando fini- sce prigioniero in una rete, più spesso il Leone è di un’implacabile, gelida violenza, rappresenta il trionfo dell’arbitrio e della sopraffazione. Un grande allegoria politica è la favola La Génisse, la Chêvre et la Brébis en

société avec le Lion (I, 6). L’accordo tra gli animali è di

dividere guadagno e perdita. La Capra cattura un cervo e chiama i suoi soci, e qui la magnifica scena: «Giunti che furono, il Leone sugli artigli contò, | e disse “Siamo

in quattro a dividere la preda”; | quindi il cervo squartò in altrettante parti; | prese per sé la prima in qualità di Sire: | “Questa spetta a me, disse; e la ragione | è che mi chiamo Leone: | su questo non c’è niente da dire: | An- che la seconda, per legge, mi tocca: | questa legge, si sa, è la legge del più forte. | Essendo il più valoroso, mi spetta poi la terza. | Se qualcuno di voi tocca invece la quarta, | parola mia lo uccido”».

Qui l’arma contro i potenti è il sarcasmo, altre volte è il comico e il dileggio, come nella favola II, 9. «“Vat- tene via, misero escremento della terra”. | Così diceva il Leone | un giorno al Moscerino. | L’altro gli dichiarò guerra. | “Ma tu credi, disse, che il tuo titolo di Re | mi faccia davvero paura? | Un bue è più forte di te, | e io lo meno dove mi pare”». Nel duello che ne segue l’im- pavido Moscerino attacca il rivale pungendolo da ogni parte, e quello ruggisce e soccombe: «Il povero Leone si graffia e si morde, | attorno ai fianchi fa schioccare la coda, | frusta l’aria, che è sazia; e dal gran furore | spos- sato, s’abbatte e finisce steso». Ma la storia continua, perché c’è un curioso, sorprendente rovesciamento. «Dalla lotta l’insetto esce vittorioso; | come suonò la carica, suona ora il trionfo, | che ovunque proclama, ma trova sulla via | l’imboscata di un ragno; | e lì tro- va anche la sua fine. | Cosa possiamo trarre da questa vicenda? | Due cose, direi; la prima che tra i nemici | i piccoli sono spesso i più temibili; | l’altra, che a un gran pericolo si può sfuggire, | ma per un niente poi morire».

Nella «morale» dei versi finali, come in tante altre storie, emerge un aspetto essenziale di queste favole: la difficile arte della sopravvivenza. È la ricerca di una possibile, precaria salvezza, attraverso «le piccole virtù proprie ai piccoli animali – così Pietromarchi – che so- no l’astuzia e la parsimonia, la diffidenza e la prudenza, l’operosità e la solidarietà». Nel mondo feroce della violenza e della sopraffazione, si intravede così una sorta di «giardino» – qui La Fontaine, anche attraverso Orazio, è in sintonia con l’epicureismo di Gassendi e del suo amico Saint-Évremond – dove può entrare chi invece del potere, delle ricchezze, dei titoli, sceglie la misura, che non è debolezza e viltà, ma piuttosto «cu- ra di sé». «Una testa col pennacchio | non è fastidio da poco. | Un superbo equipaggio | è sovente in viag- gio | cagione di grave ritardo. | Là dove i piccoli | veloci s’infilano, | i grandi non passano» (IV, 6).

[MarIoMancInI]

La France et l’Europe du Nord au xviie siècle: de

l’Irlande à la Russie, édition de R. MaBer, Tübingen,

Gunter Narr Verlag, 2017, «Biblio 17» 214, 241 pp. Il volume raccoglie una selezione di contributi pre- sentati al XII convegno del Centre International de

Rencontres sur le xviie siècle, svoltosi presso l’Università

di Durham nel 2012.

Le relazioni culturali, letterarie e intellettuali tra la Francia e i paesi del Nord Europa nel Seicento, me- no studiate di quelle con la Spagna o l’Italia, sono di grande importanza e aprono nuovi campi di ricerca in- terdisciplinari agli specialisti del xvII secolo. I diciotto

studi inseriti nel volume e introdotti da P. Ronzeaud, segretario generale del Centre International, analizza- no le relazioni e le influenze reciproche della Francia secentesca con l’Inghilterra, la Germania, la Russia, la Polonia, la Svezia, l’Irlanda e i Paesi Bassi.

Nel primo saggio. R. zaIser (“Imaginatio borealis”:

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