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a cura di Stefano Genetti e Fabio Scotto

guIllauMe aPollInaIre, Poesie per Lou e altri

versi d’amore, a cura di Fabio Scotto, Bagno a Ripoli,

Passigli Editore, 2017, 137 pp.

È ben noto che Lou, nome confidenziale e affet- tivo della nobildonna Louise de Coligny, fu la desti- nataria di una consistente parte dell’attività letteraria di Apollinaire che Michel Décaudin raccolse sotto il titolo Poèmes à Lou, fornendo un’immagine abbastan- za compiuta del corrispondente epistolare e del poeta d’amore durante i primi tempi del conflitto mondiale. Pur alludendo a questa specifica ampia parte dell’ope- ra apollinairiana, Fabio Scotto offre in realtà al lettore, come del resto indica il titolo del presente libretto, una scelta di poesie ritenute particolarmente significative in un quadro che risulta molto più ampio e diversificato. Si leggono così testi, più o meno celebri, tratti dalle varie raccolte e appunto capaci di ritagliare un aspetto di indubbio rilievo e interesse della complessa perso- nalità del poeta. Si può in tal modo riascoltare soprat- tutto l’Apollinaire melodico e sentimentale, quello che più durevolmente ha trovato un’accoglienza di favore, anche tramite i vari adattamenti musicali, in un vasto pubblico. Con le sue traduzioni Fabio Scotto ha sapu- to interpretare nel migliore dei modi questa vena appa- rentemente semplice e quasi popolare di Apollinaire, assicurando un rispetto del testo originale che spesso viene a mancare in altre precedenti traduzioni italiane. Un solo esempio: la prima strofa della Chanson du mal

aimé comporta due versi («Un voyou qui ressemblait

à | Mon amour vint à ma rencontre») che normalmente mettono in difficoltà il traduttore italiano inducendo- lo a trasferire la preposizione «à» nel verso successi- vo e negando in tal modo una importante bivalenza psicologica del testo avvalorata anche dalla rima col successivo «jeta» («Et le regard qu’il me jeta»). Scot- to mantiene invece l’apparente stranezza traducendo «Un bandito che somigliava al | Mio amore mi ven- ne incontro» (aggiungo che una soluzione ancor più aderente alla sottile e importante ambiguità del pas- saggio sarebbe forse stata, per dare maggiore rilievo di inatteso soggetto a «Mon amour», «Un bandito che somigliava al | L’amor mio mi venne incontro»). Mi sia infine consentito un rilievo di dettaglio riguardante la Prefazione, nella quale, fra i cosiddetti «italiens de Pa- ris» dell’entourage di Apollinaire, sono indicati Modi- gliani, De Chirico e Severini. Curiosamente, com’è del resto consuetudine fare anche in altre sedi, si tralascia

il nome di Soffici, che certamente fu, ben più di quelli di solito indicati, l’«italien de Paris» fra i più vicini ad Apollinaire.

[MarIorIchter]

eleonora sParvolI, Proust costruttore melanconi-

co. L’irrealizzabile progetto della “Recherche”, Roma,

Carocci, 2016, «Lingue e Letterature» 217, 207 pp. Nel suo saggio, Eleonora Sparvoli sviluppa un’origi- nale prospettiva basandosi sul concetto di melanconia che non solo sarebbe il nucleo portante del giovane au- tore di Les plaisirs et les jours, ma costituirebbe altresì una chiave per meglio comprendere l’incompiutezza intrinseca alla cattedrale della Recherche. L’attitudine malinconica, ancorandosi sul simbolismo dell’architet- tura gotica per il tramite di Ruskin, viene dunque a co- stituire la zona di manifestazione di quella voce inter- media tra il protagonista e il narratore della Recherche, sostenendo inoltre l’impossibilità a completare il vasto progetto narrativo.

Nel primo capitolo («Melanconia e mania d’uno scrittore in erba», pp. 13-79), l’A. analizza alcuni testi del giovane Proust accomunati da un penchant me- lanconico, che sembrano oltrepassare la temperie fin-

de-siècle per approdare a una costellazione semantica

già proustiana (dallo smodato bisogno di possesso a «un’impotente e solitaria monomania», p. 22). Se in

Jean Santeuil la presenza malinconica apparentemen-

te scompare, alcuni tratti persistono, anzi sembrano comprovati dall’esaltazione vitalistica del protagonista: il carattere melanconico si manifesta, infatti, attraverso polarità opposte.

In «Una terapia?» (pp. 81-122), l’A. rilegge il perio- do ruskiniano di Proust come un tentativo di correg- gere gli eccessi melanconici della giovinezza. Cionono- stante, è proprio l’oscillazione tra esaltazione e depres- sione, propria di Ruskin, che sembra maggiormente attirare il futuro autore della Recherche. Il simbolismo della cattedrale, cui egli accede grazie alle traduzioni di Ruskin e alla figura di Émile Mâle, si caratterizza anzitutto per un afflato costruttivo unitario, cui si op- pongono sia le incompiutezze materiali inevitabili, sia la patina corrosiva del tempo.

Sarà dunque l’ethos dell’architetto a caratterizzare «L’ideale dell’opera» (pp. 123-156), secondo il Proust della maturità. Egli concepisce, infatti, il prontuario

estetico-letterario su cui si chiude Le temps retrouvé come l’estetica di un’opera tanto trascendente quanto irrealizzabile. Eppure, è nella tensione esistente tra il modello architettonico della cattedrale e la sua incom- piutezza che il sostrato malinconico soggiacente si rive- la portatore di verità inedite.

Alle esperienze epifaniche che formano la struttura portante della cattedrale proustiana è dedicato il quar- to e ultimo capitolo del saggio, «L’architettura melan- conica» (pp. 157-196). In esso, Eleonora Sparvoli si concentra su alcune «schegge d’universo che hanno perduto per sempre il legame con un’armonia origina- ria» (p. 163): tra di esse, spicca la riscoperta di François

le Champi nella biblioteca dell’hôtel dei Guermantes.

Un tale tipo di epifania, totalmente immanente, riporta a galla, a differenza delle altre reminiscenze involonta- rie, un preciso momento spazio-temporale legato alla voce materna. È su un tale residuo di esistenza che, malinconicamente e imperfettamente, il cerchio dell’o- pera proustiana cerca di chiudersi.

[davIdevago]

Traduire “À la recherche du temps perdu” de Marcel Proust, sous la direction de Geneviève

henrot sostero et Florence lautel-rIBsteIn, Paris,

Classiques Garnier, 2015, «Revue d’études prous- tiennes» 1, 780 pp.

Questo imponente volume di quasi 800 pagine inau- gura la collana di saggi «Revue d’études proustiennes» (che non è una rivista) diretta da Luc Fraisse per Clas- siques Garnier, offrendo la prima panoramica mondia- le delle traduzioni della Recherche. Cent’anni dopo la pubblicazione di Du côté de chez Swann, s’imponeva un bilancio riguardo alla crescente fortuna del ciclo romanzesco, testimoniata, tra l’altro, dalle numerose traduzioni e ritraduzioni esistenti (sezione 2: Retraduc-

tions): una bibliografia molto dettagliata (pp. 665-755)

illustra l’estensione linguistica raggiunta da questi mol- teplici e ripetuti trasferimenti, dalle grandi lingue mon- diali (inglese, arabo, cinese, spagnolo) a lingue più di nicchia, quali il croato, il bulgaro, il basco. Nel novero, si aggiungono il tedesco, il nederlandese, il norvegese e lo svedese, il russo e il polacco, l’italiano e il catalano, il greco, il turco e il coreano.

Fatta salva qualche rara testimonianza di laborato- rio traduttivo più artigianale, la maggior parte delle riflessioni offerte da studiosi universitari di tutto il mondo fondano la propria analisi, come ci si aspetta, su principi linguistici, semiotici, cognitivi, culturali e traduttologici (si vedano la prefazione del semiotico Jean-Claude coquet, Comment traduire l’expérience?

e la Sezione 1: Enjeux et méthodes della traduttologa anglista Florence lautel-rIBsteIn). Ma l’aspetto più

inedito e originale del volume sta nella sua architettura d’insieme. Non è cronologico, né tipologico, né geolin- guistico, né autoriale il principio d’ordine che federa i cinquantaquattro interventi, bensì un criterio di aggre- gazione stilistico-poetica attorno alle grandi questioni di genesi e di scrittura specifiche della Recherche. Per- tanto, in apertura di ciascuna delle otto sezioni («Re- traductions», «Titres», «Incipit», «Syntaxe», «Sémio- tique et sémantique», «Lexique et realia», «Intertextes et intersignes», «Oralité»), uno stato aggiornato della questione vista in primis dal lato di Proust creatore apre il dibattito focalizzandolo sulla specificità dello stile proustiano e sulla posta in gioco del trasferimen- to linguistico; serve inoltre a coordinare il confronto tra le varie problematiche e soluzioni individuate poi

nelle traduzioni. Tale organizzazione del volume, oltre a evitare l’effetto monadico, dispersivo delle questioni formali suscitate ripetutamente dalle singole traduzio- ni, predispone un terreno di dialogo poetico-tradutto- logico e d’incontro ravvicinato fra lingue e culture, in un concerto di voci ben orchestrato.

Il volume apre un ampio campo di studi, proponen- dosi come uno strumento efficace per orientare le futu- re ricerche traduttologiche sull’opera di Proust.

[ludovIcoMonacI]

Proust en perspectives: visions et révisions, sous

la direction de Katherine kolB et Armine kotIn

MortIMer, Paris, Classiques Garnier, 2015, «Revue

d’études proustiennes» 2, 375 pp.

Convocato oltre oceano per festeggiare il ricor- do di Philip Kolb (1907-1997), eminente proustiano americano noto per avere procurato la monumentale

Correspondance di Marcel Proust presso Plon (21 vol.,

1970-1993), e per inaugurare l’apertura del Kolb- Proust Archive (aprile 2000), il consesso all’origine di questo libro apriva anche al terzo millennio, sulla Re-

cherche, un discorso critico di estensione decisamente

mondiale. Diede luogo a una pubblicazione in lingua inglese, uscita nel 2002. A quindici anni di distanza, non avendo perso nulla della sua attualità e fecondi- tà, il volume viene riproposto, in lingua francese, dalla neonata «Revue d’études proustiennes». Il volume, che testimonia questo feuilleté del tempo critico e storico grazie a Françoise lerIche (Quinze ans après:

perspectives sur les “perspectives”, pp. 13-17), ci invita

a “rivedere” la nostra concezione della Recherche at- traverso una grande diversità di approcci sia storici che strutturali e genetici: le sue quattro sezioni presentano una sorta di bilancio critico delle molteplici letture, a volte divergenti, che si danno della Recherche nell’epo- ca contemporanea.

La prima sezione («Écrire la Recherche») raccoglie studi relativi alla genesi dell’opera. Luc FraIsse (Philip

Kolb, dans les coulisses de la “Recherche”, pp. 43-57),

mette in luce l’apporto della corrispondenza procura- ta da Kolb per le attuali ricerche genetiche, in quanto Proust fornisce nei suoi carteggi numerose informa- zioni fondamentali sulla nascita e la formazione del romanzo. William carter si sofferma sull’opzione,

difficile, esitante e ambigua per Proust, del genere “romanzo” e sulla definizione di una “voce” propria («Suis-je romancier?» Marcel Proust à la recherche d’un

genre, pp. 59-75). Anthony Pugh ricostruisce minu-

tamente le tappe di scrittura dell’ultimo paragrafo del primo volume (La fin de “Du côté de chez Swann”, pp. 91-103). All’altro capo del processo creativo, Chri- stine cano (La mort sous les mots, pp. 77-89) interroga

lo stato incompiuto del romanzo nelle sue varie ver- sioni pubblicate. In La «Ruine de Venise». Restaura-

tions éditoriales, réalités génétiques, enjeux esthétiques

(pp. 107-122), Nathalie MaurIac dyer vede nell’epi-

sodio, attraverso le metamorfosi dei manoscritti, un ritorno-pastiche su uno stereotipo fin-de-siècle. Mentre Alberto Beretta-anguIssola sottolinea l’importanza

della sofferenza morale nella Recherche, focalizzandosi su alcune figure espiatorie (Proust et les boucs émissai-

res. De Saniette à Dreyfus, pp. 123-136).

La seconda sezione («Le savoir des mots») mette a fuoco da varie angolazioni le modalità di significazione praticate dal testo: poteri suggestivi del significante, a livello sia di scrittura che di contenuto memoriale

Novecento e

xxi

secolo 355