re les supprime, en pure nomination» (p. 51). Marie- Françoise Berthu-courtIvron (Le paysage durassien,
entre abstraction et fantasme, pp. 77-92), dopo aver
esaminato il ruolo del paesaggio nella prima fase della produzione romanzesca dell’autrice, analizza, con un approccio tematico e simbolico, un certo numero di motivi che strutturano il paesaggio durassiano, il quale, sempre attraversato da una problematica esistenziale, viene investito da una carica esplosiva e violenta per diventare «une caisse de résonance au désir inassouvi» (p. 91). Florence de chalonge (Le paysage, le dehors et
le tout. “Le Camion” de Marguerite Duras, pp. 93-106)
focalizza la sua riflessione sullo sguardo in Le camion, testo e film, giustificando la presenza di due paesaggi provenienti entrambi da una scrittura della metales- si: quello del «camion passant» nella campagna delle Yvelines e quello del «camion voyant», il paesaggio in- dustriale attraverso lo sguardo della passeggera. Anne cousseau (Valeurs du paysage dans “L’homme assis dans
le couloir”, pp. 107-124) riflette sulla poetica dell’eroti-
smo nell’opera in questione. Il paesaggio che «vectori- se en quelque sorte le récit, tout comme il participe à la construction du sens de l’événement érotique» (p. 111) si configura come un «paysage-horizon» (p. 121) che si offre come spazio inaccessibile. Se, quindi, simbolica- mente, esso rispecchia il significato erotico del testo, esteticamente si fa esso stesso oggetto erotico, ogget- to di desiderio inesauribile, vera e propria «utopie du
désir» (p. 122).
I sei contributi che formano la seconda parte del volume, «Études», contengono studi di diversa natu- ra. Alcuni riflettono sui rapporti dell’autrice con altri scrittori, che si tratti di rivendicate filiazioni lettera- rie, come nel caso di Maurice Blanchot (David AMar,
Notes sur les rapports entre Duras et Blanchot. La jeune fille et la mort, pp. 127-132) e di Jean-Luc Lagarce
(Marie-Hélène BoBlet, Des cris et de l’écrit, de Margue-
rite Duras à Jean-Luc Lagarce, pp. 133-148), o di segrete
e inedite affinità elettive, come nel caso dello scrittore giapponese Yūko (Midori Ogawa, Marguerite Duras et
Tsushima Yūko. Sur la mer des ténèbres, pp. 149-162)
e di Jean Racine su cui riflette Sélila MejrI rivisitando
le forme della ripetizione nella pratica teatrale dell’au- trice (Jeu et enjeu de la répétition dans “La musica deu-
xième” de Marguerite Duras, pp. 181-193). Attraverso
lo studio dell’avverbio di luogo «là», Philippe PansIot
Preud’hoMMe propone una rilettura delle più impor-
tanti tematiche del Ravissement de Lol V. Stein ricor- rendo alle teorie di Lacan e al suo stadio dello specchio (L’être et le «là» dans “Le Ravissement de Lol V. Stein”, pp. 163-180). Sempre a partire dalla psicanalisi, questa volta freudiana, Catherine rodgers riflette sulla paura
nella vita e nell’opera dell’autrice (Les peurs de Margue-
rite Duras, pp. 195-207).
Le recensioni contenute nel «Carnet critique» (pp. 211-220), che costituisce la terza e ultima parte del volume, propongono un prezioso aggiornamento sulla bibliografia critica della scrittrice dal 2010 al 2013.
[MargarethaMatullI]
RIccardo BenedettInI, Il corpo in frammenti. Teatro
e romanzo in Agota Kristof, «Feuillages» 1, Collana del
Gruppo di Studio sul Cinquecento Francese, 2016, 145 pp.
Nella «Conversazione con Agota Kristof» (pp. 120- 132) risalente al 1999 e ripresa in calce agli articoli qui
ricomposti in una lettura complessiva dell’opera, l’au- trice rievoca gli anni della propria infanzia e della guer- ra e ripercorre l’itinerario che, con la Rivoluzione del 1956 e dato il coinvolgimento politico del marito, l’ha portata dall’Ungheria alla Svizzera. Dice inoltre delle difficoltà che la scrittrice-operaia, tornata analfabeta in terra straniera, ha incontrato nel passaggio dalla poesia nella lingua madre alla scrittura in francese, teatrale prima, poi narrativa. Se considera Hier il suo libro più marcatamente autobiografico (p. 123), il legame con la patria e con il passato accomuna tutti i suoi scritti. Pro- prio l’inscrizione del vissuto, e la sua trasfigurazione letteraria, è uno dei fili conduttori dell’argomentazio- ne che l’A., a partire da Le grand cahier (capitolo I), estende alla cosiddetta trilogia (capitolo II), alle novel- le (capitolo III) e al teatro: l’inscrizione della sua storia personale, ma anche della Storia, e ciò nonostante la scarsità di indicazioni spazio-temporali precise. A più riprese, l’esilio, per il quale Agota Kristof rimpiangerà di aver optato, viene accostato alle testimonianze della deportazione di Primo Levi o di Charlotte Delbo in no- me dello sradicamento violento, della lacerazione trau- matica e della sopravvivenza all’intollerabile. Non solo; a essere costante oggetto di riflessione è la tensione tra dimensione realistica, rinforzata dalla preponderanza del concreto sull’emozionale, e dimensione onirica, tra aderenza all’esperienza e «stilizzazione straniante» (p. 22), tra impegno e distanziazione spersonalizzata, universalizzante, tra testimonianza mediata e allegoria,
fable, mito.
Con svariati riferimenti ad altri scrittori e teorici, a Dostoevskij e a Bataille – tra le letture che, insieme alla Bibbia, maggiormente hanno segnato l’autrice –, a Ver- cors, Bernhard e Tournier come a Freud, Bachelard, Sartre, Girard o Kristeva, i temi ricorrenti qui messi in rilievo vanno dalla dialettica di verità e menzogna alla coincidenza paradossale di innocenza e atrocità, dai rituali esercizi di crudeltà alle trascrizioni di sogni e al bestiario, felino in particolare, che li popola, dall’in- sonnia e dal digiuno all’alcol, alla follia e al suicidio, dalla mostruosità declinata nelle sue varianti letterali e metaforiche alla centralità dell’infanzia e di motivi quali l’abbandono, l’incesto, il tradimento, il supplizio e la vendetta, dalla tensione fra unità e duplicità – in merito al nous autodiegetico dei gemelli di Le grand
cahier – all’invenzione dell’altro e alla scrittura come
mezzi di resistenza in un universo dominato dalla vio- lenza, dall’isolamento e dalla sofferenza. Nel capitolo IV ci si sofferma sulle disfunzioni comunicative e rela- zionali a proposito dei venticinque brevi racconti riuni- ti in C’est égal e dell’umorismo nero, della latente ironia che li caratterizza. Tra fantasmi e fantasie, trasgressione e profanazione, zoofilia e tortura, la spettacolarizzazio- ne del godimento attraverso il dolore e la copresenza di impassibilità affettiva ed esperienze sessuali estreme costituiscono l’argomento del capitolo V, il nesso tra erotismo e frenesia (auto)distruttiva implicando talora, come nel caso dell’ufficiale pederasta e sadomasochi- sta, la denuncia della guerra e del totalitarismo.
I drammi, anche radiofonici, raccolti in L’heure grise e in Le monstre così come la pièce rinnegata dall’au- trice Monsieur Klapek et la solitude sono oggetto di analisi nel capitolo VI, dove viene mostrato, trami- te osservazioni riguardanti la gestione dello spazio scenico oppure l’alternanza di dialoghi e passi corali lirico-descrittivi, come Agota Kristof si ricolleghi a una drammaturgia arcaica e, più in generale, a una visio- ne tellurica, viscerale e sacrale del teatro. Non solo la protagonista amputata di La clé de l’ascenseur incarna il corpo in frammenti del titolo, ma questo percorso a
ritroso nell’opera di Agota Kristof illustra i molti aspet- ti – l’atmosfera da incubo, la crudeltà e lo straniamen- to, il doppio e la maschera – che nella scrittura dram- matica preludono alla narrativa, a cominciare dalle
saynètes del primo romanzo. Ricordata fin da principio
e ammessa dall’autrice stessa nell’intervista (p. 122), questa matrice teatrale è uno degli elementi che, sparsi nelle diverse sezioni, ribadiscono la profonda unità del suo itinerario creativo.
Corredato di una ricca bibliografia critica, il saggio è consultabile sul sito: http://www.cinquecentofrancese. it/index.php/feuillages/263-feuillages-n-1-riccardo- benedettini-il-corpo-in-frammenti-teatro-e-romanzo- in-agota-kristof.
[steFanogenettI]
MIchel Butor, MIreIlle calle-gruBer, Le cheva-
lier morose. Récit-scénario, préambule et postface de
Johan Faerber, Paris, Hermann, 2017, 157 pp. Vertigine di riflessi, reminiscenze e sovraimpressioni letterarie, pittoriche, musicali, cinematografiche: pre- sente e passato, qui e altrove, dritto e rovescio, vissu- to e sognato, vero e falso, contraffatto ad arte. Scritta nel 2004 per Pierre Coulibeuf, regista di Michel Butor,
mobile (1999, commissionato dall’Institut National
de l’Audiovisuel), dove il film-intervista cede il passo a un incontro a distanza tra Michel Butor e la stessa Mireille Calle-Gruber, la sceneggiatura qui edita e ac- compagnata da una dettagliata presentazione («Docu- ments», pp. 111-146) non è però mai approdata sullo schermo. In 53 – numero perecchiano – sequenze, essa narra la storia di Sandra Serena, professoressa di storia dell’arte alla Sorbona di ritorno nella città lagunare in vista della stesura di un libro su Venise entre Orient et
Occident. Oltre che con la donna che le affitta l’alloggio
e con un libraio antiquario, ella si confronta con tre figure maschili: Paolo, Valerio e Giacomo Morosini, o il suo fantasma, reincarnazione del misterioso cava- liere ritratto da Carpaccio nel dipinto della collezione Thyssen-Bornemisza di Madrid: «Est-ce la mémoire de Giacomo qui m’obsède ou le portrait peint du cheva- lier inconnu?» (p. 69), recita la voce fuori campo, pro- veniente dalle quinte della scenografia urbana come nel più volte menzionato teatro di marionette di piaz- za: Santa Maria Formosa, Santi Giovanni e Paolo e la statua di Bartolomeo Colleoni, San Giacomo all’Orio, l’isola degli Armeni. Protagonista è infatti Venezia, alla cui monumentale fluidità e alle cui scomposte lumi- nescenze fanno da contrappunto le scene, più spente, ambientate a Parigi.
A tramare la tela, a scandire il ritmo è stato Michel Butor; a ricamare il tessuto verbale è stata Mireille Calle-Gruber che, in merito al congiungersi delle due prospettive, cinetica e contemplativa, riassume: «lui synthétique, moi arabesque» (p. 28), con un’allusione al titolo del suo primo romanzo (Arabesque, 1985; sul- la sua opera, si veda Mireille Calle-Gruber. L’amour du
monde à l’abri du monde dans la littérature, a cura di
M. Balcazar, S.-A. Crevier-Goulet, A. Frantz e É. Vi- gnon, Hermann, 2015). In questa loro collaborazione si è imbattuto, nel corso delle sue ricerche sul Nou- veau Roman e il cinema, Johan Faerber il quale, nella Postfazione (pp. 147-156), riconduce il progetto non solo alla passione per Venezia, lo sguardo rivolto verso un Oriente tanto esplorato quanto vagheggiato, che accomuna i due autori, ma anche all’estetica dell’im-
provisation, alla poetica del génie du lieu che, in questo
cinema-poesia e in nome della mobilità stessa delle im- magini, si fa déni du lieu (p. 155).
Su sollecitazione dello stesso Faerber, sia Butor che M. Calle-Gruber ritornano sulla gestazione dell’ope- ra: il primo citando i versi scritti per accompagnare riproduzioni di dipinti e incisioni – «attention, chute
d’anges» si leggeva nei pressi di Santa Maria della Sa-
lute durante i lavori di restauro, e si legge ancora in epigrafe al componimento «Venise au crépuscule» così come nel récit-scénario –, nonché le fotografie di Serge Assier raccolte in Les coulisses de Venise ed evocando
Il mercante di Venezia attraverso un libresco ricordo
d’infanzia, quello dei Contes à partir de Shakespeare di Charles Lamb («Le chevalier morose. Projet de film pour Pierre Coulibeuf», pp. 9-20); la seconda intro- ducendo il lettore «Dans les coulisses du scénario» (pp. 21-31), dove riecheggiano gli intertesti: Proust e Thomas Mann, Visconti, Mahler… La fabbrica dei no- mi è un gioco di specchi e di maschere: il Moro di Ve- nezia rimbomba nel nome amoroso di Giacomo Moro- sini; in quello della Serenissima Sandra risuona la pa- rola cendre e si riverbera la luce cinerea in cui i teleri di Carpaccio bagnano la leggenda di sant’Orsola. Perché questo racconto-sceneggiatura, che si apre su un sogno di diluvio – un acquerello di Dürer – è anche un tom-
beau di Venezia: se, nello stesso periodo, Butor scrive Tombeau d’Arthur Rimbaud (2005) e M. Calle-Gruber Tombeau d’Akhnaton (2006), è un po’ sulla scia del
vaporetto che conduce Sandra e Giacomo verso San Michele, l’isola dei morti dove sono sepolti Wagner, Stravinsky, Diaghilev, Pound… Viene così reimmersa nell’opera dei due scrittori la gestazione congiunta di un progetto cinematografico che, solo ora, vede la luce sotto forma di splendido libro illustrato: una visione fragile che, proprio perché mai fissata in immagini, mantiene «le tremblement de l’aura», «la grâce de ce que l’on écrit à l’inconnu» (M. Calle-Gruber, p. 31).
[steFanogenettI]
PatrIck werly, Yves Bonnefoy et l’avenir du divin,
Paris, Hermann, 2017, «Savoir lettres», 423 pp. L’opera di Yves Bonnefoy non cessa di suscitare di- battiti e riflessioni che la sua recente scomparsa ha tut- to fuorché attenuato, talmente ricco continua a essere il lascito di problematiche che essa alimenta a più livelli e in svariate direzioni. Ecco allora che quest’opera di Patrick Werly, docente comparatista all’Université de Strasbourg-Marc Bloch, aggiunge un importante tas- sello a questo percorso di riflessione e su un ambito che, benché centrale nel pensiero e nella poetica del poeta e pensatore, non risulta di fatto essere stato a og- gi fra i più studiati, ovvero il problema religioso.
Nella sua ricca «Introduction» (pp. 7-32), Werly mostra con la chiarezza, l’umiltà e l’acume che carat- terizzano il suo approccio e le sue ipotesi d’indagine, che, constatando come Yves Bonnefoy da sempre dia- loghi con le tradizioni religiose e i miti, al punto che a essi ha dedicato un’opera colossale come il Diction-
naire des mythologies et des religions des sociétés tra- ditionnelles et du monde antique (Paris, Flammarion,
1981), tuttavia si pongono in modo problematico di fronte al caso di un poeta che pur facendo professione d’ateismo non ha cessato d’interrogarsi su tematiche come la trascendenza, la gnosi e lo spirito: «Mon pro- pos est de comprendre ce que signifie le recours à des signifiants religieux, théologiques et mythologiques dans la poésie d’un poète dont l’œuvre critique, d’au-