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Mortua maiorem laborem: Prima di diventare nave, il legno apparteneva ad una pianta, colta nella sua vita precedente e priva di affanni Una volta tramutata in nave,

AENIGMATA SYMPOSII

1. Mortua maiorem laborem: Prima di diventare nave, il legno apparteneva ad una pianta, colta nella sua vita precedente e priva di affanni Una volta tramutata in nave,

essa serve gli scopi degli uomini, trasportando carichi e persone e sopportandone, dunque, il labor.

2. Dum iaceo...paucos: La nave, per navigare, deve stare orizzontale: in verticale, cola a picco, e difficilmente permette la sopravvivenza dei suoi passeggeri e del suo carico. 3-4. Viscera si mihi...multis: Si allude qui alla stiva della nave, dove è stipato il carico, e che viene immaginato come gli intestini di una bestia mirabile, pronta, come di consueto, a offrire sostentamento e cura a tutti.

5-6. Bestia defunctam...me mordit: la res loquens dei cosiddetti indovinelli di trasformazione tratta sempre di se stessa come defunta, dal momento che l’oggetto inanimato trae la sua materia prima da qualcosa che in origine era vivo, come, in questo caso, un albero, forse il pino o l’acero, di cui normalmente erano fatti gli scafi delle navi. Tuttavia, la sua carcassa, contrariamente agli altri cadaveri, non si presta a essere divorata da rapaci o altri mangiatori di carogne. Entra qui in scena il meccanismo enigmistico dell’opposizione,261 per cui si contraddice una conseguenza logica di un enunciato. In questo caso, appunto, una carcassa che non viene mangiata dai rapaci. 6. Et onusta...depingo: il verso finale rimanda ad un’altra delle caratteristiche

paradossali di una nave. Pur carica, e dunque molto pesante non solo per la stazza, essa, avanzando, non lascia orme, dal momento che scivola sull’acqua. L’espressione currere viam, e in generale quest’ultimo verso, porta l’eco dell’enigma analogo di Simposio (XIII, Navis), dove la Bergamin propone però di leggere, nell’immagine della nave che corre senza lasciare tracce, un’allusione allegorica alla fugacità della vita.262 In verità, in questo caso, la nostra interpretazione resterebbe piuttosto legata alla realtà concreta della nave, vista la difficoltà a reperire, nella produzione del nostro anonimo autore, delle allusioni astratte.

262 Cfr. infra.

29. DE SPECULO

Uterum si mihi praelucens texerit umbra, proprios volenti devota porrigo vultus. Talis ego mater vivos non genero natos, sed petenti vanas diffundo visu figuras. Exiguos licet mentita profero foetos Sed de vero suas videnti dirigo formas.

LO SPECCHIO

Se un’ombra che porta la luce mi avrà coperto il ventre, io, devota, a chi lo vuole offro il proprio volto.

Sono una madre siffatta che non genero figli vivi, ma a chi lo chiede rivelo figure vane alla vista. Seppur mentendo, partorisco piccoli figli,

Il termine speculum, in senso lato, designa ogni superficie che sia capace di riflettere la luce che vi batte sopra, riproducendo un’immagine virtuale di ciò che si trova davanti, che, a seconda che la superficie sia piana, concava o convessa, risulta più o meno distorta. Nella letteratura e nella storia del pensiero, lo specchio rappresenta un tema vastissimo e multiforme. Creando un doppio simmetricamente opposto della realtà, da un lato permette una riproduzione puramente mimetica delle cose, dall’altra spalanca nell’immaginazione la possibilità che esista un’intera realtà capovolta, un invisibile palesato e un visibile distorto, che segna il passaggio dal reale al fantastico. La letteratura ha da sempre sfruttato nei modi più svariati le potenzialità dell’immagine dello specchio, rendendolo uno dei simboli più pregni di significato di tutto l’immaginario, dallo splendido e ingannevole riflesso di Narciso sull’acqua, allo specchio-porta del mondo capovolto di Alice attraverso lo specchio, fino all’ossessione borgesiana degli specchi come moltiplicatori di mondi e finzioni. Nella cultura cristiana, lo specchio resta un soggetto vasto e ambivalente: la visione terrena del divino, oscura e imperscrutabile, è descritta nel famoso passo di San Paolo della Prima Lettera ai Corinzi, come un enigma visto attraverso uno specchio.263 Altrove lo specchio diviene pura e trasparente imitazione della creazione divina.

Come oggetto poetico, lo specchio possiede una grande potenza metaforica, il che lo rende un soggetto perfetto per l’enigmistica.

Quest’indovinello è da confrontarsi con il numero 69 della raccolta di Simposio, Speculum, oltre che con Anthologia Palatina XIV, n. 108 e n. 56:

AENIGMATA SYMPOSII LXIX

Speculum

Nulla mihi certa est, nulla est peregrina figura. Fulgor inest intus radianti luce coruscus, qui nihil ostendit nisi si quid viderit ante.

Lo specchio

Non ho un’immagine fissa, e nessuna immagine mi è estranea.

Dentro ho un bagliore che brilla di luce raggiante,

e nulla mostra a meno che non abbia visto qualcosa prima.

L’enigma di Simposio è tutto giocato sull’ambiguità del termine figura, che assume normalmente il significato di sembianza, fattezza: qui è riferito al riflesso nello specchio, il quale è però, a sua volta, l’immagine di fattezze reali.

Al primo verso si trova un’antitesi che è anche in Anth. Pal. XIV, 108: ANTHOLOGIA PALATINA XIV, 108

Οὐδὲν ἔσωθεν ἔχω, καὶ πάντα µοι ἔνδοθέν ἐστι, προῖκα δ’ἐµῆς ἀρετῆς πᾶσι δίδωµι χάριν. Nulla ho di dentro, ma dentro c’è tutto;

A tutti largisco gratis del mio segreto la beltà.264

Si noti come entrambi gli enigmi insistano sull’opposizione dentro/fuori: il piatto strumento è vuoto e monodimensionale, privo di un’immagine propria, ma potenzialmente al suo interno può racchiudere innumerevoli mondi. Più vicino alla variazione sul tema dell’enigma di Tullio è invece un altro indovinello della raccolta palatina, il n. 56, dove si gioca su un contrasto estremamente efficace. L’immagine speculare, perfettamente rassomigliante all’originale, è però manchevole alla prova dell’esistenza: guarda ma non ha occhi, apre la bocca invano, senza poter parlare, poiché non ha voce. Essa, come un fantasma, ha solo le sembianze della vita: la sua apparenza, così seducente, resta tuttavia menzogna.