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Il nazionalismo totalitario e la cultura

Nel filone del tradizionalismo e del populismo romeno si sviluppò fra le due guerre mon- diali una corrente di pensiero che vide la rivista letteraria «Gândirea» come un proprio punto di riferimento. Intorno ad essa ruotavano intellettuali quali Nae Ionescu, teorico del “trăirism”, una variante romena dell’esistenzialismo, e la cosiddetta “giovane generazione” filosofica, composta da allievi dello stesso Ionescu, fra cui Mircea Eliade, Emil Cioran, Nichifor Crainic e Mircea Vulcănescu. Li caratterizzava un comune atteggiamento mistico e nichilista e il rifiuto del razio- nalismo positivista, da Cartesio al socialismo scientifico. Avevano una visione tragica dell’esistenza e sostenevano che la crisi della società moderna fosse ineluttabile e totale e che soltanto la fede religiosa avrebbe dato all’uomo la possibilità di conciliarsi con l’universo e il proprio spirito. In particolare, Crainic intendeva coniugare la tradizione con l’ortodossismo, che riteneva essere due elementi inseparabili del carattere nazionale romeno. Sotto la sua direzione,

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la rivista «Gândirea» divenne un autentico organo di propaganda a sostegno della Guardia di Ferro e poi, dal 1940, della dittatura di Ion Antonescu. Questi filosofi si rifacevano a pensatori quali Max Stirner, Hegel, Ernst Troeltsch e in particolare Oswald Spengler che, con il suo Tra- monto dell’Occidente, aveva preconizzato un inevitabile declino del mondo ormai consumato dalla civilizzazione e dimentico delle proprie radici culturali. La Romania si sarebbe potuta sal- vare se avesse rinunciato a seguire la strada della civilizzazione occidentale per proteggere inve- ce le proprie radici cristiane ortodosse e la cultura contadina. Naturalmente, era sempre presente la polemica antisemita, essendo gli ebrei considerati una delle cause principali della degenera- zione del mondo civilizzato e cosmopolita che si voleva combattere. Vi era quindi nel gândirism molto del tradizionalismo ottocentesco romeno che, partendo da Eminescu aveva poi portato al poporanism e al sămănătorism di Nicolae Iorga ai primi del secolo. Era più accentuato però l’elemento mistico e religioso e la visione tragica di un mondo in disfacimento che incombeva sul destino dell’occidente: solo ritornando al “villaggio romeno” da un punto di vista ontologico, il românism avrebbe potuto essere salvato75.

Il pensiero del filosofo transilvano Emil Cioran si colloca in questa prospettiva, nella co- stante ricerca del românism e del senso dell’esistenza di un popolo, quello romeno, ma anche, in particolare, del popolo transilvano. Se i romeni apparivano a Cioran come una nazione debole e irrimediabilmente inferiore, a causa della loro povertà spirituale, i transilvani gli sembravano an- cora peggiori: troppo coinvolti, dalla fine dell’Ottocento, nella vita politica, avevano fallito nel creare qualcosa di veramente originale. Guardando alla cultura del vitalismo tedesco, e in parti- colare a Spengler, Cioran sperava di fermare la «decadenza» contemporanea per mezzo di un’apocalisse che avrebbe «frantumato tutte le forme, rivelando il loro vuoto e la loro inutilità». Sarebbe così emersa la «barbarie», che, secondo lui, era «il primo sintomo che indica l’alba di una cultura»: solo «un senso barbarico della vita e della cultura», una discesa nel «caos», avreb- be potuto offrire all’Europa una possibilità di redenzione. Nel novembre 1933, Cioran iniziò ad avvicinarsi alla politica, fino ad allora disprezzata: a Berlino con una borsa di dottorato, scrisse di essere «assolutamente incantato dell’ordine politico che hanno edificato qui». Il confronto fra la Germania hitleriana, di cui ammirava «il culto dell’irrazionale, l’esultanza della pura vitalità, la virile espressione di forza, senza alcuno spirito critico, moderazione, controllo», e la Romania, «il più pidocchioso paese al mondo», lo portava ad augurare ai romeni un regime spietato contro loro stessi, nella speranza che si potessero risollevare spiritualmente. «Fermamente credo – scri- veva Cioran – che una dittatura potrebbe soffocare o anche eliminare per sempre l’impostura che affligge la nostra società. Solo il terrore, la brutalità e l’angoscia senza fine possono portare un

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cambiamento in Romania». E continuava: «Tutti i romeni dovrebbero essere arrestati e pestati a sangue; questo è l’unico modo in cui una nazione superficiale potrebbe farsi un nome». Cioran è stato il primo esponente della generazione di giovani intellettuali a cui apparteneva ad essere se- dotto dall’ideologia dell’estrema destra, che appoggiò anche nel suo volume Schimbarea la faţa a României, pubblicato nel 1936: per lui, in quell’epoca «non essere nazionalista è un crimine contro il tuo popolo»76.

Indubbiamente, il nazionalismo di Cioran ha dei tratti peculiari rispetto al nazionalismo della destra radicale e totalitaria transilvana fra le due guerre mondiali e si differenzia anche dal classico filone del tradizionalismo romeno da Eminescu in poi. Il misticismo rivoluzionario di Cioran era infatti anticristiano; inoltre, per lui il villaggio era sinonimo di arretratezza e solo dal- la città e dalla modernità – quindi dall’Occidente – sarebbe potuta giungere una speranza di rin- novamento per la Romania, nazione «sub-storica» fino a quel momento. Tuttavia, Cioran fu at- tratto dalla legione, che secondo lui poteva rappresentare una possibilità di riscatto per i romeni di fronte all’umanità e alla storia. Con Cioran il nazionalismo perde quindi ogni caratteristica re- ligiosa e organicistica, per diventare pura mistica rivoluzionaria, riflettendo in qualche modo gli echi di certo fascismo delle origini di matrice futurista o sindacalista77.