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Neuroscienze e libero arbitrio

Nel documento ELEMENTI DI ECONOMIA E DIRITTO COGNITIVI (pagine 156-160)

8. Diritto cognitivo

8.3. Neuroscienze e diritto

8.3.3. Neuroscienze e libero arbitrio

Sempre più numerosi sono i contributi dottrinali dedicati a verificare, e tentare di sciogliere, le sfide delle neuroscienze alle nozioni di libero arbitrio e

responsabilità, consapevoli del fatto che tali scienze «rappresentano oggi il passaggio fondamentale per la comprensione di diversi aspetti del comportamento umano. Ma rappresentano anche il luogo in cui pensiero filosofico e pensiero scientifico si incontrano e aggiornano la loro riflessione sul rapporto tra mente e corpo» [Cuzzocrea 2011, p. 43].

La stragrande maggioranza di tali trattazioni solleva la questione della responsabilità individuale rispetto a condotte criminose in presenza di lesioni cerebrali accertate, alle quali sarebbero riconducibili le medesime condotte. Esistono, in effetti, casi clinici piuttosto impressionanti nell'evidenziare possibili correlazioni tra determinate condotte antisociali e una serie di peculiarità anatomiche cerebrali, ma si tratta di una casistica che non pare ancora aver trovato una definizione sistematica univoca [cfr. Craig et al. 2009, pp. 946 ss.]. Di nuovo, l’ambito culturale di elaborazione di tali sforzi teorici fa poi sì che gli stessi risultino orientati in maniera preminente rispetto a istituti propri della tradizione di Common Law, come esemplificato dalla ricorrente attenzione verso una delimitazione della «mens rea», ovvero lo stato mentale di colpevolezza richiesto dagli ordinamenti di matrice anglosassone per l’attribuzione al soggetto agente di un atto. Ne consegue che, in trattazioni del genere, viene solitamente persa la ricchezza concettuale sviluppata dalle scuole penalistiche continentali, in particolare la italiana e tedesca, in materia di coscienza e volontà (la «suitas» di cui all’art. 42, comma 1, c.p.), colpevolezza e nessi psichici [in proposito v. meglio Terracina 2011, pp. 206 ss.].

In una prospettiva unitaria rispetto ai diversi sistemi giuridici, si ritengono condivisibili le posizioni teoriche volte a meglio circoscrivere l’impatto delle novità neuroscientifiche sulle modalità operative del diritto. In effetti, nella pratica forense una pluralità di principi e istituti giuridici ha sinora ben operato anche senza alcuna considerazione di vere o presunte basi neuronali della condotta criminale, ed è tanto auspicabile quanto presumibile

che i medesimi principi e istituti potranno assimilare le nuove conoscenze neuroscientifiche: «nuovi dettagli, nuove fonti di evidenze probatorie, ma nulla rispetto a cui la legge sia fondamentalmente impreparata» [cfr. Greene, Cohen 2004, p. 1775].

Nel caso sopra richiamato delle correlazioni tra lesioni cerebrali e condotte viene da rilevare come la controversia in corso paia derivare dalla tacita aspirazione di molti ricercatori a un'univocità deterministica che il diritto non contempla, né può accettare. Con riferimento all’ordinamento italiano, vale in tal senso ricordare la direzione operativa stabilita dalla Costituzione, la quale, nel respingere ogni determinismo di tipo biologico (quindi anche di matrice neuroscientifica) e sociologico, da un lato resta ancorata a un chiaro principio di responsabilità individuale, dall'altro esclude «che la responsabilità costituisca un dato aprioristico indifferenziato, presente cioè in modo eguale in tutti i soggetti come per i classici, ma un problema concreto da esaminarsi in rapporto alle singole individualità, data anche la tendenza rieducativa della pena» [Mantovani 1992, p. 572]. Messa ancora in altro modo, non andrebbero mai dimenticate le dinamiche proprie della funzione giurisdicente rispetto al caso concreto, così come già ora esplicitabili nel miglior accertamento possibile della verità giudiziaria e la conseguente adozione dei dispositivi più opportuni. Dal momento che ogni attività giudiziaria «è un sapere-potere, cioè una combinazione di conoscenza (veritas) e di decisione (auctoritas)» [Ferrajoli 1997, p. 18], l’evoluzione della conoscenza necessariamente influenzerà la decisione, ma non ne potrà mai escludere la sua funzione sintetica.

Una miglior interpretazione dei meccanismi neurocognitivi coinvolti nelle condotte soggettive, dunque, non significa affatto escludere responsabilità conseguenti in capo all'agente. In questo senso, la controversia appare per molti versi una replica di quella già vissuta rispetto all'introduzione negli accertamenti forensi di test ed analisi di tipo biologico,

da ultimo rivampata per la disponibilità di esami di genetica molecolare particolarmente dettagliati [cfr. Codognotto, Sartori 2010, pp. 269 ss.]. Accertamenti, va rimarcato, che sono utili a fornire nuovi elementi nell'ambito di una più composita valutazione della condotta e alla luce di una nozione di infermità complessa [cfr. Cuzzocrea 2011, pp. 67 ss.], ma non certo ad appiattire tale valutazione su automatismi decisionali di sorta.

A fronte del continuo presentarsi di nuove tecniche di accertamento e conoscenze appare dunque opportuno rivedere la nozione di responsabilità dell’agente secondo modalità cognitive multifattoriali: modalità, cioè, che tengano conto di una pluralità di elementi e, nei momenti decisionali aventi rilevanza giuridica, trovino una sintesi compiuta. Con specifico riguardo ai rapporti tra diritto e neuroscienze, non si tratta pertanto di «dare la colpa al cervello» [Erickson 2010, pp. 27 ss.], bensì di predisporre criteri di definizione della responsabilità opportunamente modulati rispetto alle migliori conoscenze scientifiche, conoscenze provenienti da una pluralità di ambiti ai quali il pensiero e la prassi giuridica sono sempre stati tenuti a fare riferimento.

In proposito, vale richiamare come nella sezione dedicata all'economia cognitiva [supra, §6.1.2.] abbiamo riportato gli esiti di un esperimento dal quale risulterebbe la possibilità, sulla base di uno studio delle attività cerebrali in corso, di conoscere quale decisione il soggetto adotterà prima che questo la manifesti in una condotta esteriore: l'argomento torna qui utile. In un caso del genere, infatti, riteniamo che non si possa in alcun modo escludere una considerazione della responsabilità del soggetto «nella sua interezza» rispetto alle azioni che compierà. Quanto noi osserviamo a mezzo di fMRI, infatti, è l'attività di elaborazione di informazioni, stimoli e cognizioni, a cui risulta propriamente deputato il sistema cerebrale, quale precondizione di un comportamento successivo esteriormente apprezzabile. Per il manifestarsi di tale comportamento, nondimeno, sono necessarie anche

altre precondizioni, dipendenti tanto dal soggetto quanto dall'ambiente in cui si trova. In questo senso, viene da annotare che, quando si parla di «mente», il riferimento dovrebbe essere non un individuo, bensì un'interazione che coinvolge elementi sia interni che esterni allo stesso, secondo una prospettiva olistica che sempre più appare rilevante anche nelle ricerche scientifiche [v. Sarà 2005, pp. 398 ss.].

Per restare, in ogni caso, centrati sulla responsabilità individuale, riteniamo che quanto sin qui esposto consenta d'inquadrare le nuove questioni introdotte dalle neuroscienze cognitive in una più confortevole prospettiva di riferimento, allargando la quale passiamo ora a considerare la terza delle linee di ricerca individuate negli studi di «Law and Neuroscience» [supra, §8.3.].

Nel documento ELEMENTI DI ECONOMIA E DIRITTO COGNITIVI (pagine 156-160)