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Nota su volontarietà, involontarietà e non-volontarietà.

Nel documento Il male e la scelta umana in S. Tommaso (pagine 127-129)

IL LIBERO ARBITRIO E IL MALE

CAPITOLO 2. LA DECLINAZIONE MORALE DEL MALE ONTOLOGICO: IL PECCATO

2.1. La Quaestio Secunda del De Malo: I peccat

2.1.8. Nota su volontarietà, involontarietà e non-volontarietà.

Nell’articolo 1 della Quaestio Secunda ci siamo imbattuti in un tema che risulta essere fondamentale per la nostra riflessione; interrogandosi sulla necessità o meno che sussista un atto in qualsiasi peccato, Tommaso chiama in causa l’omissione, rifacendosi ad Aristotele nel delineare il grado di volontarietà che incorre nell’astensione dall’atto.

Nella terzo argomento del Sed Contra da noi annotato257, troviamo che l’Aquinate propone un passo

della Fisica di Aristotele, per introdurre il tema del peccato; lo Stagirita affermava infatti in tal punto che, come per le cose che riguardano la natura oppure l’arte il male consiste nell’andare contro la stessa natura o la stessa arte, così il male morale, ovvero il peccato, consiste nell’andare contro la ragione. Analogamente, come può accadere di essere contrari alla natura non solo nel movimento, ma anche nella quiete, così in morale accade di essere contrari alla ratio – e quindi di peccare – non solo nell’agire, ma anche nell’astenersi da un atto buono. Da ciò, come abbiamo visto, il Doctor Angelicus inizia una serie di argomenti a riprova del fatto che, affinché sussista un peccato, non è necessario che questo sia determinato da un certo atto: anche l’omissione, ovvero l’astensione dall’atto, può rappresentare infatti un peccato.

Acquisita tale consapevolezza, Tommaso inizia a delineare una serie di modalità attraverso cui può presentarsi l’omissione, che proveremo ora a sintetizzare utilizzando le tre categorie aristoteliche –

cui presumibilmente si rifà lo stesso Aquinate – che sono: la volontarietà, la non volontarietà e l’involontarietà.

Aristotele tratta questo argomento nel III Libro dell’Etica Nicomachea258, dove, per parlare delle virtù, fa un excursus propedeutico sul tema del volontario. Anzitutto lo Stagirita definisce l’involontario come riguardante quelle azioni compiute «per forza o per ignoranza»259.

Poco più avanti, lo Stagirita sostiene che spesso accade che alcune azioni di per sé sembrino cattive, ma che, al contrario, siano compiute in vista di un fine ulteriore, come per esempio obbedire agli ordini di un tiranno, che tiene in scacco la nostra famiglia e ci minaccia, qualora ci chiedesse di compiere qualcosa di turpe, o, più semplicemente, gettare fuori bordo degli oggetti pesanti, qualora dovesse imperversare una tempesta.

Azioni di questo tipo, afferma Aristotele, sono miste, e in queste risalta in modo preminente la dimensione volontaria, poiché sono frutto di una scelta, compiuta attraverso un ragionamento sulle circostanze, dalle quali dipende lo stesso fine (che, in questo caso, è ulteriore rispetto al contenuto dell’azione).

Dopo aver stabilito a che cosa si riferisca la volontarietà, poco più avanti Aristotele precisa che «tutto ciò che si fa per ignoranza è non volontario, ma involontario è solo ciò che porta dolore e che provoca pentimento»260. Infatti, appena dopo, il Filosofo distingue tra l’”agire per ignoranza”, e l’”agire ignorando”. L’agire per ignoranza (δι’ἂγνοιαν, traslitterato di’agnoian) indica tutte quelle azioni che lo Stagirita qualifica come “non-volontarie”, le quali, pur comportando un esito disordinato, sono esenti dalla responsabilità individuale, poiché dovute alla piena inconsapevolezza dell’agente: egli non sa cosa stia facendo, perciò pecca in modo totalmente “non-volontario”. Proprio per questo motivo, l’azione che avviene per ignoranza non può provocare alcun dolore o pentimento nell’agente.

Al contrario, quando si agisce ignorando (ἀγνοὡν, traslitterato agnoõn), il soggetto compie un’azione involontaria, ovvero è consapevole di quale sia la misura da seguire e di quali siano le conseguenze del suo agire, ma sceglie comunque di agire, ignorando l’ordine della ratio. Questo accade per esempio quando un uomo si ubriaca e commette delle azioni turpi: in questo caso la sua

258 Ricordiamo, inoltre, che abbiamo già in parte discusso tale teoria nella nostra Parte I, al CAP. 3: “Il male in

Aristotele”.

259 Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1, 1110 a 1. 260 Aristotele, Etica Nicomachea, III, 2, 1110 b 20.

azione non è giustificata dallo stato di ebbrezza alcolica, poiché il suo agire è frutto di una ignoranza volontaria della giusta misura: se non avesse bevuto smodatamente l’azione conseguente a ciò non sarebbe stata nociva.

Il modo più facile per distinguere la non-volontarietà dalla involontarietà è valutare il livello di dolore e il pentimento che intervengono nell’azione: nel momento in cui agisco male a causa di un atto non-volontario, non proverò né dolore, né alcuna forma di pentimento, poiché non mi trovo nella condizione di poter conoscere gli aspetti fondamentali dell’azione (la cui conoscenza, nell’azione volontaria, è infatti imprescindibile); questi ultimi sono due, dice Aristotele, ovvero «cosa si fa» e «ciò a cui si perviene», che sembrano corrispondere rispettivamente all’objectum

actionis e al finis operantis di cui parla Tommaso.

Al contrario, nel momento in cui compio un’azione involontaria, quindi agisco decidendo di ignorare determinate misure, proverò dolore o perlomeno pentimento, poiché sono in realtà conscio del fatto che, non ignorando l’ordine, potrei realizzare un’azione buona.

Nell’articolo 1 della Quaestio Secunda del De Malo, Tommaso, quando si rifà ad Aristotele, si riferisce – in modo alquanto sottile – alla differenza che intercorre tra l’azione non-volontaria e quella involontaria, per applicarla poi al caso dell’omissione. Quest’ultima può essere per l’appunto non-volontaria, oppure involontaria.

L’omissione involontaria si ritrova nel momento in cui, seguendo l’esempio tommasiano, uno sceglie di giocare pur sapendo che questo implica il suo non andare in chiesa. Questo tipo di involontarietà entra a far parte della dimensione del “volontario in causa”, che potremmo definire in questi termini: l’agente, pur non intendendo i danni che conseguono alla sua cattiva azione, è comunque moralmente responsabile di questi, poiché determinati da un’azione precedente, da lui ben intesa. Affinché sussista il principio del “volontario in causa”, occorre dunque che si verifichino queste due condizioni:

a) È ragionevolmente prevedibile che da tale azione scaturiscano quei danni; b) È moralmente possibile evitare di porre quell’azione.

Nel documento Il male e la scelta umana in S. Tommaso (pagine 127-129)