VERSO UNA POSSIBILE ONTOLOGIA DEL MALE
CAPITOLO 2. RIFLESSIONE INTORNO ALL’ORIGINE E ALL’ESISTENZA DEL MALE A PARTIRE DALLA QUAESTIO PRIMA DEL DE MALO
2.3. Quaestio Prima articolo 3: Utrum bonum sit causa mal
2.3.1. Nota sul bene in Tommaso
A partire dall’Etica Nicomachea sappiamo che il bene è, per definizione, “ciò cui tutto tende”160. La
medesima concezione di bene si ritrova negli Scolastici, con la differenza che, secondo la prospettiva scolastica – e in particolar modo per Tommaso – il bene è un trascendentale; secondo l’Aquinate la voluntas, tipicamente umana, corrisponde infatti alla voluntas di Dio, libero Creatore, ed è perciò aperta, per così dire, ad un orizzonte infinito. Diversamente, il bene cui tutto tende, secondo Aristotele, è un bene prettamente umano, e perciò racchiuso in un orizzonte esclusivamente umano, e, per certi versi, “insensato”: ogni cosa, comprese le azioni turpi, acquista infatti significato nella prospettiva dell’esistenza di un bene trascendentale.
Vale la pena specificare infatti che l’orizzonte infinito tipicamente umano di cui parla Tommaso è un orizzonte trascendentale. Ciò implica che l’intelletto (e quindi il desiderio) dell’uomo sia un infinito, ma solo formalmente: esso è infatti aperto a un orizzonte infinitamente ampio, poiché l’anima è, secondo la definizione aristotelica, “in qualche modo tutte le cose”161, e può perciò
aprirsi formalmente a dei contenuti infiniti; tuttavia, a livello pratico, l’infinito reale può corrispondere unicamente a Dio.
Potremmo dire dunque che l’anima umana, aspirando perennemente all’infinito, si configura come un «infinito desiderio di infinito»162; con la prospettiva creazionista, e in particolar modo con l’Aquinate, cogliamo perciò che questo infinito assoluto, cui l’anima tende infinitamente, non è altro che Dio stesso.
Al contrario, il punto di vista non creazionista, e nello specifico quello greco, ci pone di fronte a una situazione di angoscia, ossia di incapacità di spiegare la reale radice dei fenomeni, tanto che il male
160 Aristotele, Etica Nicomachea I, 1094 a 2. 161 Aristotele, De anima, III, 431b 20-432a 14.
162 Riguardo a ciò cfr. F. Turoldo, Le malattie del desiderio. Storie di tossicodipendenza e anoressia, Cittadella Editrice,
è, di norma, considerato come un principio co-originario del bene163, anziché come una privazione di quest’ultimo.
Tale riflessione dà adito alla tesi dapprima analizzata nell’Articolo I della I Quaestio del De Malo, nella quale Tommaso mette in campo un concetto da noi già rinvenuto nel pensiero di alcuni predecessori164, ossia quello della gradualità del bene, e, conseguentemente, del male.
È per l’appunto il carattere trascendentale del bene che permette di determinarne una qualche proporzionalità rispetto alla dimensione dell’essere: si può infatti pervenire a un certo ordine dei beni, i quali si differenziano in base al grado di perfezione, e, di conseguenza, ad un ordine dei mali, per il quale il male si configura come la de-formitas dell’ente (di per sé buono, poiché dotato di un orizzonte trascendentalmente buono), ossia come la privazione della sua stessa perfezione: esso è perciò nuovamente definito come una privatio boni.
Leggiamo infatti in Summa Theologiae165: «Bisogna perciò concludere che ogni azione tanto ha di bontà, quanto possiede di entità: e quanto all’azione umana, manca di pienezza entitativa, per difetto di misura secondo ragione, o di luogo debito, oppure di altre cose del genere, tanto le manca di bontà, e si dice cattiva».
Nel De Veritate166 Tommaso spiega che l’uomo non è buono a causa della sua stessa essenza, bensì è buono per partecipazione di Dio, il quale è bontà pura (è, per l’appunto, il bene trascendentale). Infatti, mentre diciamo che una cosa è un ente in assoluto, rispetto al concetto di bene diciamo invece che una cosa è buona in base al rapporto che ha con altre cose (dunque in base a principi accidentali). Perciò, possiamo sostenere che la bontà sia sostanziale solo nel momento in cui si qualifica come bontà sia assoluta che accidentale, e questo tipo di bontà si riscontra meramente in Dio, che è buono per essenza, mentre l’uomo ha la bontà soltanto per partecipazione dell’essere, e non per sua stessa essenza167. Inoltre, la bontà ha natura di causa finale, quindi Dio è la causa finale in quanto è il fine ultimo di tutte le cose, perciò è necessario che ogni altro fine non abbia la
163 Come abbiamo assodato nel corso della I Parte dell’opera, seguendo il discorso morale nelle teorie dei predecessori,
e, in modo particolare, in alcuni luoghi di Platone.
164 Cfr. in particolar modo il capitolo 6 della nostra I Parte, dove Proclo, nel suo De malorum subsistentia, tratta della
gradualità dei mali, in riferimento al grado di perfezione dei beni.
165 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 18, a 1.
166 Cfr. Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 21 a. 5, trad. it. di F. Fiorentino, su testo greco a cura dell’Editio Leonina,
Bompiani, Milano 2005.
disposizione o la natura del fine, se non in ragione dell’ordine alla causa prima. È dunque necessario che sussista un certo ordine dei fini che, dalla creatura, giunge al Creatore, così vi è un ordine di beni, e, conseguentemente, di mali.
Avendo constatato dunque l’esistenza di un ordine dei fini, in quanto è impossibile procedere all’infinito, si ricava che il fine che vogliamo per sé stesso, a detta di Aristotele, è il bene propriamente umano (in greco diremmo il to anthrópinon agathon). Ora, tale “bene propriamente umano” è definito da Tommaso con il termine di “bonum honestum”, e corrisponde da ultimo al bene morale.
Rirendendo il passo di Summa Theologiae precedentemente citato, possiamo identificare il bonum
honestum con la pienezza entitativa (plenitudo essendi) di cui parla l’Aquinate168: data la bontà ontologica dell’uomo, il bene morale non è da ricercare nel mero gesto materiale, bensì nella qualità morale di questo gesto, la quale è determinata dall’intenzionalità dell’actus: tutto è ontologicamente buono (in quanto vi è un bene trascendentale, cui tutto tende), perciò il bene morale si specifica in base all’ordine che realizza rispetto al suo fine proprio (che, come vedremo, si identificherà infine con la beatitudo).
Per cogliere l’ordine morale dell’actus occorre anzitutto tenere presente che questo si compone di tre “dimensioni”:
- L’objectum, il quale indica la relazione che si instaura tra la persona e l’oggetto (persona o cosa) cui termina l’agire umano: è in base a tale rapporto che si valuta se la forma dell’azione sia moralmente adeguata alla forma propria (quindi alla natura) degli agenti implicati nell’azione.
- Le circumstantiae indicano le modalità entro cui si svolge l’azione, oltre che le prevedibili conseguenze della stessa. Leggiamo in Summa Theologiae: «Gli esseri corporei non devono tutta la pienezza della loro perfezione alla [sola] forma sostanziale, che determina la specie, ma devono molto anche agli accidenti che sopravvengono: come l’uomo molto deve alla figura, al colore e ad altre cose del genere; e se qualcuna di queste cose viene meno alla debita proporzione, abbiamo il male. Ora, la stessa cosa avviene anche nell’azione. Infatti la pienezza della sua bontà non consiste tutta nella sua specie, ma vi aggiungono qualcosa anche gli elementi accidentali che possono sopraggiungere. E tali sono le debite circostanze.
Se dunque manca un elemento richiesto, per il quale si abbiano le debite circostanze, l’azione sarà cattiva»169.
- Infine le azioni sono buone in vista del fine, e in modo particolare del finis operantis, ossia dell’intenzione dell’agente. Rispetto a ciò Tommaso sostiene che il bene che rende perfetta l’azione, è l’apertura all’orizzonte di piena felicità che è detto beatitudo. Ecco perché il bene umano, considerato di per sé (e non in maniera particolare) consiste nella realizzazione di un cammino, preordinato ad un fine assoluto. In un tale contesto, il male è inteso come una privazione di quell’adeguamento al fine ultimo, ossia una privazione di bene.