IL LIBERO ARBITRIO E IL MALE
CAPITOLO 1: LA QUAESTIO SEXTA DE MALO: LA SCELTA UMANA
1.4. Nota sul trascendentale in Tommaso
Nel corso della nostra ricerca, ci siamo riferiti spesse volte e con molta naturalezza al concetto di “trascendentale”, il quale sembra permeare in modo quasi preminente l’intera filosofia tomista. Tuttavia è d’obbligo, giunti a questo punto, fare una precisazione.
Tommaso si riferisce senza dubbio al concetto di trascendentale quando tratta dell’orizzonte intrascendibile della realtà, ovvero dello stesso essere, che ricomprende le infinite singole realtà con le loro infinite differenze. Nonostante ciò, l’Aquinate utilizza sporadicamente il termine “trascendentale”, che spesso sostituisce con quello di “universale”. Il trascendentale è bensì da attribuire ad un altro filosofo medievale, a Tommaso successivo, ovvero Franҫois de Meyronne230.
Il Doctor Angelicus farà peraltro uso dei termini trascendens e trascendentes, che ritroviamo in numerosi luoghi dei suoi scritti, di cui daremo dei brevi cenni nel prosieguo del nostro discorso. Prima di trattare sistematicamente i luoghi tommasiani che riportano la questione del trascendentale, faremo un breve excursus sul significato di tale termine, e sull’origine del concetto corrispondente.
Possiamo dire che il primo filosofo a parlare della trans-genericità dell’essere sia stato Aristotele. Lo Stagirita infatti, in Metafisica III231, appura che l’essere non è un genere, poiché è prerogativa dell’essere ricomprendere le differenze specifiche dei singoli enti. Dunque, se l’essere fosse un
229 Troviamo all’articolo 2 della quaestio: «Poiché la mancanza di una bontà qualsiasi implica la nozione di cosa non
buona, soltanto il bene perfetto, al quale non manca niente, è un bene tale che la volontà non può non volere: e questo bene è la felicità. Ma tutti gli altri beni particolari, mancando di qualche bontà, possono sempre considerarsi come cose non buone: e in base a codesta considerazione possono essere ripudiati o accettati dalla volontà, che ha la capacità di volgersi verso una medesima cosa secondo considerazioni diverse» (S. Th., I-IIae, q. 10, a. 2 Respondeo).
230 Storicamente si pensa che il primo trattato dedicato interamente alla trascendentalità dell’essere sia la Summa de
Bono (1225-1228) di Filippo il Cancelliere (1165-1236), filosofo e teologo francese, magister alla Sorbona di Parigi. Tuttavia, il termine “trascendentale” si rinviene per la prima volta probabilmente nel XIV secolo, nelle Disputationes di Franҫois de Meyronne (1288-1328), ministro provinciale della Provenza, e allievo di Duns Scoto.
231 Leggiamo infatti nella Metafisica: «Ma non è possibile né che l’Uno né l’Essere siano un genere. (È necessario,
infatti, che le differenze di ciascun genere siano, e che ciascuna differenza sia una. […] Ne segue che, se l’Essere e l’Uno sono generi, nessuna “differenza” potrà né essere, né essere una)» (Aristotele, Metafisica, III, 998 b 22-26 ss).
genere ciò significherebbe porre al di fuori di esso tutte le differenze. Tuttavia ciò è impossibile, poiché nulla può sussistere al di fuori dell’essere: esso ricomprende ogni differenza.
Inoltre, le singole realtà per esistere necessitano dell’orizzonte dell’essere, che permette di cogliere gli intelligibili attraverso le loro dissomiglianze. Se così non fosse, ovvero se le realtà singole non fossero ricomprese all’interno dell’orizzonte dell’essere, di esse si darebbe una mera percezione sensibile (in greco “aisthetón”).
La medesima concezione dell’essere come orizzonte trascendentale, necessario a concepire e ricomprendere gli oggetti reali, si ritrova nella constatazione scolastica, secondo cui i cosiddetti predicamenti – ossia le categorie attraverso cui classifichiamo la totalità del reale (sostanza, qualità, quantità, ecc.) – e i predicabili – ovvero il modo ulteriore di organizzare i predicamenti (genere, specie, proprio e accidente e differenza) – non sono sufficienti a saturare la nostra conoscenza della realtà, poiché questi tralasciano sempre alcuni aspetti degli enti (per esempio dal concetto di bellezza bisogna tralasciare la quantità, poiché questa non ne è predicamento)232.
Il concetto di trascendentale, da noi tomisticamente inteso, verrà poi concepito diversamente nel XVIII secolo da Kant, il quale lo astrae dall’oggetto, riducendolo interamente al soggetto.
Dopo questo breve excursus ci concentreremo quindi sul modo in cui Tommaso tratta il trascendentale nel corso delle sue opere.
Abbiamo già accennato al fatto che l’Aquinate si riferisce raramente al trascendentale con un termine appropriato: egli piuttosto tende a parlarne attraverso la parola “universale”. Uno dei luoghi in cui esplicita più chiaramente il concetto di trascendentale è il De Veritate.
Nella Quaestio 1 del suddetto testo troviamo infatti la descrizione dei trascendentali; essi sono cinque: res, aliquid, unum, verum e bonum. La res sta a indicare l’ente considerato positivamente in sé stesso; l’aliquid sta a significare un ente in rapporto ad un altro, dal quale si distingue; l’unum è l’ente considerato negativamente, nel senso che è indivisibile (e quindi non coincide con tutto il resto); il verum costituisce l’ente in rapporto all’anima, che lo conosce con la facoltà dell’intelletto; infine il bonum indica l’ente in rapporto all’anima, che lo vuole con la volontà (della quale il bene è oggetto indiscusso)233. Nel Commento alle Sentenze troviamo scritto che i trascendentali, in quanto
232 Riguardo questo argomento, cfr. P. Pagani, Possibilità, contingenza, libertà, appunti per il corso di Filosofia Morale,
Università Ca’ Foscari, Venezia 2015-2016.
233 Nel testo troviamo: «La negazione che consegue all’ente è, in assoluto, la [sua] indivisibilità, che è espressa con il
nome di uno (unum). Infatti l’uno altro non è che l’ente indiviso. Al contrario, se il modo dell’ente è assunto nella seconda maniera, cioè secondo l’ordine di un ente ad un altro, ciò può avvenire in due maniere. In una prima maniera, secondo la divisione dell’uno dall’altro e ciò è espresso con il nome “qualcosa” (aliquid). Infatti, si dice ali-quid, quasi che [fosse] un’altra quiddità. Per conseguenza, come un ente è detto uno, in quanto è indiviso in sé, così è detto
tali, sono convertibili sia con l’ente che tra loro234; infatti, come Tommaso spiega in De Veritate,
essi coincidono tutti con la stessa cosa, e nessuno di essi dice qualcosa di reale più di un altro. La loro distinzione è meramente concettuale, in quanto considerano la medesima cosa da punti di vista differenti235. Nella Quaestio 21 il nostro filosofo qualifica il bene come un trascendentale: esso infatti «è predicabile di tutte le cose in rapporto all’anima, che lo vuole mediante la volontà»236. Il
bene è perciò convertibile con tutti gli altri trascendentali, distinguendosi da essi solo concettualmente.
Anche nella Grande Summa il Doctor Angelicus utilizza a tratti il termine “trascendentale”. Nella
Quaestio 93 della Prima Parte della Summa, egli analizza le distinzioni tra somiglianza e immagine,
definendo la somiglianza come un’unità, ovvero come una comunanza di qualità (al pari di quanto sostiene Aristotele nella Metafisica237); si rifà dunque ai concetti trascendentali di unum e di bonum in questo modo: «La somiglianza implica una certa unità. Infatti la somiglianza risulta da una comunanza di qualità, come dice Aristotele. Ora, l’uno, essendo trascendentale, conviene a tutti gli enti e può attribuirsi a ciascuno di essi, come il bene e il vero. Per cui, come la bontà può essere attribuita a una data cosa sia come presupposto che come coronamento, qualora stia a indicare una sua perfezione, lo stesso vale per la somiglianza in rapporto all’immagine. C’è infatti una bontà che è anteriore alla nozione di uomo, in quanto l’uomo è un bene particolare; e c’è una bontà che è posteriore all’uomo stesso, in quanto diciamo che un uomo è buono in maniera speciale, per la perfezione della sua virtù»238.
Date queste considerazioni, possiamo constatare che Tommaso va ben oltre il concetto di trascendentale dei suoi predecessori. Questi, infatti, tendevano a vedere nel trascendentale
qualcosa (aliquid), in quanto è distinto dagli altri [enti]. In un’altra maniera, secondo la convenienza di un ente con un altro, e questa maniera si può dare solo se si pone qualcosa, che sia di natura tale da avere convenienza con ogni ente. E questo qualcosa è l’anima, la quale “in un certo qual modo è tutte le cose”, com’è detto nel Libro III dell’Anima (Aristotele, De Anima, III, 8, 431 b 21). Ora, nell’anima, c’è una potenza conoscitiva ed una appetitiva. Dunque, la convenienza dell’ente con l’appetito è espressa con il nome di bene (bonum); perciò al principio dell’Etica [Nicomachea] si dice che il bene è “ciò verso cui tutte le cose tendono” (Etica Nicomachea, I, 1, 1094a 3). Invece, la convenienza dell’ente con l’intelletto è espressa con il nome di vero (verum)».
234 Tommaso, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, II, d. 34, q. 1, a. 2 ad 1um, tr. it. di P. Lorenzo Perotto o. p.,
su testo latino a cura dell’editio Leonina, Bologna 2000.
235 Tommaso, Quaestiones disputatae de Veritate, q. 1, a. 1. 236 Tommaso, Quaestiones disputatae de Veritate, q. 21 a. 1 resp. 237 Aristotele, Metafisica V.
meramente le prerogative essenziali di Dio, dalle quali non può prescindere la sua stessa pensabilità. Il primo ad elaborare tali concetti era stato, come abbiamo visto poco fa, Filippo il Cancelliere, che, nella sua Summa de Bono, identifica i trascendentali con quattro nomi divini: l’ens, l’unum, il verum e il bonum. Questi sarebbero stati in seguito integrati da Guglielmo di Auvernia, che, rifacendosi al
De Divinis Nominibus di Dionigi lo pseudo-Aeropagita, ne avrebbe aggiunto un quinto, ovvero il pulchrum239.
L’Aquinate riprende queste concezioni, superandole: il trascendentale, come lo intende il nostro filosofo, oltre a riferirsi a delle prerogative divine, si configura come ciò che conviene a tutti gli enti e può perciò essere attribuito a ciascuno di essi, in quanto qualifica l’orizzonte dell’intero essere. Dunque Tommaso applica la nozione di trascendentalità a quei concetti che si estendono tanto quanto l’essere, e che sono concretamente reperibili anche negli enti particolari. Possiamo concludere dunque che il Doctor Angelicus ci permette di calare il trascendentale nel contesto del contingente, per poi ribadire la sua universalità.
239 Umberto Eco, ne Il problema estetico in Tommaso d’Aquino (Bompiani, Milano 1970), sostiene che nella lista dei
trascendentali, l’Aquinate ometta volutamente quello del pulchrum. La ragione di questa mancanza sarebbe quindi da ritrovare nella Summa (S. Th., I-IIae, q. 27, a. 1, ad 3um), ovvero nel fatto che dell’ente deforme si può predicare qualsiasi trascendentale, tranne il pulchrum: nel deforme infatti non si realizza la consonantia o la proportio partium, che è la caratteristica essenziale del pulchrum. Il bello quindi è idem bonum, ma non idem cum bonum, ossia, nonostante ogni bello sia buono, al contrario, non ogni buono è bello, quindi i due concetti non hanno uguale estensione, perciò non sono convertibili.
Leggiamo nel passo sopra citato della Summa: «Il bello si identifica col bene (pulchrum est idem bonum) salvo una semplice differenza di ragione. Infatti, mentre il bene è “ciò che tutti gli esseri bramano”, e implica l’acquietarsi in esso dell’appetito; il bello implica invece l’acquietarsi dell’appetito alla sola presenza, o conoscenza. Difatti riguardano il bello quei sensi che sono maggiormente conoscitivi, cioè la vista e l’udito a servizio della ragione: e così parliamo di cose belle a vedersi o a udirsi. Invece per l’oggetto degli altri sensi non si usa parlare di bellezza: infatti non diciamo che sono belli i sapori o gli odori. È perciò evidente che il bello aggiunge al bene una relazione con la facoltà conoscitiva: cosicché si chiama bene quello che è gradevole all’appetito; bello invece ciò che è gradevole per la sua stessa conoscenza».
CAPITOLO 2. LA DECLINAZIONE MORALE DEL MALE ONTOLOGICO: IL