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Il nuovo apprendistato: i problemi e le soluzioni della l n 78/2014.

Ma il modello italiano funziona?

di Francesco Basenghi

In sede di ripartizione degli argomenti mi è stata assegnata la trattazione dell’apprendistato, colto tuttavia nella prospettiva peculiare della verifica di adeguatezza del modello nazionale – così come emergente dalle modifiche di cui al Jobs Act – rispetto alle esperienze maturate negli altri Paesi europei che regolano istituti omologhi, spesso con migliori risultati in termini di efficacia. La domanda che il prof. Zoppoli ha posto un momento fa è stata: «funziona il modello italiano?» La risposta sembra dover essere scontatamente negativa – al solito in linea con la consueta, deprimente collocazione del nostro Paese agli ultimi posti di qualsiasi classifica che misuri l’efficienza del mercato del lavoro – sebbene le ragioni della inadeguatezza appaiano piuttosto evidenti. Come è noto, risale all’anno scorso la inaugurazione della Alleanza europea per l’apprendistato, il cui obiettivo è quello di contribuire «alla lotta contro la disoccupazione giovanile, migliorando la qualità della formazione professionale e l’offerta di contratti di apprendistato in tutta l’UE grazie ad un ampio partenariato tra i principali attori del mondo del lavoro e del settore dell’istruzione». Tramite l’Alleanza si cercherà inoltre di indurre «un cambiamento di paradigma culturale nei confronti dell’apprendistato», individuando i programmi di apprendistato più efficaci all’interno dell’Unione ed applicando «le soluzioni più adatte per ciascuno Stato membro»1, nella consapevolezza che all’interno degli ordinamenti nazionali dotati di efficaci sistemi di istruzione e formazione professionale – quali la Germania, la

1 Cfr. C

OMMISSIONE EUROPEA, Varo dell’Alleanza europea per l’apprendistato, Comunicato stampa, 2 luglio 2013.

Danimarca, i Paesi Bassi e l’Austria – il tasso di disoccupazione giovanile è spesso inferiore alla media2.

L’iniziativa comunitaria verso la diffusione dell’istituto non è peraltro limitata alla promozione dell’Alleanza. L’attenzione nutrita verso questo strumento contrattuale e, quindi, verso l’adozione delle migliori pratiche, da tempo anima le autorità comunitarie: sono tredici i Key Success Factors puntualmente enucleati nei documenti della Commissione e, pur con tutte le naturali cautele in merito ai rischi di schematizzazione, traducibili in una check-list che ha ad oggetto il grado di adeguatezza dei singoli ordinamenti nazionali3. Si tratta di indicatori che possono dare la misura del grado di efficienza dei singoli sistemi nazionali, offrendo anche una serie di input in merito agli interventi da attuare in caso di scostamento rispetto alle migliori esperienze nazionali4. Guardando ai Key Success Factors la posizione italiana è comprensibilmente variabile in relazione a ciascuno dei parametri considerati, né potrebbe essere altrimenti considerando la loro ampiezza estensiva, riguardante tutti possibile aspetti dell’Apprenticeship: dalla qualità del dialogo tra le parti sociali all’allineamento con i fabbisogni del mercato del lavoro nazionale e/o locale, passando per la qualità del raccordo tra insegnamento teorico ed esperienza pratica, per la certificazione delle competenze acquisite e via discorrendo. Così, in questo quadro, l’Italia mostra apprezzabili consonanze rispetto alle più convincenti esperienze di altri Paesi rispetto ad alcuni indicatori – ad esempio quanto alle risorse assegnate ovvero alla qualità nel tutoraggio5 –

2 Del resto, l’aumento di un solo punto percentuale nell’utilizzo dell’apprendistato incrementa dello 0,95% il tasso di occupazione giovanile ed abbatte dello 0,8% il tasso di disoccupazione, come si legge in U.BURATTI, M.TIRABOSCHI, Apprendistato: cosa ci suggerisce l’Europa e

cosa invece fa l’Italia, in U. BURATTI, C. PIOVESAN, M. TIRABOSCHI (a cura di),

Apprendistato: quadro comparato e buone prassi, ADAPT University Press, 2014. 3 Cfr. E

UROPEAN COMMISSION, Apprenticeship and Traineeship Schemes in EU27: Key Success Factors. A Guidebook for Policy Planners and Practitioners, 2013. La Commissione non nasconde la distinzione tra Apprenticeship e Traineeship, per quanto rilevi che «interestingly, the key success factors are similar for both types of programmes».

4 I Key Success Factors individuati dalla Commissione sono: 1) Robust Institutional and Regulatory Framework; 2) Active Social Partner Involvement; 3) Strong Employer Involvement; 4) Close Partnerships between Employers and Educational Institutions; 5) Funding including Employer Subsidies and Other Incentives; 6) Close Alignment with the Labour Market Needs; 7) Robust Quality Assurance; 8) High-quality Guidance, Support and Mentoring of Apprentices/Trainees; 9) Appropriate Matching of Apprentice/Trainee to Host Organisation (Company); 10) Combination of Theoretical, School-Based Training with Practical Work-Related Experience; 11) Existence of an Apprenticeship/Traineeship Agreement; 12) Certification of Acquired Knowledge, Skills and Competences; 13) Tailored and Flexible Approaches to the Needs of Vulnerable Young People.

5 Cfr. U.B

mentre riguardo ad altri si avvertono preoccupanti scostamenti. Scontato, ad esempio, è il riferimento al parametro dello Stable and Robust Institutional

and Regulating Framework ossia alla cornice regolativa dell’istituto; cornice

che – invece di presentarsi come “stabile” e “solida” – ha sofferto e soffre di un incessante e faticoso lavorìo legislativo, segno di una tormentata irrisolutezza e di allarmanti insicurezze in merito alle soluzioni da adottare: si pensi – tanto per limitarsi agli interventi di maggior segno intervenuti sul minuscolo d.lgs. n. 167/2011, denominato Testo Unico non senza fantasia – alle c.d. riforme Fornero e Giovannini, al c.d. decreto Carrozza ed al Jobs Act del Governo Renzi6.

Già sotto questo profilo è facile rilevare come il nostro Paese non offra le migliori condizioni per una regolazione “vincente” dello strumento. Se è ormai concetto acquisito dalla communis opinio quello che valorizza la stabilità della regolazione normativa come fondamentale elemento attrattivo per le imprese, va da sé che modestissimo sia l’appeal di un quadro continuamente esposto alle suggestioni del momento, incapace di trovare requie e di offrire quindi agli operatori economici le indispensabili certezze sulla correttezza del proprio operato.

Su un piano di più stretta attinenza all’operatività dello strumento, uno dei punti di crisi insiste sul fatto che nella maggior parte dei sistemi nazionali comunitari l’apprendistato realizza e soddisfa i processi di alternanza scuola/lavoro che rappresentano la ragion d’essere dell’istituto, ne giustificano la presenza all’interno dell’ordinamento e danno ragione della specialità regolativa, ossia della presenza di un sistema più o meno articolato di deroghe e scostamenti rispetto alla fattispecie di contratto di lavoro dipendente assunta come ordinaria. Del resto, è proprio detta alternanza che realizza in massimo grado l’obiettivo sotteso alle forme di Apprendiceship generalmente diffuse: il coordinamento tra la fase propriamente scolastica e quella invece esperienziale, all’interno di un procedere dialogico – duale – che, nel rispetto ed in funzione di entrambe, ne garantisce la coerente interazione in vista della più proficua crescita professionale del giovane, completando il percorso di studio e nel contempo consentendone il facile inserimento all’interno dell’azienda nel rispetto delle competenze costruite.

Come è noto, il sistema italiano mostra a questo riguardo tutte le sue insufficienze. Come tutti sanno, le due forme contrattuali di apprendistato che – almeno nella intenzioni del legislatore – dovrebbero rispondere ipoteticamente al modello dell’alternanza fra i momenti formativi sono il

6 Cfr. D.G

AROFALO, L’apprendistato nel decreto legge 20 marzo 2014, n. 34, in LG, 2014, n. 12, suppl., 33 ss.

primo ed il terzo, ossia, rispettivamente, quello noto come apprendistato «per la qualifica e per il diploma professionale» e quello «di alta formazione e di ricerca»7. Ma è troppo noto che proprio queste due tipologie scontano i ritardi, le lacune e le esitazioni che ne hanno segnato l’evoluzione, risultata nei fatti tronca ed incompiuta, tanto da precluderne una effettiva diffusione8.

La sola fattispecie di apprendistato effettivamente conosciuta nella pratica è quella collocata in posizione intermedia tra le tre tipizzate in sede normativa – ossia quello professionalizzante – che tuttavia risulta, nel contempo, la più lontana dall’obiettivo dell’auspicata alternanza tra i momenti formativi, perché destinata all’inserimento professionale di un giovane che ha già terminato il corso di studi, facendo così venir meno quell’intreccio virtuoso tra percorso scolastico e percorso endo-aziendale che rappresenta la chiave del successo dell’istituto nell’esperienza di altri Paesi9.

La particolare collocazione del momento formativo all’interno della fattispecie di apprendistato dominante – ossia la seconda, nella scansione tipologica accolta nel Testo Unico – trova riflesso nella stessa dinamica del rapporto e, in particolare, si sconta sul sinallagma. Il porsi come fase eccentrica, indipendente, assoluta – nell’etimo del termine – e non correlata rispetto al momento on the job, slegata da qualsiasi reale alternanza, comporta due conseguenze inevitabili.

Da un lato – come si accennava – il trattamento economico riservato all’apprendista italiano è di regola sensibilmente maggiore di quello invece riconosciuto nei Paesi europei dove l’intreccio tra formazione e lavoro ha luogo con effettiva ed autentica valorizzazione del primo termine rispetto al secondo; e ciò, soprattutto, nella logica dell’alternanza. Quanto detto, del resto, non meraviglia: il gioco della corrispettività porta ad enfatizzare il contributo strettamente professionale – per quanto reso già in ipotesi da un lavoratore unskilled – inteso come largamente prevalente rispetto ad una formazione ridimensionata ed eccentrica rispetto al job. Non è un caso, allora, se all’interno delle esperienze nazionali più avanzate la retribuzione di ingresso è prossima ad un quarto di quella spettante al lavoratore ordinario, seppur con la previsione di meccanismi “a salire” piuttosto ripidi.

7

In generale cfr. A.LEVI, Il contratto di apprendistato riformato, tra finalità occupazionali ed

esigenze formative, in RIDL, 2013, n. 3, I, 557 ss.

8 Cfr. C.C

ORDELLA, Note in tema di profili formativi nel contratto di apprendistato, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2014, n. 224.

9 Come è noto, la più proficua esperienza duale nel nostro Paese è quella che si è sviluppata nella Provincia di Bolzano, non a caso particolarmente sensibile, anche culturalmente, alla vicina realtà d’oltralpe.

D’altro lato, la fase formativa non riesce ad affrancarsi dall’atteggiamento – in qualche modo condiviso dai protagonisti del rapporto – che la configura come onere burocratico, come vuoto adempimento imposto dalla legge quale condizione per l’accesso ai benefici normativi e contributivi collegati a questa tipologia contrattuale.

Un diverso profilo rispetto al quale si segnalano da più parti forti riserve riguarda la c.d. regolazione pluri-livellare, ossia la scelta legislativa di affidare la disciplina dell’istituto non ad una sola fonte regolativa ma ad un complesso di queste, il cui puntuale ed ordinato coordinamento diventa giocoforza decisivo ai fini dell’efficace funzionamento dello strumento.

L’esperienza nazionale ha prodotto esiti notoriamente migliorabili, tanto che proprio all’imperfetto ed all’insufficiente collegamento tra le diverse sedi chiamate a disciplinare la materia si fa di colpa del fallimento delle figure di apprendistato – la prima e la terza – che meglio avrebbero potuto realizzare l’alternanza scuola/lavoro di cui si diceva. E in effetti è banale osservare che la moltiplicazione dei livelli coinvolti non può che complicare, allontanandolo, il completamento del mosaico regolativo.

In realtà, al di là della condivisibilità nel merito della scelta compiuta dal legislatore italiano – da taluni salutata come meritoria, da altri come chimerica – il quadro comparato offre indicazioni divergenti: non sempre Paesi caratterizzati da una tendenziale semplificazione architetturale brillano per la qualità dei risultati conseguiti; per contro, altre esperienze – quella tedesca, tra le altre – hanno mostrato di ispirarsi a modelli di multilevel governance che coinvolgono una pluralità di soggetti istituzionali, imprese, sindacati, con risultati invidiabili ed assunti come benchmark a livello comunitario. A quanto pare, la conclusione più ovvia – ma non per questo meno vera – sembra essere quella secondo la quale sulla formula teorica – ossia sul tipo di assetto validato – fanno aggio fattori diversi e mutevoli da caso a caso: chiarezza del quadro normativo qualità del dialogo inter-istituzionale, stato delle relazioni industriali, e via discorrendo.

Fatte queste considerazioni di sistema, qualche riflessione merita il senso degli interventi conseguenti al c.d. Jobs Act ed incidenti su questa tipologia contrattuale, giusto al fine di valutarne la coerenza rispetto ai Key Success

Factors e, quindi, la possibile delineazione di una linea di sviluppo del quadro

normativo secondo le linee validate internazionalmente.

Volendo anticipare le conclusioni, l’esito di questa verifica è tendenzialmente negativo; e ciò nel senso che ben poco della recente riforma di cui alla l. n. 78/2014 pare deporre nel senso del ravvicinamento della disciplina ai modelli più virtuosi.

Così, volendo esemplificare, poco consonante rispetto ai paradigmi raccomandati è l’intervento sui requisiti formali, realizzato con la riformulazione della lett. a dell’art. 2. L’aver consentito la definizione semplificata del piano formativo individuale – oggi redatto «in forma sintetica […] anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali» – costituisce una innovazione di discutibile riflesso e solo apparentemente agevolativa. Al di là degli opinabili obiettivi che il riformatore pareva proporsi – ancora una volta decifrabili con difficoltà, acuita dall’atteggiamento esitante tenuto in ordine alle soluzioni tecniche adottate10 – l’equivoco richiamo alla redazione in veste sintetica del percorso di formazione crea più problemi di quanti non ne risolva soprattutto in termini di certezza, mentre la negazione della facoltà – prima ammessa – di procedere alla sua definizione anche in tempi successivi all’assunzione, pur nel termine di trenta giorni, introduce un inutile elemento di rigidità di cui non è facile comprendere il significato ultimo11. Soprattutto non è agevole individuare la coerenza delle nuove regole con alcuno dei “fattori chiave” di elaborazione comunitaria: forse lo si potrebbe leggere in relazione con il requisito della

existence of an apprenticeship agreement, ma non sfugge il fatto che il nostro

Paese, proprio rispetto alla esistenza di una intesa contrattuale contenente una disciplina dettagliata del rapporto, fosse già adeguato.

Solo poco più sintonico risulta l’intervento che ha riguardato il tema dei limiti posti alla c.d. stabilizzazione degli apprendisti al termine del periodo formativo come condizione richiesta al fine del successivo ricorso allo strumento. A quanto pare, si tratta di una sintonia che riguarda “a monte” i presupposti stessi dell’accesso a questa fattispecie ed ha il preciso fine di evitare gli abusi tradizionalmente praticati da datori di lavoro interessati all’apprendistato in vista della acquisizione di manodopera a condizioni economiche e normative di particolare convenienza piuttosto che alla costruzione mirata di una figura professionalmente qualificata.

Se l’obiettivo pare limpido, non altrettanto risulta il percorso seguito dal legislatore; percorso che invariabilmente collide con il primo dei Key Success

Factors, cioè con quello che insiste sulla stabilità del quadro regolativo. In

10 Come è noto, il testo del d.l. n. 34/2014 originariamente escludeva l’obbligo di formalizzazione per iscritto del piano formativo individuale e solo in sede di conversione si è optato per una soluzione di chiaro segno compromissorio. In ogni caso, alcuni AA. vi leggono uno svilimento della componente formativa: cfr. G.ZILIO GRANDI, M.SFERRAZZA, Legge n. 78/2014 e politiche del lavoro, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2014, n. 220, 12.

11 Cfr. F.C

ARINCI, Jobs Act, atto I: la legge n. 78/2014 fra passato e futuro, in DRI, 2015, n. 1, 45.

effetti, la revisione della disciplina in materia introdotta dalla l. n. 78/2014 si pone come l’ennesima nel breve volgere di un breve periodo, senza peraltro che si possa distinguere un qualche elemento unificante i diversi interventi, ciascuno dei quali sembra rispondere solo alle contingenze del momento, con un procedere balbettante e contraddittorio e nessuna rispondenza ad un disegno di fondo.

Peraltro, proprio la frequenza delle pratiche abusive avrebbe potuto e dovuto trovare un temperamento se avessero trovato l’auspicata e doverosa diffusione le due tipologie invece rimaste inespresse, ossia quelle rispondenti all’obiettivo della autentica e proficua alternanza tra scuola e lavoro. Non è difficile osservare che l’interesse del datore di lavoro all’utilizzo abusivo dell’apprendistato cresce con il tendenziale avvicinamento dei contenuti esecutivi del rapporto – l’inserimento dell’apprendista nell’organizzazione, la immediata spendibilità della prestazione resa a fini produttivi, la qualità dell’apporto professionale offerto – al modello ordinario di lavoro dipendente. Al contrario, l’allontanamento da quest’ultimo renderebbe progressivamente meno conveniente l’adozione fraudolenta o simulata dell’apprendistato, a tutto favore del suo uso corretto e legittimo. In altri termini, è facile osservare che l’apprendistato professionalizzante – con la sua formazione posticcia, la sua mancata correlazione con una efficace alternanza scuola/lavoro, la sua platea di riferimento elettivo, formata da giovani ormai giunti alla fine del percorso scolastico e pronti alla piena valorizzazione on the job – pone le condizioni ideali perché il datore di lavoro veda in questa figura un comodo strumento per procurarsi a basso costo figure in realtà assimilabili, nei fatti, con i lavoratori già pienamente formati. Ben diversamente sarebbe se, invece, il giovane apprendista non avesse ancora completato il percorso scolastico – e, anzi, dovesse completarlo alternando momenti di formazione sul lavoro e momenti di formazione teorica mirata – e mostrasse quindi un rendimento giocoforza inferiore rispetto a quello ordinario.

In questa prospettiva si pone anche il tema del trattamento economico spettante all’apprendista; tema rilevante anche in ragione della distanza tra il sistema italiano e quello dei Paesi più virtuosi. Come è noto, la materia è regolata con una disposizione che parametra la retribuzione dell’apprendista su quella del lavoratore addetto «a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è finalizzato il contratto», prevedendo la possibilità di inquadrare l’apprendista «fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante» al primo ovvero di retribuirlo «in misura percentuale e in modo graduale alla anzianità di servizio».

Per effetto di quanto sopra, l’apprendista italiano è mediamente retribuito in misura largamente superiore a quanto non accada in Germania, in Austria o in Francia, dove il trattamento stipendiale è pari, nelle prime fasi del rapporto, a circa un quarto del livello salariale riconosciuto al lavoratore ordinario. E non v’è dubbio che anche sotto questo profilo il regime nazionale paradossalmente contribuisca a porre le basi per l’utilizzo distorto dello strumento: da un lato il trattamento economico relativamente elevato consolida la convinzione che l’apprendista possa e debba fornire una prestazione qualitativamente e qualitativamente ragguardevole; dall’altro ridimensiona il momento formativo all’interno del sinallagma contrattuale, confortando l’idea della sua marginalità.

Da questo punto di vista può essere utile ricordare l’intervento di riforma che ha interessato l’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale – ossia quello di primo tipo – prevedendo che al giovane debba essere «riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo». Nondimeno, al di là della obiettiva equivocità del disposto – suscettibile di più letture – non pare proprio che la previsione si muova nel segno dell’avvicinamento rispetto alle prassi diffuse nei Paesi di cui si diceva, dato che introduce un limite mimale alla retribuibilità delle ore di formazione svolte, senza alcun effetto calmierante rispetto al costo dell’apprendista. E ciò per tacere della dissonanza rispetto alla stessa logica promotive che vorrebbe la formazione non rappresentasse un onere economico per il datore di lavoro: il nuovo assetto ha l’effetto perverso di incrementare, al crescere delle ore di formazione, il costo sostenuto per il giovane lavoratore, aggiungendo uno svantaggio economico a quello organizzativo conseguente alla minore possibilità di impiego dell’apprendista nell’attività di impresa12.

A conclusioni non troppo diverse si arriva anche a proposito della disposizione che fa carico alle Regioni di «comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica, anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste, avvalendosi anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili». Fermo restando che la previsione si riferisce alla seconda tipologia di apprendistato e, in particolare, alla offerta formativa pubblica finalizzata alla acquisizione delle competenze di base e trasversali, nella migliore delle ipotesi la novità non

12 Cfr. C.C

sembra superare la dimensione della stretta tecnicalità di dettaglio, certo rilevante sul piano del ruolo ritagliato alle competenze regionali in materia – con tutte le implicazioni del caso, soprattutto in punto di conformazione all’assetto di cui all’art. 117 Cost. – ma marginale rispetto ai fattori chiave di

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