LE OBBLIGAZIONI E I CONTRATTI CAPITOLO IX
1. Le fonti dell’obbligazione. Il panorama delle pronunce
2.3. Obbligazioni pecuniarie. Riguardo alle obbligazioni
pecuniarie, un primo ordine di pronunce ha affermato, o ribadito, la natura di debiti di valuta (con conseguente applicazione del principio nominalistico di cui all’art. 1277, comma 1, c.c. e della regola sulla debenza degli interessi moratori di cui all’art. 1224, comma 1, c.c.) di talune tipologie particolari di obbligazioni, rispetto alle quali si era posto il dubbio se esse non rientrassero piuttosto tra i debiti di valore.
Questo dubbio è stato sciolto anzitutto in relazione alle obbligazioni pecuniarie aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro in valuta estera convertibile in moneta italiana sulla base di un semplice calcolo aritmetico con riferimento al tasso ufficiale di sconto.
Al riguardo, Sez. 1, n. 19084/2015, Lamorgese, Rv. 636675, con riguardo ad una fattispecie concernente un aiuto comunitario ai produttori di olio, da corrispondere in ecu (il cui valore di conversione in lire era fissato dall’art. 1 del reg. CEE n. 1502 del 1985), ha statuito che tali obbligazioni integrano debiti di valuta, insuscettibili di trasformarsi in debiti di valore a seguito di costituzione in mora del debitore, traendo argomento sia dalla facoltà che quest’ultimo ha, ex art. 1278 c.c., di convertire la moneta estera in quella avente corso legale anche solamente all’atto del pagamento, sia dalla regola della perpetuatio obligationis di cui all’art.1221 c.c..
La natura di debito di valuta è stata riaffermata anche con riferimento al debito del condividente donatario che, in sede di divisione ereditaria, abbia optato per la collazione per imputazione, mantenendo la proprietà del bene oggetto della donazione ma acquisendo un debito pecuniario di importo pari al valore del bene medesimo, che appartiene alla massa ereditaria, in sostituzione del detto bene, sin dalla data di apertura della successione e che è soggetto al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c.. Premessa tale natura, Sez. 2, n. 05659/2015, Oricchio, Rv. 634713, ne ha inferito la conseguenza che devono dunque essere imputati non i frutti civili dell’immobile oggetto di collazione ma gli interessi legali sulla somma oggetto del detto debito pecuniario, con decorrenza dall’apertura della successione.
La natura di debiti di valuta è stata ribadita, ancora, con riguardo all’obbligazione di pagamento dei canoni di locazione e con riguardo all’equo compenso per la cd. sorpresa geologica, dovuto
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all’appaltatore, ai sensi dell’art. 1664, comma 2, c.c., per i maggiori oneri derivanti da difficoltà di esecuzione conseguenti a cause geologiche. Da tale natura, con riguardo alla prima tipologia di obbligazioni, Sez. 3, n. 19222/2015, Petti, Rv. 636885, ha tratto argomento per affermare che la rivalutazione è dovuta solo per la parte eccedente il danno da ritardo coperto dagli interessi; con riguardo alla seconda tipologia, Sez. 1, n. 17782 /2015, Campanile, Rv. 636687, ha inferito che l’equo compenso previsto dall’art. 1664, comma 2, c.c., non perde la natura di debito di valuta anche se liquidato, secondo equità, prendendo a base i maggiori esborsi dell’appaltatore e adeguandoli agli indici della sopravvenuta svalutazione monetaria. La decisione in esame ha peraltro precisato che, in assenza di un’espressa statuizione al riguardo, l’adeguamento al parametro inflattivo non può ritenersi comprensivo degli interessi, che sono quindi dovuti, con decorrenza dall’intimazione di pagamento ovvero dalla proposizione della domanda da parte dell’appaltatore e non già dalla formulazione di un’eventuale riserva, non implicando quest’ultima la costituzione in mora della stazione appaltante.
Un secondo ordine di pronunce è tornato sulle conseguenze dell’inadempimento delle comuni obbligazioni pecuniarie di valuta, consistenti nella corresponsione degli interessi moratori (quale liquidazione forfetaria minima del danno per il ritardo nel pagamento: art.1224, comma 1, c.c.), e, eventualmente, del maggior danno (suscettibile di risarcimento, in aggiunta a quello minimo liquidato con gli interessi moratori, ove provato: art. 1224, comma 2, c.c.), stigmatizzandone – nel solco del tradizionale orientamento inaugurato da Sez. U, n. 01712/1995, Sgroi, Rv. 490480 – la differenza rispetto ai debiti di valore, in relazione ai quali è invece dovuta la rivalutazione monetaria.
In questa prospettiva la Suprema Corte, con Sez. U, n. 05743/2015, Petitti, Rv. 634625, ha riaffermato il principio secondo il quale il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c., e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta.
Con particolare riferimento al maggior danno, nel 2015 si è ripetutamente statuito – in conformità con l’orientamento espresso da Sez. U, n. 19499/2008, Amatucci, Rv. 604419 – che esso è
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determinato in via presuntiva nell’eventuale differenza, durante la mora, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali, indipendentemente dalla qualità soggettiva del (o dall’attività svolta dal) creditore.
Tale orientamento – dal quale la Suprema Corte si era momentaneamente scostata nel 2014 con Sez. 2, n. 20131/2014, Manna, Rv. 632479 – è stato ribadito sia da Sez. 6-3, n. 03954/2015, Ambrosio, Rv. 634449, sia da Sez. 2, n. 03029/2015, Mazzacane, Rv. 634554, la quale ultima ha ritenuto che il maggior danno non può essere riconosciuto sulla base della semplice qualità di imprenditore commerciale del creditore e sulla mera presunzione dell’impiego antinflazionistico delle somme di denaro dovute, poiché esso può ritenersi esistente in via presuntiva soltanto nei casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, indipendentemente dalla qualità soggettiva o dall’attività svolta dal creditore, Resta, per contro, fermo che, qualora il creditore domandi per il titolo indicato una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio, sarà onerato di provare, anche in via presuntiva, l’an e il quantum di tale pregiudizio e, in particolare, ove si tratti di un imprenditore, sarà onerato di dimostrare di avere fatto ricorso al credito bancario, sostenendone i relativi interessi passivi, ovvero quale fosse la produttività della propria impresa per le somme in essa investite, attraverso la produzione dei relativi bilanci, restando a carico del debitore la prova contraria.
Un terzo ordine di pronunce è infine tornato sul tema degli interessi corrispettivi e compensativi.
In particolare, Sez. 1, n. 20868/2015, Mercolino, Rv. 637415, ha statuito che la domanda di corresponsione degli interessi, non accompagnata da alcuna particolare qualificazione, deve essere intesa come rivolta al conseguimento soltanto degli interessi corrispettivi, i quali, come quelli compensativi, sono dovuti, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l’ipotesi della mora del creditore. Al riguardo, la decisione in rassegna ha precisato che la funzione primaria degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie è appunto quella corrispettiva, collegata alla loro natura di frutti civili della somma dovuta, nonché, nei contratti di scambio, caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, quella compensativa, consistente nel compensare la
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parte del mancato godimento dei frutti della cosa, eventualmente consegnata all’altra parte prima di ricevere la controprestazione. La funzione risarcitoria, propria degli interessi di mora, ha invece – secondo la pronuncia in esame – carattere secondario, presupponendo l’accertamento del colpevole ritardo o la costituzione in mora ex lege del debitore, e quindi la proposizione di un’espressa domanda, distinta da quella del pagamento del capitale.
Per contro, Sez. 6-1, n. 22179/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha affermato, in tema di contratto di conto corrente bancario, la nullità della clausola che, in ordine agli interessi passivi, faccia inizialmente riferimento ad un tasso certo, aritmeticamente determinato, prevedendone, tuttavia, la successiva variabilità in base agli usi su piazza, in quanto preclusiva della possibilità di individuare, con precisione e chiarezza, i parametri cui fare riferimento per determinare, in concreto, il saggio praticato nel corso del rapporto contrattuale.