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La revoca del consenso. In materia di trattamento di

IL DIRITTO DELLE PERSONE, DELLA FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI

4.3. La revoca del consenso. In materia di trattamento di

dati personali, la Sez. 1, n. 17339/2015, Lamorgese, Rv. 636774, ha affermato che la revoca del consenso al trattamento dei dati personali. può essere espressa dall’interessato con richiesta rivolta senza formalità al titolare o al responsabile del trattamento, anche per il tramite di un difensore di fiducia. La vicenda posta all’esame della Corte attiene ad un caso di cessazione del rapporto lavorativo di una dentista con una struttura sanitaria in cui la società proprietaria dello studio aveva conservato, online, i riferimenti alla professionista che aveva richiesto mediante diffida a mezzo raccomandata del proprio legale la cancellazione dei suoi dati dal

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sito web dello studio. In questo quadro, la Corte ha evidenziato che è illogico sostenere, in materia di trattamento dei dati personali, che la revoca debba avvenire, in concreto, con le identiche modalità con cui è stato dato il consenso e ciò in quanto le modalità, con cui può essere revocato il consenso, possono essere varie e anche diverse da quelle concretamente utilizzate per la manifestazione dello stesso, purché esprimano, senza formalità, la volontà della persona. La Corte ha sottolineato che dalla normativa si desume che «ai fini della revoca del consenso, i diritti di accesso ai dati, anche al fine di ottenere l’aggiornamento, la rettificazione, l’integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima e il blocco dei dati, sono esercitati con richiesta senza formalità al titolare o al responsabile» e «anche per il tramite di un incaricato», come, ad esempio, un legale di fiducia.

4.4. Riservatezza e diritto di cronaca. La Sez. 1, n.

00755/2015, Lamorgese, Rv. 634974, si è occupata del delicato limite esistente tra la diffusione di un’informazione per scopi giornalistici e la protezione dei dati personali nel difficile bilanciamento dei valori costituzionalmente protetti del diritto di cronaca e della dignità della persona.

Nel caso sottoposto al suo esame, la Corte ha ritenuto legittimo il provvedimento con cui il Garante della privacy aveva inibito la diffusione, ulteriore ed eccessiva, di dati personali di carattere sanitario relativi ad un evento di interesse pubblico già ampiamente noto nei suoi aspetti principali, rivelandosi la stessa non rispettosa del principio di essenzialità dell’informazione e lesiva del diritto fondamentale della dignità della persona. In particolare la Corte confermava la decisione di merito che aveva ritenuto corretta la decisione dell’Autorità per la protezione dei dati personali di inibire l’ulteriore diffusione, su un settimanale, di dati di carattere sanitario, già pubblicati, relativi alla principessa Diana Spencer, atteso l’eccessivo spazio ivi dedicato ai dettagli anatomici delle ferite riscontrate sul corpo di quest’ultima a seguito del mortale incidente automobilistico occorsole.

Con la medesima pronuncia la Corte ha peraltro ritenuto manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale, per pretesa violazione dell’art. 21 Cost., degli artt. 143 e 154 del d.lgs. n. 196 del 2003, laddove consentono una tutela preventiva ed inibitoria del trattamento illecito e scorretto di dati personali, atteso che la diffusione di dati sensibili senza il consenso del titolare o l’autorizzazione del Garante è condizionata all’essenzialità della divulgazione, a tutela del valore primario della dignità della persona

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coinvolta, che si rivelerebbe parziale qualora fosse limitata a quella risarcitoria per equivalente, senza ulteriormente consentire al titolare dell’interesse sostanziale minacciato o leso di poter impedire preventivamente il compimento o la prosecuzione del suddetto trattamento.

Con riguardo all’ipotesi in cui alla pubblicazione della notizia si accompagni anche la diffusione delle immagini dei soggetti coinvolti, la Sez. 1, n. 15360/2015, Mercolino, Rv. 636199, ha chiarito che la presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 10 c.c., 96 e 97, della l. 22 aprile 1941, n. 633, nonché dell’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003 e dell’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, anche alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita.

Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, nel caso di un servizio televisivo realizzato mediante riprese occulte e concernente le pratiche ingannevoli perpetrate nel settore delle offerte di lavoro, aveva completamente pretermesso ogni accertamento di uno specifico interesse alla conoscenza dell’immagine del soggetto coinvolto, erroneamente presunto una volta ritenuto quello inerente alla divulgazione della notizia.

La Sez. 3, n. 17211/2015, Vicenti, Rv. 636902, ha stabilito che l’esposizione o la pubblicazione dell’immagine altrui a norma dell’art. 10 c.c. e degli artt. 96 e 97 della l. n. 633 del 1941 sul diritto d’autore, è abusiva non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso delle altre circostanze espressamente previste dalla legge, come idonee ad escludere la tutela del diritto alla riservatezza (quali la notorietà del soggetto ripreso, l’ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, la necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o il collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico), ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, l’esposizione o la pubblicazione sia tale da arrecare pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima.

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Nel caso sottoposto alla S.C., l’attrice conveniva in giudizio innanzi al Tribunale territorialmente competente una s.p.a. televisiva per sentirla condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dalla lesione del diritto all’immagine e alla reputazione ad essa cagionata da un programma televisivo trasmesso da una nota emittente televisiva gestita dalla convenuta. L’attrice assumeva che, nell’ambito di detto programma televisivo, all’interno di un reportage

durante una festa pubblica a Negril in compagnia di un ragazzo e in un contesto lesivo della sua reputazione, in quanto il reportage aveva ad oggetto il crescente fenomeno del turismo sessuale delle donne in Giamaica.

Nel confermare le pronunce di merito, la Corte statuiva che l’onore e il decoro della persona ritratta prevale sempre sul diritto di cronaca e di informazione sul presupposto che, come peraltro più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, sebbene le ipotesi di cui all’art. 97, comma 2, della l. n. 633 del 1941, consentano la riproduzione dell’immagine anche senza il consenso della persona ritratta, in quanto esse giustificano l’interesse pubblico all’informazione, qualora dall’evento derivi pregiudizio all’onore o al decoro della persona, quest’ultima potrà legittimamente vantare pretese risarcitorie anche qualora ricorrano tali ipotesi.

La Cassazione infatti, approvando il convincimento della corte d’appello che, nel caso di specie, pur riconoscendo l’interesse pubblico al reportage giornalis

fenomeno di costume concernente il turismo sessuale, ha tuttavia, privilegiato la tutela del decoro e della reputazione della persona ritratta.

5. Il diritto all’identità sessuale. La Sez. 3, n. 01126/2015,

Travaglino, Rv. 634356, approda al riconoscimento del diritto alla identità sessuale, quale possibile declinazione del diritto dell’identità personale segnando quindi un ulteriore avanzamento dell’area di tutela dei diritti della personalità, banco di prova per il nostro ordinamento circa l’attuale attitudine ad accogliere ed assimilare al suo interno emergenti sensibilità sociali. La Corte ha stabilito che costituiscono condotte omofobiche, gravemente discriminatorie e lesive del diritto alla privacy, la segnalazione, effettuata dall’Ospedale militare, della dichiarazione di omosessualità da parte di un chiamato alla leva (ed esonerato dal servizio militare per tale sola ragione) alla Motorizzazione civile, evidenziando la derivante

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carenza dei requisiti psico-fisici legalmente previsti per la guida di automezzi, nonché la conseguente sottoposizione dell’interessato ad un procedimento di revisione della patente di guida, restando privo di rilievo al fine della determinazione dell’entità del risarcimento, a fronte dell’inviolabilità del diritto all’identità sessuale, che la vicenda e la diffusione dei dati fosse rimasta “circoscritta” in ambiti endo-amministrativi. In particolare, la vicenda sottoposta all’esame della Corte riguardava un ragazzo di vent’anni che alla visita di leva dichiarava le proprie inclinazioni omosessuali, ottenendo così l’esonero dal servizio militare, all’epoca obbligatorio, in quanto affetto da «disturbo dell’identità sessuale». Di lì a pochi mesi lo stesso riceveva la notifica della revisione della patente di guida e veniva altresì avvertito della necessità di procedere ad una nuova visita psico-attitudinale, al fine di ottenere la conferma della autorizzazione amministrativa in questione.