NEL TESTO UNICO PER LA FINANZA LOCALE
Le vicende del tributo nella legislazione Italiana.
La Commissione parlamentare chiamata a dare il proprio parere sulla riforma per la finanza locale, tra l'altro, ha proposto di conservare o di ripristinare l'imposta di famiglia in tutti i comuni con popolazione inferiore ai 25.000 abitanti (1).
Avendo già, nelle linee generali, illustrato quali in origine erano i fini di tale riforma, e come e perchè, attraverso la elaborazione delle due Commissioni, di studio (Pironti) e parlamentare (Berio), si siano andati modificando e in qual modo si concretarono, in definitiva, nelle disposizioni del Testo Unico per la finanza locale, pubblicato con B. D. 14 settembre 1931, n. 1175 (2), tralasciamo di ricordare i precedenti del complesso piano di riforme e ci limitiamo ad esaminare l'ordina-mento dell'imposta di famiglia risultante dal Testo Unico stesso, il quale ha accolto, con lievi modificazioni, la proposta della suddetta Commissione parlamentare.
Diamo prima un breve cenno delle vicende di tale imposta nel nostro sistema tributario locale.
L'imposta di famiglia, istituita a favore dei comuni, dalla-legge 26 luglio 1868, n. 4513, conservò sempre un carattere facoltativo; diventava obbligatoria nel caso di eccedenza ai limiti normali delle sovrimposte sui terreni e sui fabbricati, ma anche in tale caso i comuni avevano la scelta di applicare in sua vece l'imposta sul valor locativo o quella sul bestiame.
Affidata la sua applicazione esclusivamente ai regolamenti delibe-rati, per ciascuna provincia, dalla Giunta provinciale amministrativa, l'ordinamento del tributo, fin dall'origine, risultò diverso da provincia e provincia, e diverso ancora nei comuni noll'àmbito della stessa
(1) Cfr. Commissione parlamentare per la riforma della finanza localo, Relazione e schema
di proposta. (Roma, Tipografia del Senato, 1931, pag. 46).
( 2 ) Cfr. F . A . RÈPAOI, Le modificazioni al sistema tributario dei comuni e delle Provincie nelle proposte della Commissione parlamentare e nel Testo Unico per la finanza locale (in
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provincia; perciò profondamente sperequato perchè i criteri più disparati venivano adottati per la determinazione del concetto di famiglia, del reddito imponibile, del metodo di accertamento delle aliqnote, dei limiti minimi e, dove si ammettevano, delle esenzioni.
Per il concetto di famiglia ora si accoglie il criterio del vincolo del sangue o dell'affinità; ora quello della coabitazione, dando la preva-lenza ora all'uno o all'altro. Talvolta si accoglie il criterio della famiglia strettamente civile, secondo cioè lo disposizioni del Codice Civile, tal'altra includendo i parenti e gli affini in grado diverso. Spesso si richiede, oltre ai vincoli della parentela ed affinità e della convivenza, l'esistenza di un patrimonio unico, e goduto in comunione; ma spesso si parla di semplice comunione di beni o di industria e lavoro, o più generalmente comunione d'interessi.
L'imposta, pur volendo colpire l'entrata complessiva o il grado di agiatezza, non sempre ne dava una definizione precisa; e per la loro valutazione ora si ricorreva ad elementi diretti e certi, ora ad elementi presuntivi, indiziari. Non esistevano al riguardo norme generali, ed anche quando erano fissati non sempre erano indicati i mezzi idonei a raggiungere la maggiore e completa conoscenza della base imponibile. Le detrazioni per carichi di famiglia non sempre erano ammesse, e quando lo erano, si seguivano i criteri più disparati. Lo stesso dicasi per le aliquote, che risultavano ora proporzionali, ora progressive con diverse scale di progressione.
La mancanza di uniformità di applicazione generò spesso gravi confusioni e fu causa di continui e non ingiustificati malumori e recri-minazioni da parte dei contribuenti. Enormi erano le possibilità di evasione, ma non minori in contrapposto le vessazioni e le angherie, in quei comuni dove prevalevano criteri fiscali molto rigorosi.
Non vi è stato tributo in Italia che sia risultato più sperequato di quello in esame, perchè abbandonato all'arbitrio dei comuni o delle Giunte provinciali amministrative. Per quanto le molto numerose decisioni giurisprudenziali abbiano cercato di correggere le incongruenze che stridentissime ne risultavano, tuttavia il difetto costituzionale è rimasto inalterato. Tanti comuni, tante diverse regolamentazioni del tributo. Nei regolamenti relativamente recenti di alcuni grandi comuni, si è tentato di uniformarsi alle norme dettate dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Di fatto tale tributo ebbe larghissima applicazione nei piccoli cornimi, dove spesso, per le considerazioni avanti ricordate, si trasformava in un esoso testatico a carico delle famiglie meno abbienti.
Vari sono stati i tentativi di abolire tale imposta e di darle un assetto più razionale, ma essi sono riusciti vani, come quelli per cui, sino alla vigilia della guerra mondiale, si cercava di istituire in Italia un'imposta generale sul reddito a favore dello Stato e di effettuare una radicale trasformazione del sistema tributario locale.
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La riforma delle imposte dirette in Italia, gradualmente attuata dal Governo a partire dal 1923, e l'istituzione dell'imposta complementare di Stato a partire dal 1925, che coronò brillantemente tale riforma, pareva dovesse portare alla soppressione definitiva dell'imposta di famiglia (insieme con quella sul valor locativo).
Ed infatti una disposizione legislativa (B. Decreto-legge 30 dicembre del 1923, n. 3063) l'aboliva, a partire dal 1° gennaio 1925, epoca in cui entrò in applicazione la complementare di Stato.
Ai comuni veniva concesso, in sua sostituzione, un'addizionale all'imposta complementare stessa. Motivi di carattere finanziario riguar-danti i comuni indussero però il Governo a procrastinare tale abolizione e ad apportare temperamenti al ricordato Decreto 1923. Molti comuni, e specialmente i minori, trovarono inadeguato il gettito dell'addizionale alla complementare di Stato alle esigenze dei loro bilanci. E perciò i comuni che si trovavano in tali condizioni, con nuovi provvedimenti, sono stati autorizzati a riscuotere l'imposta di famiglia per il 1924, fino a tre quarti delle somme dovute dai singoli contribuenti; e senza tale limite di tre quarti per il 1925. In seguito si ritornò al sistema del 1924, cioè al limite dei tre quarti, ma limitatamente ai contribuenti non assoggettati all'imposta complementare.
Tutto ciò aveva un carattere di provvisorietà, in attesa dell'assesta-mento delle finanze dei comuni e, più che altro, della riforma delle finanze locali che il Governo si era proposto di attuare d'urgenza.
La ragione dell'abolizione dell'imposta di famiglia (e di quella sul valor locativo) si basava sul corretto principio di evitare una dupli-cazione di tassazione, in quanto non è ammissibile la coesistenza di due tributi che gravano, per lo stesso titolo, sul reddito. Nel caso specifico due imposte avrebbero gravato sul reddito complessivo: l'una, la complementare di Stato, e l'altra, quella di famiglia, a favore dei comuni,
La Commissione di studio, presieduta dal sen. Pironti, aveva proposto la soppressione dell'imposta di famiglia e di tutte le imposte suntuarie; conservava ed estendeva a tutti i comuni l'imposta sul valor locativo; la Commissione parlamentare, come avanti si accennò, sulle orme della precedente Commissione, accettava tale proposta con la facoltà però di sostituire tale tributo con quella di famiglia per i comuni con popola-zione fino a 25.000 abitanti, mantenendo tutte le imposte suntuarie.
Il Governo nel Testo Unico segui quest'ultima via, includendo però i comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti.
Quali sono stati i motivi per cui, cambiando decisamente rotta della tendenza alla soppressione delle due imposte, che si era già manifestata concretamente nel B. Decreto-legge 1923, si ritenne di conservarle? In sostanza come si evitò lo scoglio della duplicazione di tassazione? Come abbiamo altra volta ricordato, la Commissione di studio Pironti ha proposto il mantenimento e l'estensione dell'imposta sul
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valor locativo perchè era l'unica imposta a largo gettito che rimanesse ai comuni, in seguito alla soppressione dell'imposta di famiglia e dei dazi interni di consumo; e qui non crediamo di dover insistere ancora sull'erroneità di tale criterio, avendone già parlato altra volta (1).
La Commissione parlamentare non si attarda menomamente a discutere la questione di principio, come se questa fosse inesistente o trascurabile, ma discute se debba mantenersi soltanto l'imposta sul valor locativo oppure so debba e possa sostituirsi con quella di famiglia. E conclude cho è da accettarsi l'imposta sul valor locativo perchè è un tributo preminente, nella categoria delle imposte mobiliari, per le finanze comunali; e perchè è da tempo applicata dai comuni con buoni risultati. Non accoglie però il criterio generale di sostituirla, nei grandi e medi cornimi, con l'imposta di famiglia, perchè quest'ultima « può essere o sembrare una duplicazione della complementare »; si invece nei piccoli comuni perchè essa «può assicurare un gettito più notevole » (2). Ed ulteriormente osserva cbe è da preferirsi l'imposta di famiglia per i comuni minori, allo scopo di colpire le vaste categorie di cittadini non soggetti alla complementare; e per quelli che non vi sono soggetti, perchè « colpisce l'agiatezza del contribuente, laddove la complementare incide per la massima parte sulla proprietà immobiliare, aggravandone il carico tributario ».
In sostanza tutte queste motivazioni si riducono ad una: l'imposta di famiglia sarà applicata nei comuni minori perchè è più produttiva dal punto di vista fiscale; e questa maggiore produttività si ottiene, desumendola dalle proposte successive dell'ordinamento tecnico del tributo, abbassando i limiti d'imponibilità in modo da comprendere tutti coloro che non sono soggetti alla complementare e aggravandone l'aliquota si da investire anche i contribuenti soggetti alla comple-mentare. Afa esisto davvero una diversità di contenuto tra l'imposta di famiglia elio colpisce l'agiatezza e la complementare di Stato che colpisce il complesso dei redditi del contribuente? Non ci sembra affatto; il contenuto è identico, e se la Commissione mostra di preoccuparsi di non aggravare il carico della proprietà immobiliare, ricordiamo che inevitabilmente l'imposta di famiglia, come la complementare, inciderà sulla proprietà immobiliare quando la fonte dei redditi dei contribuenti è costituita esclusivamente dalla terra o dai fabbricati.
Nella relazione che accompagna il Testo Unico per la finanza localo si legge cho « la sua vitalità (dell'imposta di famiglia) si era dimostrata cosi pervicace perchè essa rispondeva assai bene ai requisiti di un'imposta personale soprattutto nei centri minori, ove il valore locativo perde ogni valore rappresentativo del reddito del contribuente e ove,
d'al-( 1 ) Cfr. F . A . RÈPACI, L'imposta sul valor locativo nelle proposte della Commissione di studio per la finanza locale e nelle discussioni parlamentari (in «La Riforma Sociale »,
gennaio-febbraio 1931, pag. 40.
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tronde, per la maggior parte di questi, non vi sono da temere dannose sovrapposizioni della valutazione erariale e della valutazione comunale dei redditi ».
La pervicace vitalità di un tributo non dimostra di per sè stessa affatto la sua attitudine a rispondere ai requisiti razionali di un buon ordinamento. Nel caso specifico, cioè, dell'imposta di famiglia, l'esperienza avutasi in Italia di oltre un sessantennio aveva dimostrato che mentre nei comuni maggiori la sua applicazione si veniva sempre più perfe-zionando, nei comuni minori essa risaltava sperequatissima.
Ma tutto ciò era ammissibile fino all'istituzione della complementare di Stato; l'ossigeno somministrato nell'ultimo quinquennio all'imposta di famiglia era temporaneo, in attesa della riforma tributaria locale, che, appunto in conformità delle riforme apportate al sistema tributario statale, vi doveva aderire.
Comunque sia, se, come vuole la relazione ministeriale, l'imposta di famiglia, come imposta sul reddito, sia da preferirsi nei piccoli centri alla complementare di Stato, una soluzione rimaneva da prendere: sopprimere quest'ultima ed in sua vece applicare l'imposta di famiglia. L'assenza o la presenza nelle valutazioni dei redditi, di cui si fa cenno nella relazione che accompagna il Testo Unico, non intacca affatto nè risolve la questione di principio; si tratta invero di una que-stione tecnica della cui portata del resto avremo modo di discutere in seguito.
Lasciando da parte, ad ogni modo, la questione di principio, vediamo come è organizzata l'imposta di famiglia secondo le nuove disposizioni.
Il concetto di famiglia e i soggetti dell'imposta.
Tutti i comuni possono applicare l'imposta sul valor locativo; quelli aventi popolazione sino a 30.000 abitanti, hanno però facoltà di applicare in sua vece l'imposta di famiglia. L'ima e l'altra imposta sono obbli-gatorie, per quanto la legge non lo dichiari espressamente; perchè altrimenti i comuni non potrebbero sovrimporre all'imposta erariale sui terreni; e nessun comune si trova in condizione di rinunziare a quest'ultimo cespite.
Il Testo Unico disciplina l'imposta di famiglia con disposizioni uniformi e precise per quanto si riferisce al soggetto, all'oggetto dell'im-posizione e al metodo di accertamento; lascia invece alle G. P. A. la determinazione dei limiti imponibili, la graduazione delle aliquote, la misura delle detrazioni per carichi di famiglia, seguendo però alcune direttive di cui diremo appresso.
Essenziale era definire il concetto di famiglia agli effetti fiscali; e per tale s'intende l'unione di più persone, strette da vincoli di parentela o di affinità, insieme conviventi nella stessa casa ed aventi patrimonio unico ed indiviso.
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Tre sono dunque gli elementi per aversi la famiglia: il vincolo di parentela o di affinità, la convivenza e il patrimonio unico ed indiviso; mancando uno di tali elementi e cioè esistendo la parentela e l'affinità e la convivenza, ma non l'unità e l'indivisibilità del patrimonio; oppure la parentela e l'affinità e la comunione di patrimonio, ma non la convi-venza; e infine esistendo la convivenza e la comunanza di patrimonio ma non il vincolo di parentela o di affinità; il componente la famiglia si considera come costituente esso medesimo una famiglia e quindi tassato a parte. E perciò sono considerate come altrettante famiglie:
a) le persone sole, ancorché convivano con altre che non siano
nè parenti nè affini;
b) le persone sottoposte a tutela, quando abbiano rendite proprie, anche se convivano col tutore;
c) le persone cbe abitano presso altre famiglie, anche se unite a queste con vincoli di parentela o di affinità, quando abbiano patri-monio proprio e redditi di qualunque natura, non compresi nella comunione.
In contrapposto alla complementare di Stato, dove la famiglia viene concepita in conformità ai criteri del Codice Civile, nell'imposta di famiglia viene allargato il concetto nel senso di includervi la convivezna sempre beninteso restando il patrimonio unico ed indiviso. Famiglie sono considerate perciò non soltanto quelle legittime, unite dal rapporto del sangue o del legame matrimoniale, ma anche le convivenze di fatto: le famiglie naturali. Anzi, dal vincolo del sangue, o dall'affinità si fa astra-zione totalmente, quando si stabilisce in un successivo articolo cbe sono soggette all'imposta le aggregazioni di individui che si propongono fini d'istruzione, di educazione o di culto. In tali aggregazioni sono prese in considerazione la convivenza, la comunione del patrimonio e gli scopi cui mirano. Tali convivenze si considerano perciò aventi carattere famigliare, e quindi saranno in esse comprese le associazioni religiose, i convitti, i seminari, i conventi.
L'articolo 114 del Testo Unico che estende alle aggregazioni d'indi-vidui l'imposta è scarsamente illustrato, tanto più cbe tale estensione non essendo stata presa in considerazione dalla Commissione parlamen-tare, al riguardo non si era fatta alcuna proposta. E poiché vi è un trattamento differenziale notevole di tassazione tra le convivenze esistenti nei piccoli e nei grandi centri, ciò potrà avere una ripercussione non indifferente dal punto di vista sociale, in quanto vi sarà la tendenza ad uno spostamento di sedi dai centri minori ai maggiori per evadere appunto alla tassazione.
Per quanto riguarda i soggetti dell'imposta si avrà che nei comuni con popolazione sino a 30.000 abitanti, con l'imposta complementare di Stato saranno tassate le famiglie civili, legittime, limitata alla più semplice espressione: i coniugi ed i figli minori non emancipati; e con l'imposta di famiglia, lo famiglie legittime, le famiglie naturali, le
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dazioni religiose, e tutte le altre aggregazioni che si propongono scopi di culto, d'istruzione e di educazione.
Mentre nella complementare si dichiara espressamente che il soggetto dell'imposta è la persona fìsica, nell'imposta di famiglia l'unità econo-mica è la famiglia, e non il componente di essa. L'imposta è accertata bensì al capo di famiglia, ma globalmente per conto di tutti i componenti la stessa.
Il reddito imponibile.
Oggetto dell'imposta è « l'agiatezza » della famiglia, dice l'art. 117 del Testo Unico, adoperando la parola già adottata nei regolamenti comunali; il che significa che non basta l'esistenza della famiglia, ma necessita che goda im grado di « agiatezza », di benessere. Come si valuta questa agiatezza? dai redditi o proventi di qualsiasi natura e da ogni altro indice apparente di agiatezza. Ora, quest'agiatezza ò qualche cosa di diverso dal reddito complessivo che colpisce l'imposta complemen-tare? No: il contenuto è identico, ma varia l'attuazione.
Nella complementare il reddito complessivo deve valutarsi rigoro-samente e su elementi certi e cioè sui redditi dei terreni, dei fabbricati, e sui redditi mobiliari; con esclusione quindi di qualsiasi valutazione presuntiva, e quindi da qualsiasi arbitrio dell'amministrazione; nell'im-posta di famiglia invece, oltre gli elementi ricordati, vi può concorrere qualunque altro indizio come: valor locativo, lusso della casa, posizione sociale, che dimostrino l'esistenza di altri redditi o entrate.
Trattandosi di un'imposta a carattere personale il luogo dell'imposta è quello della dimora abituale, cioè della residenza del capo della famiglia, indipendentemente dalla dimora degli altri componenti. In altre parole, per determinare lo stato economico e la capacità contributiva si deve tener conto di tutti gli elementi certi o indiziari dei componenti la famiglia.
Fin qui si tratta, come si è visto, di norme uniformi per tutti i comuni, e senza dubbio ciò costituisce un progresso iu confronto dell'ordina-mento preesistente. Per quanto riguarda invece la determinazione degli imponibili, delle detrazioni per carichi di famiglia, delle esenzioni per redditi minimi, il Testo Unico prescrivo dei criteri direttivi i quali, pur contenendosi nei limiti segnati dalla legge, possono determinare profonde sperequazioni tra comuni e comuni della stessa provincia, o di un'altra provincia.
I minimi imponibili.
La norma per i minimi d'imponibilità (come anche per la graduazione dell'aliquota) è che essi debbono essere più elevati nei comuni con popo-lazione più agglomerata e più bassi per i comuni con minore popola-zione; e poiché i comuni che possono applicare l'imposta di cui trattasi
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sono distinti in quattro classi, abbiamo che, in ogni provincia, si avranno quattro minimi imponibili a seconda che si tratti di comuni di 5000, da 5001 a 10.000, da 10.001 a 15.000 e da 15.001 a 30.000 abitanti. La legge non determina il rapporto di questa graduazione, la quale, cosi statuendo, parte del presupposto che a parità di reddito, nei comuni minori si abbia una maggiore capacità contributiva, in confronto dei comuni maggiori o quindi la possibilità di sostenere l'onere o un maggior onere d'imposta.
Nè la Commissione parlamentare, nè la relazione che accompagna il testo di legge BÌ soffermano affatto ad illustrare tale principio, che qui non discutiamo, ma accogliamo senz'altro; tali minimi sono lasciati all'arbitrio della G. P. A.
Il Decreto del 19 settembre 1931 che approva le norme provvisorie per l'applicazione del Testo Unico raccomanda di tener presente i red-diti minimi esentatali proposti dalla Commissione parlamentare, salvo le variazioni rese necessarie dalle condizioni locali.
Supponendo che tutti i comuni, a seconda della loro popolazione e prescindendo dalle predette variazioni dipendenti dalle condizioni locali, adottino i minimi imponibili proposti, questi risultano come nella seguente tabella I, nella quale teniamo conto di un'altro fattore, prescritto dal Testo Unico.
I minimi imponibili possono variare a seconda della composizione della famiglia. E cioè essi debbano essere aumentati del 50% quando i componenti della famiglia a carico del contribuente eccedano il numero di quattro, e ridotti di un quarto quando questi non ne abbia.
TABELLA I .
Componenti s carico del capo famiglia Classe dei comuni n e s s u n
componente componenti quattro più di quattro componenti
F) d a 1 5 . 0 0 1 a 3 0 . 0 0 0 a b i t a n t i . . . . 1 5 0 0 2 0 0 0 3 0 0 0
O) d a 1 0 . 0 0 1 a 1 5 . 0 0 0 a b i t a n t i 1 3 5 0 1 8 0 0 2 7 0 0
H) d a 5 0 0 1 a 1 0 . 0 0 0 a b i t a n t i 1 1 2 5 1 5 0 0 2 2 5 0
1 j m e n o d i 5 0 0 0 a b i t a n t i 0 0 0 1 2 0 0 1 8 0 0
La tabella dimostra, in primo luogo, come i contribuenti dei minimi comuni, qualunque sia la composizione della famiglia, abbiano ima capacità contributiva superiore del 25% in confronto dei contribuenti dei comuni con popolazione da 5000 a 10.000; del 50% in confronto di quelli da 10.001 a 15.000; e del 66 % % in confronto di quelli da 15.001 a 30.000 (1).
(1) Questi sono i minimi imponibili proposti dalla Commissione parlamentare e racco-mandati dallo istruzioni ministeriali; quelli cbe compariscono nelle colonne 2 o 4 sono