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Partecipazione: spazio pubblico e alterità urbana

1.1 Camminare nello spazio urbano: un percorso interdisciplinare

1.1.5 Partecipazione: spazio pubblico e alterità urbana

La strada è l’arena più grande della democrazia stessa

Rebecca Solnit66

La città, essenzialmente e semanticamente, è il luogo del nostro incontro con l’altro

Roland Barthes67

La dialettica fra istanze di organizzazione e di resistenza istituita da de Certeau fa da cornice ad un’altra prospettiva dominante nella letteratura relativa al camminare: in un ampio corpus di opere il camminare è discusso sullo sfondo delle dinamiche di accesso allo spazio pubblico, di condivisione democratica degli spazi e di incontro con l’alterità (socialmente intesa)68. In questa prospettiva, la “condizione urbana” viene ad essere caratterizzata principalmente dalla possibilità di partecipare alla multiforme vita sociale che quotidianamente si dispiega nelle strade e dal confronto con la diversità e la differenza, interpretate come elementi cardine della vita democratica, mentre camminare diviene, in primis, un modo di “essere presenti nell’ambiente pubblico”69. In questa linea di pensiero, viene quindi valorizzato il “camminare ‘tra’” di cui parla Franco La Cecla: il “camminare democratico di chi si sposta in città e incontra conosciuti e sconosciuti”70.

Già agli albori del XX secolo, la dimensione metropolitana stessa viene definita in virtù della quantità e varietà di persone che la abitano,

66 Rebecca Solnit, Storia del camminare, cit., p. 247.

67 Roland Barthes, “Semiologia e urbanistica”, cit.

68 La nozione di “spazio pubblico” è centrale nelle scienze umane, filosofiche e sociali e sarebbe impossibile, in questa sede, ripercorrerne le interpretazioni teoriche; ci limiteremo a evidenziare alcuni contributi esplicitamente legati al camminare. Allo stesso modo, non ci addentreremo in pratiche specifiche come, ad esempio, la manifestazione, la marcia, la processione, la parata.

69 Jan Gehl, Life Between Buildings: Using Public Space (1971), Arkitektens Forlag, Copenhagen 2001, p. 135 (traduzione mia).

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dell’iperstimolazione sensoriale, dell’eterogeneità delle potenziali relazioni interpersonali che possono avervi luogo. Se la passione e la professione del

flâneur, come ricorda Baudelaire, “è di sposare la folla”, il filosofo e sociologo

Georg Simmel, nel celebre saggio Die Großstädte und das Geistesleben (1903), nota come la riservatezza domini l’atteggiamento mentale degli abitanti della metropoli a causa del “continuo contatto esteriore con un’infinità di persone”71. Per Simmel, l’incontro con la massa, con la folla urbana, rappresenta un eccesso di stimoli mentali e sensoriali da cui l’abitante può difendersi solo attraverso una attitudine blasé: l’indifferenza, il distacco, considerati gli effetti psicologici più evidenti della “loneliness in togetherness” caratteristica della vita urbana. Il ritiro, la riservatezza, divengono in seguito una metafora frequentemente utilizzata nella letteratura urbana per indicare i tentativi di mantenimento del “senso di sé” attraverso meccanismi di distanziazione dall’incontro con l’alterità nello spazio pubblico72.

La città, quindi, diventa il luogo per eccellenza dell’anonimato, di quella immersione in una folla di sconosciuti tanto celebrata anche dalla letteratura a partire dall’Uomo della folla (1840) di Edgard Allan Poe73. Virgina Woolf, ad esempio, scrive nel suo A Writer’s Diary (1953):

Non appena usciamo di casa, una bella sera, fra le quattro e le sei ci togliamo di dosso la consueta personalità, la sola che i nostri amici conoscano, per diventare membri di quel vasto esercito repubblicano di anonimi pedoni, la cui compagnia è così piacevole dopo la solitudine della propria stanza74.

La strada metropolitana assume, progressivamente, valore di luogo di incontro con l’“alterità” per eccellenza. Se Sansot ci ricorda come già “per Montaigne imboccare una strada significava, e ancora oggi significa, rischiare di

71 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito (Die Großstädte und das Geistesleben, 1903), Armando editore, Roma 2010, p. 44.

72 Nei Capitoli III e IV affronteremo il ruolo delle tecnologie audio personali e networked nel mantenimento di un “territorio del sé” nello spazio urbano.

73 Sia Baudelaire sia Benjamin ricordano il ruolo di questo racconto nell’inaugurare un nuovo tipo urbano, uomo della folla e, al contempo, osservatore distaccato che diviene emblematico della città moderna. Si veda Merlin Coverley, Psychogeography, cit., pp. 59-62.

74 Virginia Woolf, Per le strade di Londra (A Writer’s Diary, 1953), Il Saggiatore, Milano 1963, pp. 99-100.

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incontrare l’altro, scontrarsi con lui anziché limitarsi a passargli accanto”75, è però nella letteratura legata alle scienze urbane e sociali che il riconoscimento del ruolo del camminare nello spazio pubblico si accompagna a istanze più dichiaratamente ed esplicitamente politiche.

Uno dei pilastri di questo corpus di opere è il celebre e influente The

Death and Life of Great American Cities della giornalista statunitense Jane

Jacobs. Dato alle stampe nel 1961, il saggio non cessa di nutrire le discussioni attuali sulla pianificazione urbana, il diritto alla città e la cosiddetta critical

citizenship76. Fin dalle prime righe, il testo si dichiara “un duro attacco contro gli

attuali metodi di pianificazione e di ristrutturazione urbanistica”77 e prende di mira urbanisti e architetti per rilanciare, invece, le reti informali di relazioni spontanee, considerate come la base del tessuto urbano. Le strade e i marciapiedi sono, nella lettura della Jacobs, luogo privilegiato di incontro sociale non pianificato, di scambio fortuito fra estranei e “costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali”78. Questa interazione diffusa fra cittadini, per la Jacobs, non rappresenta soltanto il terreno per lo sviluppo di relazioni sociali e contatti umani, ma diventa anche la base della sicurezza urbana79. Le strade divengono teatro di una vita collettiva spontanea e informale che crea senso di appartenenza e, al contempo, la sicurezza di chi le abita e attraversa.

Nel decennio successivo è invece il sociologo Richard Sennett a descrivere i termini della relazione e della negoziazione degli spazi pubblici fra sconosciuti che percorrono le strade cittadine. Nei suoi testi, a partire da The Fall

of Public Man: On the Social Psychology of Capitalism (1977), Sennett riconduce

75 Pierre Sansot, Passeggiate, cit., p. 235.

76 La genesi del testo, come ricorda il curatore dell’edizione italiana Carlo Olmo, è legata a una serie di articoli scritti per diverse riviste newyorkesi che costituiscono veri e propri resoconti di lunghe passeggiate nella città (oltre che all’attivismo politico della Jacobs, legato alla difesa del suo quartiere, il Greenwich Village, dalla costruzione di infrastrutture e dallo sviluppo urbano). Per una esaustiva e aggiornata analisi della fortuna del saggio nel dibattito urbanistico e sociologico recente, si rimanda alla prefazione di Carlo Olmo all’edizione italiana del volume: Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane (The Death and Life

of Great American Cities, Random House, New York 1961), Einaudi, Torino 2009. 77 Idem, p. 3.

78 Idem, p. 27.

79 L’ordine pubblico, infatti, è per la Jacobs più il risultato di una rete di controllo diffuso, spontaneo e spesso inconscio da parte degli abitanti che dell’azione delle forze di sicurezza.

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proprio al cosmopolitismo – la possibilità/capacità di condividere con sconosciuti gli spazi pubblici – il nocciolo duro della vita urbana e della politica della città. Nella sua interpretazione, la città è, o dovrebbe essere, “il foro in cui acquista significato incontrare altre persone senza la compulsione di conoscerle” e in cui la capacità di interagire con la diversità diviene presupposto del rinnovamento e del dinamismo urbano stesso80.

La vita democratica, in questa letteratura, si esplica principalmente nell’incontro con l’“altro”, mentre il marciapiede e la strada divengono “piattaforme per la vita pubblica e un’arteria per regolare l’interazione fra cittadini”81. Per dirla con l’antropologo Franco La Cecla, “una città è tale fin quando i suoi abitanti, qualunque cosa facciano e qualunque sia il loro reddito, possano ancora incontrarsi ‘casualmente’ per strada”82.

Così la filosofa Iris Marion Young, nella sua difesa di una “politica della differenza”, interpreta la città come uno “spazio produttivamente eterogeneo” in cui l’abitante può vivere il piacere della differenza83, mentre il sociologo tedesco Dirk Baecker, nell’analizzare la funzione delle promenaden nello spazio urbano, esplicita questa vocazione democratica e di condivisione della strada,

Here, social relations – asymmetrical in any other part of the city – are re-symmetrized, brought back into balance. […] because being different and jet equal is part of the life in the city. On the promenade, people are citizens, part of an ideal as well as real society.84

80 Richard Sennett, The Fall of Public Man: On the Social Psychology of Capitalism, Cambridge University Press, Cambridge 1977, p. 40 (traduzione mia). Si veda anche Richard Sennett, “Capitalism and the City”, simposio cITy: Daten zur Stadt unter den Bedingungen der

Informationstechnologie, 11 novembre 2000, ZKM, Karlsruhe, http://on1.zkm.de/zkm/stories/storyReader$1513 (ultimo accesso 23 luglio 2011).

81 David Macauley, “Side-Walking”, 2010, http://footnotesonwalking.blogspot.com/ (ultimo accesso 31 ottobre 2011, traduzione mia).

82 Franco La Cecla, “Prefazione”, in Rebecca Solnit, Storia del camminare, cit., p. XI. Su questa prospettiva, si veda anche Sonia Lavadinho, “Le Plan Piéton, un concept qui fait ses preuves”, in

Urbanisme, n. 359, marzo-aprile 2008. Anche Manuel Castells si allinea, sostanzialmente, a questa

interpretazione dello spazio pubblico: “I luoghi pubblici, in quanto sedi deputate all’interazione sociale spontanea, sono i dispositivi comunicativi di base della nostra società”; Manuel Castells, “Spazio fisico e spazio dei flussi. Materiali per un’urbanistica della società dell’informazione”, in Id., La città delle reti, Reset, Milano 2003, pp. 61-62.

83 Iris Marion Young, Justice and The Politics of Difference, Princeton University Press, Princeton 1990.

84 Dirk Baecker, “Neue Promenaden braucht die Stadt/The City Needs New Promenades”, in

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Se la caratteristica basilare della vita sociale cittadina è la differenza, la

promenade, vale a dire il luogo prescelto per il passeggio urbano, diviene la

cartina tornasole di questo principio strutturale, il luogo in cui assume maggiore evidenza sin dal successo delle prime passeggiate pubbliche nel XVIII secolo85.

Rebecca Solnit è una delle più strenue sostenitrici contemporanee di questa linea di pensiero. Per la critica americana,

Il camminare è soltanto l’inizio dell’essere cittadini, ma camminando il cittadino conosce la propria città e i propri concittadini e abita realmente la città e non soltanto una piccola porzione privatizzata di essa. Camminare per le vie è ciò che connette […] il microcosmo individuale con il macrocosmo pubblico. […] Il camminare conserva agli spazi pubblici la specificità dell’essere pubblici e la loro viabilità86.

Questa interpretazione della strada come spazio pubblico primario e luogo deputato alla condivisione e alla partecipazione alla vita civile e politica è anche al centro delle campagne dei gruppi radicali che si battono per l’allargamento della sfera pubblica come, ad esempio, il londinese Reclaim the Streets o Critical Mass87. Questi movimenti si oppongono al dilagante uso dell’automobile attraverso eventi carnevaleschi e feste di protesta che ricordano da vicino le pratiche situazioniste di cui parleremo nel prossimo paragrafo.

Non sembra essere un caso se buona parte di questi interventi proviene dall’area statunitense in cui, più che in Europa, si è assistito a una progressiva erosione dello spazio pubblico e delle possibilità pedonali88. Già negli anni Sessanta la Jacobs denunciava che:

85 Si veda anche: Carl Friedrich Schröer, “Zur Lust der Einwohner / For the Pleasure of the People”, in Promenaden/Promenades, Topos – European Landscape Magazine, n. 41, dicembre 2002, pp. 63-70.

86 Rebecca Solnit, Storia del camminare, cit., pp. 200-201.

87 http://rts.gn.apc.org/ (ultimo accesso 23 agosto 2011); http://www.criticalmass.it/ (ultimo accesso 23 agosto 2011).

88 Sebbene la Solnit non manchi di sottolineare l’eccezionalità italiana, in cui la strada è lo spazio centrale della vita sociale quotidiana e in cui “camminare per la città è un’attività culturale universale piuttosto che il soggetto di scorribande e di resoconti individuali” (Rebecca Solnit,

Storia del camminare, cit., p. 205), La Cecla non manca di ricordare che la deprivazione degli

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i marciapiedi urbani sono sempre più sacrificati a favore della carreggiata stradale, anche perché si suole considerarli come un puro e semplice luogo di transito pedonale e di accesso agli edifici, e non piuttosto, quali in realtà sono, come organi vitali e insostituibili per la sicurezza, la vita collettiva e l’educazione dei ragazzi89.

Oggi la situazione non sembra essere cambiata. Per Rebecca Solnit, “quasi tutte le città grandi e piccole d’America sono organizzate attorno al consumo e alla produzione […] e lo spazio pubblico non è che il vuoto tra i luoghi del lavoro, i negozi, le abitazioni”90. Le ragioni di questa progressiva erosione sono in stretta relazione con le possibilità democratiche e di espressione personale che la strada assume in questa linea di pensiero o, seguendo La Cecla, alle “garanzie della vita democratica che sono legate alla spazialità e al diritto allo spazio pubblico”91. E infatti, per la Solnit,

quando vengono eliminati gli spazi pubblici, ciò che viene in realtà eliminato è il pubblico; l’individuo cessa di essere un cittadino capace di fare esperienze e di agire nella comunità dei propri concittadini. La cittadinanza si fonda sull’idea di avere qualcosa in comune con gli estranei, proprio come la democrazia si costruisce sulla fiducia negli estranei. E lo spazio pubblico è lo spazio che condividiamo con gli estranei, l’area non segregata92.

controllo anche da noi sono sempre più una faccenda in cui si gioca la democrazia degli anni a venire”, Franco La Cecla, “Prefazione”, cit., p. XIII.

89 Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città, cit. p. 81.

90 Rebecca Solnit, Storia del camminare, cit., p. 200.

91 Franco La Cecla, “Prefazione”, cit., p. XII.

92 Rebecca Solnit, Storia del camminare, cit., p. 249. L’epitaffio al camminare come pratica culturale è rintracciato dalla Solnit nello sviluppo della periferia suburbana e del sobborgo residenziale tipico dello sviluppo urbanistico nordamericano degli anni Sessanta e Settanta e risultato della separazione tra casa e luogo di lavoro (di origine ottocentesca) e della diffusione dell’automobile (e della conseguente capacità di coprire distanze sempre maggiori quotidianamente per recarsi al lavoro). Nel sobborgo residenziale americano la viabilità è a misura di automobile, mentre il pedone risulta essere un ostacolo. L’automobile, d’altra parte, è spesso considerata uno dei simboli del crescente individualismo del XX secolo e della possibilità di trascendere la strada e la condivisione della vita urbana: “a means of physically separating oneself from spatial configurations like higher urban density, public space, or from the city altogether; Jason Henderson, “Secessionist automobility: racism, anti-urbanism and the politics of automobility in Atlanta, Georgia”, in International Journal of Urban and regional research, vol. 30, n. 2, p. 294; cit. in Michael Bull, Sound Moves: iPod Culture and Urban Experience, cit., p. 17.

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Questa interpretazione del camminare come pratica emancipatoria e democratica è ampiamente ripresa nelle politiche di pedonalizzazione degli ultimi anni che, appropriandosi di questa tradizione di pensiero, puntano spesso su termini chiave come “coesione sociale” o “interazione comunitaria”, allineandosi al pensiero del cosiddetto “New Urbanism” statunitense per cui, ugualmente, “la crescita di attività pedonale è considerata come un rafforzamento dei legami comunitari e come promozione del senso di luogo”93. In questa progressiva introiezione delle potenzialità sociali e politiche del camminare troviamo una normalizzazione (e una diluizione) delle istanze che, nei decenni precedenti (ma ancora oggi) nutrivano una critica radicale delle politiche urbane contemporanee94.

Osservare, percepire, leggere il divenire urbano, inscrivere il proprio corpo nel tessuto del mondo, vivere e abitare la città, riappropriarsi dell’ordine spaziale imposto e pre-scritto e del tempo cronologico, stratificare spazi-tempi, partecipare alla sfera pubblica e alla differenza: la micro-pratica quotidiana del camminare emerge come una costellazione di possibilità relazionali con l’“urbano” di volta in volta contrapposte alla visione dall’alto della città, alle nuove forme di mobilità, alla pianificazione totalizzante, al ripiegamento in sé e all’individualismo.

Queste possibilità emergono anche all’interno della prassi estetica in un processo di progressiva appropriazione della sfera quotidiana: dall’osservazione distaccata del flâneur fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, assistiamo, a partire dal periodo successivo, all’affermazione di forme di partecipazione più attiva, determinate a generare un cambiamento della città e alimentate dal

93 Emily Talen, “Sense of Community and Neighbourhood Form: An Assessment of the Social Doctrine of New Urbanism”, in Urban Studies, vol. 36, n. 8, giugno 1999, p. 1364, cit. in Jennie Middleton, “The Promotion of London as a ‘Walkable City’ and Overlapping Walks of Life”, cit., p. 201 (traduzione mia).

94 Come Jennie Middleton non manca di ricordare, però, “il potenziale emancipatorio e le possibilità democratiche del camminare in spazi urbani sono tutt’altro che privi di complicazioni e problematiche”. Una parte della letteratura che abbiamo esaminato, secondo la ricercatrice inglese, è animata da un romanticismo che la porta a considerare il camminare come pratica positiva in sé, con una tendenza a una generalizzazione universalizzante che rischia di lasciare in secondo piano una prospettiva di genere e i gradi di differenziazione dipendenti dal contesto locale: “The fear often experienced by the urban pedestrian illustrates some of the limitations in considering walking as an emancipatory practice. There is no doubt that fear of crime is a phenomenon that shapes cities and has great impact on the practice of walking in terms of how, where, and if people walk”; Jennie Middleton, “Walking City”, cit., p. 958.

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radicalismo politico e dalla sperimentazione che si incarnano pienamente nelle esperienze situazioniste, ma che già si realizzano nelle deambulazioni dadaiste e surrealiste. In queste ricerche, diviene centrale la sfida e il sovvertimento delle rappresentazioni, delle funzioni e delle pratiche urbane realizzabili attraverso il percorso poiché, come suggerisce Merlin Coverley, “lo sguardo al livello della strada richiesto dal camminare permette di sfidare la rappresentazione ufficiale della città”95.