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Patrizi e plebei nei collegi sacerdotal

Nel documento Il rex sacrorum a Roma e nell'Italia antica (pagine 145-149)

NELLA ROMA REPUBBLICANA

3.3. Dal III al II secolo: il prevalere del pontifex maximus 1 Episodi e protagonist

3.3.3. Patrizi e plebei nei collegi sacerdotal

Se si vuole comprendere fino in fondo la trasformazione sacerdotale della media età repubblicana, è indispensabile andare oltre le scarse notizie sul rex sacrorum, che consentono di rintracciare la prova del definitivo declino dell’ordo sacerdotum solo negli eventi del 180, senza dare indicazioni precise sulle sue cause. Del resto, l’analisi condotta fin qui ha già confermato che tale declino venne maturando nel corso del III secolo: è allora opportuno definire un po’ meglio i contorni generali di questo secolo, le cui dinamiche politico-sociali dovettero influire particolarmente sul sistema sacerdotale romano.

131 Gell. n.A. 1, 12,10-11: De more autem rituque capiundae virginis litterae quidem antiquiores non extant, nisi, quae capta prima est, a Numa rege esse captam. Sed Papiam legem invenimus, qua cavetur, ut pontificis maximi arbitratu virgines e populo viginti legantur sortitioque in contione ex eo numero fiat et cuius virginis du cta erit, ut eam pontifex maximus capiat eaque Vestae fiat. Il sed antitetico con cui Gellio introduce la lex Papia sembra confermare che solo a partire da questo provvedimento la nomina delle Vestali passò dalla competenza del rex (sacrorum) a quella del pontifex maximus. Dell’assemblea popolare (contio) in cui il pontifex doveva procedere alla nomina, torneremo a parlare infra, nel Cap. 5.3.

132 Non è possibile datare con maggiore precisione la lex Papia, di cui solo Gellio parla: per converso, è da escludere una sua collocazione sia intorno al 114/113 (epoca caratterizzata da processi alle Vestali che suscitarono grande scandalo: sintesi in Wildfang, Rome’s Vestal Virgins, pp. 93-95) sia nel 65 (anno in cui fu tribuno un C. Papio: fonti in Broughton, The Magistrates, vol. 2, p. 158), quando la scarsità di aspiranti al vestalato, tipica della fine della repubblica (vedi infra, Cap. 4.1), avrebbe reso del tutto inutile la sortitio in contione. Sull’inquadramento della legge nell’ambito delle trasformazioni sacerdotali di III secolo, cfr. la convincente analisi di Guizzi, Aspetti, pp. 73-86; inoltre si veda, ma con le riserve già espresse in nota 130, Mekacher- Van Haeperen, Le choix des vestales, pp. 69-72.

133 Potere disciplinare del pontefice massimo sulle Vestali: cfr. supra, Cap. 3.1.1; le Vestali nella propaganda augustea: cfr. supra, Cap. 3.1.2 nota 69.

Allo scopo, occorre risalire fino all’anno 300, in cui la lex Ogulnia riconobbe ai plebei, o meglio ai consulares triumphalesque plebeii, il diritto di essere ammessi all’augurato e al pontificato, con la prospettiva di un successivo raggiungimento del pontificato massimo:134 si era così esteso il principio che

aveva informato le leges Liciniae-Sextiae, trasferendo l’esito del conflitto tra gli ordini fin dentro le istituzioni sacerdotali, che erano sempre state di esclusivo appannaggio patrizio sin dalla fondazione della repubblica.135

Bisogna quindi riconoscere nell’anno 300 il momento iniziale della svolta, che sarebbe diventata tanto più gravida di conseguenze in quanto legata al nuovo assetto politico-sociale che la res publica stava assumendo: in effetti, proprio attraverso l’apertura di augurato e pontificato alle ambizioni della nobilitas patrizio-plebea, i Romani avevano posto le basi perché questi sacerdozi acquisissero una rilevanza simile a quella magistratuale e divenissero un’ulteriore possibilità sia di fare carriera, parallelamente al cursus honorum, sia di esercitare peso politico.

Rispetto ai pontifices (e al pontifex maximus), nessuna novità si era invece prospettata per il rex sacrorum e i flamines: la lex Ogulnia, infatti, non riguardò le quattro più alte cariche dell’ordo sacerdotum, che continuarono a rimanere appannaggio delle famiglie patrizie. Forse, ciò fu dovuto alla convinzione ancora

134 Cfr. soprattutto Liv. 10, 6,4-9: qui [sc. Q. et Cn. Ogulnii] undique criminandorum patrum apud plebem occasionibus quaesitis, postquam alia frustra temptata erant, eam actionem susceperunt qua non infimam plebem accenderent, sed ipsa capita plebis, consulares triumphalesque plebeios , quorum honoribus nihil praeter sacerdotia, quae nondum promiscua erant, deesset. Rogationem ergo promulgarunt ut, cum quattuor augures, quattuor pontifices ea tempestate essent placeretque augeri sacerdotum numerum, quattuor pontifices, quinque augures, de plebe omnes, adlegerentur . [...] Pontifices creantur suasor legis P. Decius Mus P. Sempronius Sophus C. Marcius Rutulus M. Livius Denter; quinque augures item de plebe, C. Genucius P. Aelius Paetus M. Minucius Faesus, C. Marcius T. Publilius. Ita octo pontificum, novem augurum numerus factus. Cfr. Lyd. mag. 1, 45. Sulla determinazione del numero esatto di pontefici e auguri prima e dopo la lex Ogulnia, vedi supra Cap. 3.1 con bibliografia; sulla sostanziale attendibilità dell’anno 300 come momento per l’approvazione della lex, cfr. K.J. Hölkeskamp, Das Plebiscitum Ogulnium de sacerdotibus. Überlegungen zu Authentizität und Interpretation der livianischen Überlieferung, «RhM» 131 (1988), p. 52; Oakley, A Commentary on Livy, vol. 4, p. 84 con nota 1.

135 In realtà, già all’epoca dell’approvazione delle leges Liciniae-Sextiae (fonti in Rotondi, Leges, pp. 216-220; Orlin, Temples, p. 81), i duumviri sacris faciundis erano stati portati a dieci, con l’obbligo che cinque fossero plebei (cfr. Liv. 6, 37,12 e 42,1). Si è detto, tuttavia, che prima del III secolo l’interesse per questo sacerdozio non era ancora paragonabile a quello per il pontificato e l’augurato: di conseguenza, dovette essere poco decisiva l’apertura dei suoi ranghi ai plebei, come sottolinea Delgado Delgado, Criterios, pp. 62-64 (spec. nota 35).

diffusa che i più antichi compiti sacrali potessero essere adempiuti soltanto dai patrizi, oppure si può credere che i patrizi stessi non avrebbero mai concesso l’apertura del pontificato e dell’augurato ai plebei senza la conservazione di alcuni privilegi in campo sacrale.136 Se si trattò di un compromesso, questo

premiò nel giro di pochi decenni la lungimiranza di quanti avevano patrocinato il cambiamento: in effetti, costoro dovevano avere capito, già al momento dell’approvazione della lex Ogulnia, che l’esclusione dei più decorosi sacerdozi dagli onori accessibili alla nobilitas patrizio-plebea, insieme alle altre ben note restrizioni, ne avrebbe favorito la progressiva decadenza, a tutto vantaggio del rinnovato pontificato.

Si aggiunga che il declino dell’ordo sacerdotum poté essere accelerato, in concreto, dall’opera dei primi pontefici massimi plebei, nei quali una forte capacità d’iniziativa personale pare essersi associata al vivo senso di appartenenza plebea:137 plebeo fu Ti. Coruncanio, di origine etrusca, che per

primo diede consulenza giuridica pubblica e gratuita;138 plebei furono poi L.

Cecilio Metello,139 l’oppositore del flamine Marziale A. Postumio Albino, e P.

Licinio Crasso Divite,140 colui che in diverse occasioni si servì della sua autorità

per contrastare non solo il flamen Dialis C. Valerio Flacco, ma anche il flamen Quirinalis Q. Fabio Pittore. Alla luce di questi episodi, in effetti, sembra che le divergenze sorte di volta in volta tra pontefice e flamine non si possano ricondurre a ricorrenti inimicizie personali, anche perché scontri simili sono assenti durante il pontificato massimo del patrizio L. Cornelio Lentulo Caudino,

136 Del conservatorismo dei Romani in campo sacrale abbiamo già parlato nel Cap. 1.3. 137 A proposito si vedano le interessanti osservazioni di Richard, Sur quelques grands pontifes, pp. 797-799.

138 Cfr. Liv. per. 18: Ti. Coruncanius primus ex plebe pontifex maximus creatus est; Pomp. Dig. 1, 2,2,35: ... ante Ti. Coruncanium publice professum neminem traditur. Tutte le fonti su Coruncanio, che fu pontefice massimo dal 254 ca. fino al 243, sono raccolte e discusse in Szemler, The Priests, p. 68; Rüpke-Glock, Fasti, vol. 2, pp. 929-930; vol. 3, pp. 1489-1491.

139 Subito dopo Ti. Coruncanio, è il secondo pontefice massimo plebeo (circa dal 243 al 221): cfr. Szemler, The Priests, p. 68; Rüpke-Glock, Fasti, vol. 2, pp. 830-831.

140 È il terzo pontefice massimo plebeo (dal 212 al 183): cfr. Szemler, The Priests, pp. 105- 107; Rüpke-Glock, Fasti, vol. 2, pp. 1107-1108; utile anche Van Haeperen, Le collège pontifical, pp. 187-188. Sulla sua elezione a pontefice, vedi l’importante testimonianza liviana riportata supra, in nota 128.

cronologicamente collocabile tra quelli di Metello e di Crasso.141 Eppure, le fonti

non autorizzano a credere che i pontefici massimi plebei operassero sempre e soltanto con predeterminata ostilità nei confronti dei patrizi: si può ritenere, piuttosto, che il loro obiettivo fosse quello di trarre il massimo profitto, in termini di autorità, dal nuovo assetto sacerdotale, a svantaggio di rex sacrorum e flamines visti non tanto come sacerdoti patrizi, quanto come rappresentanti dell’arcaico ordo sacerdotum che si intendeva definitivamente superare.

Queste conclusioni portano finalmente a riconsiderare i due opposti pareri di Latte e Dumézil, da cui sono partito per analizzare il ruolo del rex sacrorum tra i sacerdoti della repubblica: il primo, nello specifico, dice che il rex sacrorum divenne il più importante sacerdote della comunità dopo la cacciata dei re, e fu privato di ogni effettiva autorità soltanto a seguito di una “lotta” del pontefice massimo, una vera e propria “rivoluzione pontificale” maturata storicamente sotto la repubblica;142 invece Dumézil, rinfacciando a Latte la totale assenza di

ogni riferimento letterario a una “rivoluzione pontificale”, afferma che il rex sacrorum non poteva che essere stato sottomesso al pontefice massimo sin dal 509, per espressa volontà dei fondatori della repubblica.143 Ebbene, se già

emergevano dubbi sulla soluzione duméziliana, è ora possibile concludere che Latte ha ragione quando, dietro il decadimento del rex sacrorum, rintraccia un’evoluzione storica tipicamente repubblicana. Alla luce della mia ricostruzione, è d’altra parte opportuna una presa di distanza anche rispetto al pensiero dello studioso tedesco, sia a livello lessicale, sia a livello cronologico. Infatti, l’espressione “rivoluzione pontificale”, che pure ha il merito di rendere con immediatezza l’idea del deciso cambiamento avvenuto nel panorama sacerdotale, finisce per attribuirne troppo semplicisticamente la responsabilità al solo pontefice massimo: invece, il fatto che le fonti non parlino mai di un sistematico

141 Lentulo Caudino fu pontefice massimo probabilmente dal 221 al 213: cfr. Szemler, The Priests, p. 70; Rüpke-Glock, Fasti, vol. 2, p. 915.

142 Cfr. Latte, Römische Religionsgeschichte, p. 195, dove si parla espressamente della «Revolution, die den Pontifex Maximus und das ihm unterstellte Kollegium an die Spitze des römischen Sakralwesens gebracht hat». Per gli altri studiosi che condividono una simile visione, cfr. supra, nota 75.

143 Cfr. Dumézil, La religion, pp. 110-111. Per gli studiosi che a lui si rifanno, cfr. supra, nota 74.

piano seguito dai pontefici massimi a danno del rex sacrorum o dei flamines deve indurre a rivalutare la pluralità degli elementi che contribuirono al cambiamento. Soprattutto, però, Latte difetta nella ricostruzione temporale, poiché colloca genericamente la pretesa “rivoluzione” dopo la metà del IV secolo, senza tenere conto della lex Ogulnia.144 In realtà, data la mancanza di riscontri

documentari, è del tutto arbitrario supporre che cambiamenti sacerdotali di rilievo precedessero l’apertura dei collegi maggiori alla nobilitas plebea. Piuttosto, se proprio vogliamo delimitare cronologicamente la svolta che portò al primato del pontefice massimo, dobbiamo considerare un fenomeno complesso che, iniziato nel 300, maturò lentamente nei decenni successivi, per concludersi soltanto entro il 180.

Nel documento Il rex sacrorum a Roma e nell'Italia antica (pagine 145-149)