• Non ci sono risultati.

19 - Pelagio e i Pelagiani

Non sentendosi sicuro né a Roma e soprattutto in Africa, Pelagio intorno al 412 si trasferì a Gerusalemme, accolto dal vescovo Giovanni. Pare che le idee del monaco britannico si diffusero rapidamente tanto che molti chiedevano lumi a Girolamo. Ma egli rimase in silenzio fino alla richiesta esplicita di dire la sua da parte di Ctesifonte un personaggio di Roma, vicino agli Anicii e a Pelagio.

Lettera 133 a Ctesifonte

Girolamo per un po' sta zitto e poi prende occasione dalla richiesta da parte di Ctesifonte, un romano vicino alla famiglia degli Anici che erano tra i finanziatori di Pelagio, per rompere il silenzio. E all'inizio dell'anno scrive la lettera 133 a Ctesifonte in cui parla con chiarezza dei capisaldi della dottrina pelagiana:

1) la pretesa di "impeccantia" per cui i giusti possono essere su questa terra senza peccato (e fa risalire questa posizione a quella degli Stoici e del loro uomo arrivato al culmine delle virtù, posizione - pare - condivisa anche da Origene)

2) Il ridurre l'espressione fondamentale nella fede cristiana "non senza l'aiuto di Dio" ad un aiuto in realtà molto esterno cioè all'averci dotati Dio di libero arbitro e prima ancora delle nostre capacità naturali di fare il bene, della libertà.

Quindi, conchiude Girolamo, possiamo togliere di mezzo la preghiera e l'aver bisogno di Dio e frasi come 1Co 4,7 (Cos'è che non hai ricevuto?) sarebbero ben ridimensionate! E Girolamo offre uno dopo l'altro tantissimi testi della Scrittura in cui si dice che Dio è all'origine di ogni nostra azione.

La finale della lettera è per altri versi abbastanza notevole perché ci svela un mondo di "finanziatori" dietro alle varie correnti di pensiero in voga al momento, in questo caso gli Anici per Pelagio (ma non solo, sembra!). La violenza verbale di

Girolamo è al colmo e queste frasi lo hanno poi bollato per sempre come un "violento verbale" unico nella storia:

"Mi servo di te per scongiurare e mettere in guardia la piccola comunità della tua santa e illustre casa dall'accogliere le feci, o, per essere più blando, l'infamia di questa madornale eresia dovuta a uno, o, ammettiamo pure - voglio esagerare - tre mezzi uomini. Evitate cioè che dove prima si lodava la virtù e la santità prenda piede la schifosità di una presunzione diabolica e di una sozzissima conventicola. Sappiamo che chi fornisce dei mezzi a questa razza di individui non fa che mettere assieme una quantità di eretici, procurare nemici a Cristo e nutrire gli avversari; e che sarebbe proprio inutile presentarsi in un modo a parole, quando si può far loro toccare con mano che quello che pensano è tutt'altro!" (n. 13).

Il Dialogo "Contro i Pelagiani"

Dal mio angolo di studioso delle cose di Agostino è interessante notare che sullo sfondo Girolamo non tocca nemmeno la questione fondamentale per Agostino del peccato originale e della nostra incapacità di fatto di operare il bene per la radice viziata che ci portiamo dentro fin dalla nascita! Girolamo da allievo della Scrittura cita una massa di testi scritturistici in cui si dice che il bene lo possiamo operare solo quando la nostra libertà è guidata e fortificata dalla grazia di Dio.

Subito dopo, sempre nella primavera del 415, Girolamo scrive il dialogo "Adversus Pelagianos" e lo fa con un criterio già adottato di Agostino: non vuol nominare persone fisiche, specialmente Pelagio, verso il quale hanno tutti una grande stima di monaco e di asceta, ma solo dibattere certe posizioni sicuramente rischiose per la fede. E allora, seguendo il metodo socratico, mette in campo due personaggi fittizi, Attico (ortodosso) e Critobulo (pelagiano) sia per poter far conoscere tutte le posizioni di pensiero e sia anche per concentrarsi sulle idee e sulle cose senza attaccare le persone. Per quanto riguarda

la verità da affermare occorre essere equilibrati tra condannare la natura e la libertà, come fanno i Manichei e togliere ogni aiuto da parte di Dio.

Libro I

Le due affermazioni: Noi siamo liberi per fare il bene ma abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio per farlo sono comuni ad ambedue le posizioni. Ma il Pelagiano di fatto afferma che una volta che Dio ci ha dato la natura, la libertà e la legge di fatto poi siamo noi a meritare o demeritare. e la prima obiezioni dell'ortodosso è sulla preghiera: non c'è più necessità di pregare se poi tutto dipende da noi. E cita Rm 9,16 "non dipende da chi vuole o corre, ma dalla misericordia di Dio". "E ora dovrò citare altri passi delle Scritture in cui i santi chiedono l'aiuto di Dio in ogni singola opera desiderando lui come aiuto e protezione".

Tornando sulla possibilità teorica di arrivare a non peccare più, Attico afferma che ciò che sicuramente non si verificherà mai è di fatto impossibile. E poi 1Gv 1,8 (Se diciamo di essere senza peccato, la verità non è in noi) toglie ogni dubbio: Dio ha posto tutto sotto il peccato per arrivare ad avere misericordia di tutti (Ga 3,22). Dunque somma giustizia è arrivare a capire che tutto ciò che abbiamo di virtuoso non è nostro ma di Dio che ce lo ha elargito (n. 13). In realtà la più grande perfezione dell'uomo è riconoscersi imperfetto per cui "di tutti i giusti che sono nella carne la perfezione è imperfetta" (n. 14). Si affronta poi la questione se Dio ha dato comandi possibili o impossibili, con pazienza, perché "non cerchiamo la vittoria sull'avversario ma cerchiamo la verità che vinca la menzogna" (n. 21). In realtà Dio ha dato tanti possibili comandi ma nessuno li può mettere in pratica tutti insieme. Perché non tutti possiamo tutti, né a livello fisico, né a livello intellettuale (n. 25). Proseguendo con il discorso, l'opera confuta tante espressioni tratte da un libro di Pelagio contenente titoli e affermazioni eretiche come il n. 100

"L'uomo può vivere senza peccato e mettere facilmente in pratica i comandi di Dio, se vuole", a proposito del quale si dimostra che nella Scrittura è peccato anche il fatto di ignorare il bene (ci sono preghiere e sacrifici per i peccati commessi per ignoranza!).

Libro II

Il secondo libro inizia con la dimostrazione che il peccato per ignoranza è presente anche nel Nuovo Testamento e anche se ci sono tanti santi nessuno è senza peccato. E passando in rassegna un numero impressionante di testi dall'Antico e dal Nuovo Testamento, Girolamo dimostra che tutto e sempre il bene viene operato da Dio, con o senza la collaborazione dell'uomo e quindi noi possiamo peccare o non peccare, ma chi è sempre giusto e sempre va lodato è Dio.

Libro III

Si riparte da Critobulo che tenta di sostenere l'errore di Gioviniano: se il battesimo toglie le colpe passate, impegnarsi a vivere senza peccato da lì in poi è possibile. Ma purtroppo anche i battezzati non sono senza peccato, a cominciare dagli Apostoli.

Insomma, sbuffa Critobulo, tu di fatto accusi Dio che ha fatto una natura incapace di fare il bene! Ma Attico ribatte che Dio ha proprio creato l'uomo con la libertà, aiutandolo e sostenendolo in ogni cosa. E allora la domanda: cosa incorona Dio in noi se è lui che opera in noi? Risposta: la nostra volontà, che offre tutto quello che può e la fatica che tendere a realizzare le cose e l'umiltà che guarda sempre all'aiuto di Dio. Quanto poi alla prescienza di Dio, Dio sa ma sa quello che l'uomo liberamente sceglierà, perché lui giudica il presente non il futuro. Comunque lungamente Girolamo si attarda a dimostrare sulla base delle Scritture gli innumerevoli casi in cui la debolezza e l'ignoranza e

l'incapacità al bene sono presenti in tante pagine, che dimostrano quanto l'uomo abbia sempre bisogno della presenza gratuita dal suo Dio, a cominciare dal Signore incarnato. Quante volte nelle Scritture chi parla aggiunge espressioni del tipo "se Dio vuole",

"con l'aiuto di Dio", ecc.. E comunque se l'uomo è peccatore per i suoi peccati, può essere giusto per le sue virtù, come ad esempio il re Ezechia. Si dimostra la compresenza, anche nei santi della Bibbia, di comportamenti santi e peccatori. "E tu in mezzo alla gente, come fai ad essere l'unico a sentirti "pulito" fra il popolo di Dio'" (n. 25). Dunque siamo salvati solo per la misericordia di Dio.

E il dialogo termina citando la spinosa questione del battesimo dei bambini, che immuni ancora dal loro peccato personale, sono battezzati sulla fede dei genitori. E Girolamo per dare risposta cita Cipriano e Agostino (del quale aveva avuto in mano da parte di Orosio il libro sul Merito dei peccati e la remissione a Marcellino).

Orosio in Palestina. Il Sinodo di Gerusalemme

Ma il momento decisivo dell'entrata della problematica pelagiana nella vita di Girolamo fu senz'altro l'arrivo presso di lui del prete spagnolo Orosio, inviato da Agostino, che sapeva di Pelagio in Palestina, con le due lettere che non gli erano arrivate e poi l'opera a Marcellino sui meriti e il perdono dei peccati e la lettera a Ilario sulla problematica della grazia (Ep. 157 tra le agostiniane).

Girolamo si informa compiutamente da Orosio e scrive il dialogo "Adversus Pelagianos" creando subbuglio nei dintorni.

Per questo Giovanni convoca Orosio a Gerusalemme per chiarimenti, ma a Gerusalemme Orosio viene "messo sotto" dal fatto che non conoscendo il greco fu facile preda di Pelagio e soprattutto di un traduttore che parteggiava per Pelagio. E dunque Giovanni, che non capì assolutamente dove era il

problema, riconobbe Pelagio come perfettamente ortodosso nella sua affermazione che l'uomo fa il bene con l'aiuto di Dio (aiuto che però lui intendeva riferito alla natura e alla legge!).

Non solo ma addirittura Giovanni arrivò a trattare malissimo Orosio perché secondo lui aveva detto che l'uomo non riesce a fare il bene nemmeno con l'aiuto della grazia di Dio.

Il Sinodo di Diospoli (Lidda). Gli Atti pubblicati da Agostino.

Orosio allora scrisse la sua Apologia a Giovanni e Giovanni convocò un sinodo vero e proprio a Diospoli (Lidda) nel 415 per chiarire definitivamente la posizione di Pelagio, anche perché erano arrivati da parte del papa due "accusatori", due vescovi della Gallia, Eros e Lazzaro.

Anche in questa assise, cui non fu invitato Girolamo (!), Pelagio ebbe la meglio sui suoi accusatori sempre e soprattutto per il problema della lingua e delle traduzioni, per cui come disse Agostino "fu condannato l'errore e fu assolto l'errante".

I fatti successivi. Le violenze contro Girolamo e i suoi

Orosio non poté fare altro che tornare da Agostino, ma con gli atti del sinodo e Agostino stese una relazione di quegli atti ("De gestis Pelagii") in modo che tutti la leggessero.

Come andò a finire lo sappiamo. Agostino e i vescovi occidentali, soprattutto africani, continuarono a perseguire Pelagio, Celestio e le idee pelagiane e un importante concilio di Cartagine del 417 di fatto pose fine alla controversa. Il fatto, dopo alcune incomprensioni, rese possibile la famosa "Epistola Tractoria" di papa Zosimo che fu una circolare (oggi in gran parte perduta) a tutte le chiese per dichiarare chi sosteneva la non necessità della grazia "attuale", momento per momento nella vita dei credenti.

In Palestina la reazione dei simpatizzanti di Pelagio fu piuttosto violenta e una notte aggredirono i monasteri di Girolamo che si salvò a stento in una torre. di quelle brutte giornate così parla perversa. Accadde che i servi e le serve di Dio addetti alle cure del santo presbitero Girolamo furono vittime di uno scelleratissimo assalto, un diacono rimase ucciso, e edifici di monasteri furono incendiati. A mala pena lo stesso Girolamo per la misericordia di Dio fu protetto contro questa violenta incursione di gente empia da una torre meglio difesa delle altre.

Preferisco non parlare di questi fatti e aspettare che cosa decidano di fare in relazione a così grandi mali i nostri fratelli che sono vescovi del luogo (cf le due lettere di Innocenzo papa a Giovanni di Gerusalemme e a Girolamo: 41-43). Chi potrebbe credere che di fronte a tali fatti possano tirarsi indietro?

Certamente gli empi dogmi di uomini di tal sorta devono essere riprovati da tutti i cattolici, anche se stanno molto lontani da quelle terre, perché non possano nuocere dove possono arrivare; invece le azioni empie, la cui coercizione spetta alla disciplina episcopale, si devono colpire nel medesimo luogo dove si commettono, con pastorale puntualità e con santa severità, soprattutto dai vescovi locali o da quelli vicini. Noi pertanto, posti a così grande distanza, dobbiamo augurare che a tali fatti si ponga fine lì sul luogo in tal modo che non ci sia più bisogno di sottoporli ad ulteriore giudizio in nessun altro posto, e a noi non rimanga altro che far conoscere questo provvedimento. In tal modo gli animi di tutti coloro che sono stati gravemente feriti dalla fama di quelle scelleratezze, che sta volando dappertutto, saranno risanati dalla misericordia soccorritrice di Dio." (De Gestis Pelagii, 35,66).

Certamente importante a questo punto della vicenda fu la lettera che papa Innocenzo scrisse a Girolamo, dopo che lui aveva fatto avere notizie (una lettera che non abbiamo inviata da Eustochio e Paola la giovane!) al papa tramite il vescovo Aurelio di

Cartagine (belle anche le espressioni del papa nel biglietto inviato ad Aurelio "Ho un senso di compassione per quel membro del nostro gregge" (ep. 135):

"L'Apostolo afferma decisamente che le contese non hanno mai portato nessun frutto positivo nella Chiesa e pertanto vuole che gli eretici vengano repressi fin da principio, piuttosto che lasciarci noi trascinare in un confronto reciproco dove non se ne vede il termine... Tuttavia le tue grida di dolore hanno scosso il mio cuore, tanto che non mi pare il tempo di muoverti qualche appunto.. Anzitutto mi congratulo con te per la tua fedeltà e perseveranza. Chiunque si lascerebbe volentieri colpire dalle calunnie e dalle minacce - come dici tu - quando si tratta di difendere la verità; e il motivo sta nella vita di felicità che lo attende. Queste cose tu stesso le hai dette e ripetute a molte persone. Ora sono io che ti ci richiamo: certo ricorderai bene quello che hai predicato" (ep. 136, n.1)

Evidentemente Innocenzo non stimava del tutto gli attacchi e le risposte violente di Girolamo verso gli eretici..

Comunque egli termina la lettera dicendo che non ha in mano né nomi né fatti. Girolamo glieli fornisca, e lui agirà.

Intanto Innocenzo ha mandato anche la lettera 137 a Giovanni di Gerusalemme, che usa parole veramente forti:

"La tua fraternità avrebbe dovuto vigilare con maggior sollecitudine per custodire quel gregge ed evitare così che sorgessero simili inconvenienti che dovrebbero, dato il pericolo in cui altri vengono a trovarsi, svegliare la tua noncuranza. Ho sentito dire che il gregge del Signore vive nell'ansia e che è un miracolo se quelle pecorelle riescono a tirare avanti dopo essere state spogliate di tutto dagli incendi, dalle armi e dalle persecuzioni e dopo che sono stati trucidati e uccisi i loro cari. Il potere ce il diavolo ha preso su di te e suoi tuoi non riesce a scuotere proprio per niente quella tua risaputa pietà di Vescovo? Su di te, dico! Perché il fatto che nella tua Chiesa sia stato commesso un misfatto così esecrabile è senz'altro un capo d'accusa contro la tua carica vescovile. Dove sono le precauzioni che hai preso? ov'è l'aiuto e il conforto che hai dato

loro nei casi di crollo spirituale? Non dicono forse che la paura che hanno ancora attualmente è più grande dei lamenti per quello che hanno patito finora? Se quelle persone mi avessero riferito con maggiori dettagli i fatti in questione, avrei potuto giudicarti con miglior conoscenza di causa. Sta' attento, fratello mio, alle insidie dell'antico nemico, e sii molto vigilante come dovrebbe esserlo un buon superiore; così potrai o porre rimedio o reprimere questi fatti che mi sono stati riferimenti più come resoconto personale che come accusa formale. Altrimenti il diritto ecclesiastico sarebbe costretto a prendere le dovute sanzioni contro chi non ha difeso la causa degli oppressi" (n. 1)

Nell'anno 417, convocato da un nuovo sinodo voluto dal patriarca di Antiochia Teodoto, Pelagio fu condannato e cacciato dalla Palestina. Di questo ci parla Girolamo nella lettera 138 a Ripario, notando però che molti adepti del Pelagianesimo rimasero, soprattutto a Ioppe.