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3.2 – La percezione da parte della società nel mito, nella filosofia, nella antropologia e nella religione

La morte e i sepolcri: una realtà composita

I. 3.2 – La percezione da parte della società nel mito, nella filosofia, nella antropologia e nella religione

La morte di un individuo è, prevalentemente nelle culture arcaiche e primitive, un fatto sociale, un accadimento che determina una crisi sia nel gruppo familiare sia all’interno della stirpe o della tribù. Per tale motivo le società reagiscono ad essa mediante la elaborazione di miti e rituali, che inducono gli individui a vivere la morte secondo i paradigmi che la società stessa propone.58 Nell’affrontare l’argomento

è di particolare interesse lo studio della percezione della morte da parte della società greca, esplicitata mediante la elaborazione di miti e opere letterarie che fanno della morte il fulcro della narrazione. A tal fine, la trattazione di Umberto Curi mi pare efficace in quanto ripercorre i punti nodali della produzione mitografica e letteraria greca, validi ancor oggi. Inoltre, ritengo interessante analizzare la posizione di alcuni filosofi sull’argomento.

La antropologia interpreta la morte quale evento innaturale o crisi che si verifica all’interno di un gruppo, nella quale si sovrappongono elementi mitici e rituali che determinano, nei componenti il gruppo, reazioni contrastanti, benché logiche: il dolore e la perdita, attribuiti ad un nemico o ad un accadimento eccezionale che ha scompaginato l’ordine del gruppo, inducono ad intraprendere azioni concrete di vendetta. Il gruppo, inizialmente, tende a individuare le cause dell’evento adottando metodi divinatori, in quanto conoscere la causa della morte consente di riprendere il controllo della situazione. Individuate le cause, il gruppo

58 Morte, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia e Epistemologia, Logica formale,

Linguistica, Psicologia, Psicoanalisi, Pedagogia, Antropologia culturale, Teologia, Religioni, Sociologia, Garzanti, Milano 1988, pp. 623-625.

stabilisce quali azioni debbano compiersi. Le responsabilità possono infatti ricadere sul defunto, perché egli può avere violato un tabù, può avere commesso una mancanza o un peccato nei confronti di un rito, oppure su altri membri del gruppo, come familiari o nemici, che abbiano agito direttamente oppure attraverso magia e stregoneria. Una volta compresa la motivazione, la famiglia o il gruppo hanno il dovere della vendetta, da operarsi materialmente o magicamente contro il responsabile o contro il gruppo cui questi appartiene. Se la responsabilità ricade sul defunto, in quanto violatore di norme rituali, si ha allora la malamorte, decesso improvviso e terribile che colpisce il violatore. Ma la morte non è considerata la fine della esistenza, in quanto l’individuo entra a fare parte di un mondo di là, percepito come potente, come mondo che crea timore, motivo per cui il morto assume aggressività o forza benefica. Egli infatti, trasformato in doppio, fantasma, spettro, ombra, diventa temibile, perché è stato sradicato da una forza e una pienezza vitale, cui resta ancorato. Si istituisce così un particolare rapporto tra il morto e i sopravvissuti: essi sono tenuti a sostenere ed alimentare, tributando offerte, la sete di vita ancora presente nel doppio o fantasma, pena la esposizione alla sua forza malefica, distruttrice o violenta. Mito e rito intervengono ad indebolire la personalità del defunto, che si manifesta nel periodo immediatamente successivo al trapasso. Da ciò nascono i vari riti di sepoltura, nei quali il defunto diverrà in molti casi l’antenato, protezione del gruppo e della dinastia di cui era parte, oppure sarà oggetto di un processo di cancellazione della memoria mediante l’abbandono del cadavere, oppure attraverso l’abbandono e la messa a fuoco del villaggio intero.59 Ritenuta un fenomeno estraneo alla natura originaria dell’uomo,

Con la morte è oggetto di numerosi miti, che spiegano come sia entrata nel mondo, ove ha mutato una primordiale condizione di pienezza vitale. Il mutamento dipende dal peccato per l’Ebraismo e il Cristianesimo, oppure dalla violazione di un tabù posto all’origine, oppure da alcuni avvenimenti mitici, che introducono la morte indipendentemente dalla vita e dalla condotta umane. Nel mito la morte viene sovente introdotta tramite la donna, oppure la morte stessa assume la facies femminile. Ciò perché la donna è al limite, in equilibrio tra natura e aldilà, mondo dei morti che precede la vita e segue la morte. Nell’area indoeuropea la 59 Ibidem, p. 623 e sg.

dea madre è connessa con la morte e con il mondo dei morti, oltre che investita della prerogativa di dare la vita. Presso i Greci la divinità degli Inferi Ecate, regina degli spettri e delle ombre, è una epifania lunare di Artemide, divinità nefasta e vendicatrice. Ella colpisce a morte con le sue frecce ed è la padrona della morte improvvisa. Persefone è invece la fanciulla protagonista del mito di rapimento alla base dei culti di Eleusi ed è figura di morte, nonché strumento di comunicazione e passaggio con il mondo degli Inferi. Le Erinni, divinità infernali, sono rappresentate quali serpenti, in quanto tale animale simboleggia il mondo ctonio. In Esiodo compare per la prima volta la triade delle Moire, che sovrintende al destino umano stabilendo il momento della morte. La Moira è la divinità che tesse il filo della vita e vi pone fine troncandolo, presente anche nella cultura romana e germanica. L’Ebraismo ritiene che l’uomo sia stato condannato alla morte da Eva, responsabile di un gesto sconsiderato. Molte aree culturali identificano la morte con una figura femminile: è frequente la connessione della donna con la luna e la stessa strega delle fiabe occidentali proviene dal mondo delle ombre e dei morti.

Nel più frequente modello mitico la morte è un passaggio, una prova attraverso la quale si accede ad una condizione differente, ma che garantisce una continuità di esistenza in un’altra vita. Tale condizione può identificarsi con la ricostituzione della integrità e della perfezione originarie, che vedevano l’uomo godere della immortalità quale proprio stato naturale. Può anche consistere nel passaggio ad una nuova esistenza, della quale diventa la prosecuzione all’infinito. La morte può talvolta rappresentare la liberazione dai limiti della individualità, mentre una ulteriore interpretazione la intende come momento nel quale si acquisisce una dimensione differente da quella terrena, mediante la assunzione di un nuovo corpo, libero dalla corruttibilità e dalla peccaminosità che sono connesse alla carne. Talvolta c’è la identificazione del defunto, della sua anima e del suo doppio con un dio, modello di immortalità, non soggetto al tempo e alla corruzione. Nei casi in cui la morte è concepita quale passaggio ad altro stato, è necessario un particolare comportamento dell’uomo oppure una rivelazione di tipo iniziatico, che gli consenta di conoscere la realtà insita nella morte e la funzione determinante che questa riveste nel nuovo ciclo di vite. Nascono così varie concezioni che risolvono l’angoscia e la crisi connesse alla morte in una prospettiva escatologica

,che può realizzarsi una tantum, per i singoli morti o per i morti nella loro totalità, proiettando la prospettiva in campo remoto e indefinito. Oppure concezioni religiose che credono nella reincarnazione e trasmigrazione, che considerano la morte quale passaggio ad una nuova forma di vita, che non è, tuttavia, la liberazione dalla mortalità e che finisce, nel volgere di un ciclo, con la estinzione di una certa carica di negatività, anche morale. Dagli anni Ottanta del Novecento gli storici francesi influenzati dalla antropologia hanno studiato la morte nella cultura occidentale, nella quale hanno ravvisato aspetti di rimozione, di abbandono oppure, al contrario, di speranza in una rianimazione futura conseguibile attraverso le conquiste della scienza.60

Tornando alla società occidentale, giova ricordare che l’epica non è soltanto un genere letterario, ma è piuttosto una delle istituzioni elaborate dai Greci per fornire una risposta al problema della morte, integrandola nel pensiero e nella vita sociale. La vera motivazione dell’impresa eroica consiste, infatti, nel tentativo di sfuggire all’invecchiamento e alla morte: si supera la morte facendone la posta suprema di una vita che assume, così, valore esemplare e che gli uomini futuri celebreranno per sempre come un modello.61

Non è concepibile la morte, se non in relazione alla vita, della quale definisce il senso e l’importanza, facendone affiorare la più intima essenza. Deprecata perché segna la fine di quel bene supremo che è la vita, o auspicata come termine ai mali di cui la vita stessa è intessuta, la morte è ciò che conferisce alla vita il suo significato più proprio.62

Freud ritiene, infatti, che la caducità aumenti – anziché cancellare - il valore della bellezza: Il valore della caducità è un valore di rarità

nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio... Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida.63

60 Ibidem, p. 625.

61 Umberto curi, Via di qua. Imparare a morire, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p.123.

62 Ibidem, p. 13.

63 Sigmund Freud, Caducità, in Cesare Luigi MuSatti (a cura di), Opere VIII: 1915-

1917. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, Boringhieri, Torino 1976, p. 173,

Il primo passo da compiere, allo scopo di reperire una più adeguata concezione della morte, continua Curi, consiste nel distinguere fra due diverse maniere di trattarla, vale a dire quella che si può attribuire all’uomo preistorico e quella che è ancora viva in ciascuno di noi, ma che si trova nascosta nei recessi più profondi della nostra vita psichica, non apparendo perciò alla coscienza. Nel primo caso ci troviamo in presenza di un atteggiamento contraddittorio, perché l’uomo primitivo, quando si tratti della morte del suo nemico, la considera come la fine della vita, mentre dall’altro lato, se si tratta della propria morte, egli tende a ignorarla totalmente, annullandone il significato.64 Differente da quello ora descritto è il modo di

considerare la morte che è, per così dire, celato negli anfratti della psiche. Esso discende fondamentalmente da un conflitto emotivo, attivato dal trovarsi di fronte alla morte di una persona amata. In questo caso, infatti, il meccanismo agente nella mentalità dell’uomo primitivo entra in crisi: mentre non riusciamo a compiacerci della morte dell’altro, non possiamo neppure cancellare l’evocazione di qualcosa che richiama la nostra stessa morte. Per questa via, si può giungere ad affermare che la morte di una persona amata è all’origine della psicologia, nel senso che l’uomo si è trovato di fronte non a un semplice enigma intellettuale, ma a un conflitto insuperabile:

L’uomo non poteva più tenere lontana la morte, che gli aveva recato il dolore per la scomparsa di una persona cara; ma nello stesso tempo non voleva ammetterne la realtà, perché gli era impossibile rappresentarsi la propria morte.65

Anche alla luce delle considerazioni sulla guerra e la morte svolte durante il conflitto, e in particolare di un approccio diverso al problema della morte, Freud si propone, quindi, di andare oltre le acquisizioni già raggiunte, prospettando una nuova visione della vita psichica. Essa non appare più dominata soltanto dalle pulsioni di vita, ma sembra essere, invece, sempre più caratterizzata da pulsioni finalizzate alla soppressione di ogni tensione energetica e al ripristino

64 Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in MuSatti (a

cura di), Opere, cit., p. 126, citato in curi, Via, cit., p. 16.

65 Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in MuSatti (a

di uno stato inorganico. In una parola, da pulsioni di morte.66

Confrontandosi con il grande tema della morte, Freud scopre insomma che il principio del Nirvana, ascrivibile alla pulsione di morte, non è un principio differente, ma è l’emergenza di un modo di funzionare ambivalente di quel custode della vita psichica che è il principio di piacere.67 Ancora più esattamente, Freud comprende che il carattere

peculiare del principio di piacere risiede nella sua insuperabile duplicità, nella quale amore e morte figurano non quali forze antagoniste in rapporto dialettico, ma come intreccio irresolubile. Egli rinviene pertanto la duplicità all’interno di un unico principio.68 Alla

filosofia si ascrive il compito di rifiutare la paura che attanaglia ciò

ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente.69 Benché molteplici, e innegabili,

siano le paure che sono comunque connesse alla condizione umana, l’intento della filosofia è tenacemente rivolto a eliminarle oppure a renderle innocue. Mentre tutto ciò che è generato è votato alla morte, e tutti attendono con timore e tremore il giorno del viaggio nelle tenebre, la filosofia è costantemente protesa a negare queste paure.70

La modalità principale mediante la quale si attua tale cancellazione è la separazione dell’anima dal corpo: mentre si lascia che questo sia consegnato all’abisso, si concepisce che quella possa librarsi in volo, liberandosi da ogni vincolo corporeo. A questa mossa, la filosofia ne aggiunge un’altra, alla quale affida il compito di rimuovere ogni residuo timore. Anche ammesso che la morte possa accadere, essa è in realtà limitata a porre termine non alla vita, ma a una forma di vita, lasciando tuttavia intatta la prospettiva che la vita continui – e, anzi, trovi la sua espressione più compiuta- altrove. Nessun pericolo di un reale annientamento, dunque, ma semplicemente un passaggio, carico più di

66 Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, in Cesare Luigi MuSatti (a cura

di), Opere IX: 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, Boringhieri, Torino 1977, p. 127, citato in curi, Via, cit., p. 18.

67 Sigmund Freud, Il problema economico del masochismo, in Cesare Luigi

MuSatti (a cura di), Opere X: 1924-1929. Inibizione, sintomo e angoscia e altri

scritti, Boringhieri, Torino 1978, p. 5, citato in curi, Via, cit., p. 20.

68 curi, Via, cit., p. 21.

69 Gianfranco Bonola, Nota introduttiva, in Franz roSenzweiG, La stella della

redenzione (1921), Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. VII-XVII e p. 3, citati in

curi, Via, cit., p. 21.

promesse che di rinunce. La contrapposizione dell’aldilà all’aldiquà, di una realtà in cui la vita continua a una realtà in cui essa finisce, dovrebbe costituire la mossa vincente della filosofia, costantemente impegnata nel tentativo di negazione della morte.71

Il patrimonio di idee e riflessioni riguardanti la morte è sistematicamente dimenticato o emarginato, poiché fondamentalmente rimossa è l’idea stessa della morte, come risulta anche dal modo in cui l’uomo organizza la propria esistenza.72 Vi è un passo di una delle lettere di

Seneca, dal quale è se non altro possibile far partire l’itinerario di ricerca. Rivolgendosi all’amico Lucilio, a conclusione di una lettera nella quale sono passati in rassegna alcuni fra i più importanti problemi filosofici, primo fra tutti quello riguardante il rapporto tra anima e corpo, l’autore latino pone senza perifrasi un interrogativo: Quid est

mors. Non meno lapidaria la risposta, affidata a una secca alternativa: Aut finis aut transitus.73

L’analogia fra tessuto e destino è uno dei simbolismi più belli e più profondi con cui l’uomo ha cercato di interpretare il proprio essere. Chi ha osservato il lento, paziente, regolare formarsi della stoffa sul telaio non ha potuto non considerare l’analogia con il processo della vita umana, dove un’intima logica connette insieme gli eventi più diversi e più imprevisti.74 In realtà, il trio delle Moire agisce come un soggetto

collettivo, dispensatore agli uomini del relativo destino, quale risulta dal fatto che uno dei termini con i quali i Greci indicavano appunto il destino era moira, al singolare, e senza ulteriori specificazioni. In questa forma, e salvo una sola eccezione in cui compare al plurale, la parola ricorre nei poemi omerici, quasi sempre impiegata per indicare la morte. In relazione all’universo ctonio sono in ogni caso le tre Moire, poiché esse presiedono ai momenti culminanti della vita degli uomini: assistono, infatti, alla nascita, assegnando un destino favorevole o avverso; vigilano sullo svolgimento della vita, con funzione parimenti

71 Franz roSenzweiG, La stella della redenzione (1921), Marietti, Casale Monferrato

1985, p. 3 e sg., citato in curi, Via, cit., p. 22.

72 curi, Via, cit., p. 24.

73 Seneca, Lettere morali a Lucilio, ed. it. Fernando SolinaS (a cura di), Mondadori,

Milano 2008, VII, 65, 23, citato in curi, Via, cit., p. 24.

74 Aldo MaGriS, L’idea di destino nel pensiero antico. I: Dalle origini al V secolo a.

ambivalente e, infine, ne sanciscono la fine, quando sia giunta a compimento la parte a ciascuno assegnata.75 In secondo luogo, il

fatto che, conformemente all’etimo del loro stesso nome, le Moire assegnino la parte spettante a ognuno, spiega perché la condizione umana in quanto tale, essendo appunto parziale, sia intrinsecamente limitata e non possa aspirare a una irraggiungibile totalità.76 L’uomo

ha sempre rilevato la analogia tra la morte e il sonno, spiegandola e dando origine alle seguenti figure mitologiche. Non meno interessante dell’etimologia greca è quella relativa alla lingua latina, dove il trio del destino compare con il nome di Parcae.

I figli della nera Notte sono il Sonno (Hýpnos) e la Morte (Thánatos), divinità terribili. Mai il sole abbagliante illumina costoro con i suoi raggi, né quando sale in cielo, né quando dal cielo discende. Dei due, il primo si aggira sulla terra e sulla vasta superficie del mare, dolce e sereno per gli uomini, mentre l’altra possiede un cuore di ferro e un animo spietato. Qualunque uomo ella riesca a prendere, lo tiene per sempre. Ed è invisa perfino agli dei immortali.77 Nel racconto

genealogico di Esiodo compaiono con molta chiarezza le principali caratteristiche di colui che, nell’esordio del dramma euripideo, si propone come antagonista di Apollo. Tenebroso quale le divinità notturne di cui è figlio, Thánatos condivide con il fratello gemello Hýpnos soltanto l’apparenza, poiché mentre questi, benevolo, conferisce agli uomini il sonno ristoratore, egli non lascia la preda dopo averla catturata, giungendo a risultare ostile perfino a coloro che, in quanto dei, sono comunque sottratti alla sua vorace insaziabilità. La indicazione di Hýpnos quale gemello di Thánatos è già presente nella Iliade di Omero.78 Nella tradizione iconografica greca, Thánatos

è raffigurato come un demone alato, quasi sempre in compagnia del fratello Hýpnos, talora intento a trasportare il cadavere di personaggi illustri. Al 470 a. C. risale la serie di lékythoi bianche, sulle quali sono dipinte Thánatos e Hýpnos nell’atto di trasportare il cadavere non più di illustri guerrieri, bensì di uomini e donne comuni. Caratteristica

75 curi, Via, cit., p. 29.

76 curi, Via, cit., p. 30.

77 eSiodo, Teogonia, in Aristide colonna (a cura di), Opere, UTET, Torino 1977,

758-768, p. 105, citato in curi, Via, cit., p. 39.

ricorrente di tali scene è la presenza, in secondo piano, di una stele funeraria, che evoca un contesto cimiteriale. Da notare che già nelle raffigurazioni più antiche è possibile cogliere la natura ambivalente di Thánatos, poiché da un lato costui mostra una cura amorevole, spinta fino ai limiti della partecipazione al lutto, nei confronti dei cadaveri trasportati, mentre dall’altra parte non mancano testimonianze nelle quali compare quale demone che insegue le sue vittime. Dalla metà del V secolo a. C. si nota nelle raffigurazioni una diversificazione: mentre Hýpnos è rappresentato come un giovane, con la pelle scura, Thánatos ha la pelle chiara, è provvisto di barba, naso adunco e chioma incolta. Da Pompei proviene, verosimilmente, un mosaico custodito al Museo Nazionale di Napoli, che mostra il teschio simbolico accompagnato da elementi allegorici, tra i quali è la ruota. In alcuni sarcofagi paleocristiani, secondo la iconografia classica pagana, la morte è simboleggiata dal genietto con la face riversa, mentre appare sotto forma di vecchia barbuta e alata in un avorio del IV secolo e quale giovane donna dalla carnagione scura, seduta su un sarcofago, in un manoscritto del secolo IX. L’arte tedesca medioevale la rappresenta quale figura maschile, mentre una croce d’avorio danese del 1075 propone il tema della vittoria della vita sulla morte, raffigurata da una figura femminile che cade in una bara.79 L’evoluzione dell’iconografia

della morte, soprattutto nella pittura medioevale, rinascimentale e barocca, si esprime prevalentemente in un’immagine che tende ad allontanarsi sempre di più dall’archetipo classico del giovane di pelle