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1.1 Una testimonianza iconografica del secolo XVI: la cinquecentina Funerali antichi di diversi popoli, et

La morte e i sepolcri: una realtà composita

I. 1.1 Una testimonianza iconografica del secolo XVI: la cinquecentina Funerali antichi di diversi popoli, et

nationi; forma, ordine, et pompa di sepolture, di esequie,

di consecrationi antiche et d’altro, descritti in dialogo da

Thomaso Porcacchi da Castiglione Arretino

È raro rinvenire testimonianze iconografiche redatte nell’antichità e puntualmente connesse all’argomento. La biblioteca della Facoltà di Medicina della Università degli Studi di Cagliari ospita un prezioso

59 Per le idee dell’artista, corredate delle riflessioni dello storico dell’arte Rudi Fuchs, rimando agli scritti riportati nel sito Internet istituzionale del medesimo: http://www.damienhirst.com/texts/20071/jan--rudi-fuchs.

Fig. 1. Frontespizio de Funerali

antichi di diversi popoli, et nationi; forma, ordine, et pompa di sepolture, di esequie, di consecrationi antiche et d’altro, descritti in dialogo

da Thomaso Porcacchi da Castiglione Arretino. Con le figure in rame di Girolamo Porro padovano. Con privilegio. In Venetia 1574

esempio di documentazione grafica, relativa ai riti di sepoltura adottati in epoca antica. Fornisco qui di seguito la trascrizione del frontespizio (Fig. 1) della cinquecentina, cui segue la trascrizione della presentazione e dedica dell’opera (Fig. 2). Ad essa succedono alcune riflessioni relative agli aspetti a mio avviso più rilevanti della pubblicazione, che merita evidentemente una puntuale trattazione approfondita, cui mi riservo di dedicarmi in altra sede. Infatti, mi soffermerò esclusivamente sui riti in uso presso i Romani, mentre gli altri popoli saranno oggetto di uno studio a parte rispetto alla presente tesi.

Il frontespizio reca il titolo e il suo complemento: Funerali antichi

di diversi popoli, et nationi; forma, ordine, et pompa di sepolture, di esequie, di consecrationi antiche et d’altro, descritti in dialogo da Thomaso Porcacchi da Castiglione Arretino. Con le figure in rame di Girolamo Porro padovano. Con privilegio. In Venetia 1574 (Fig. 1). Al

frontespizio fanno seguito la presentazione e la dedica:

AL MAGNANIMO ET VIRTUOSO S. OTTAVIANO MANINI

THOMASO PORCACCHI.

Vannosi per l’historie molte particolari usanze osservando spesse volte, Magnanimo S. Ottaviano, le quali raccolte da chi suole esser curioso, et messe insieme in diverse occasioni, et tempi; si trova l’huomo haver come d’improviso fatto un giusto volume intorno a quel soggetto: et li dispone, o per preghiere d’amici, o perche speri recare al mondo qualche lettion non inutile; a lasciarlo poi uscir sotto la commune censura di chi legge. In questo modo raccolsi io gia due libri di Essempi simili d’historie: de’ quali mi trovo haver un’altro libro in apparecchio: et dopo essi ho dato alla stampa anchora alcune altre cosette, da me in cosi fatta maniera osservate, et raccolte. Ne solamente da’libri dell’historie, nelle quali consumo tutto il mio studio; ma anchora da gli scritti de gli amici, da diverse lettere, relationi, diarii informationi varie, fatte ad altrui instantia, et per altrui richiesta; ho tolto molte cose, che molto m’hanno giovato, et gran lume havranno apportato, et credo che apporteranno a chi l’ha vedute, o a chi sarà per vederle: ilche massimamente apparisce nell’Annotationi, da me fatte sopra l’historia dell’eccellentiβ. M.

Fig. 2. Presentazione e dedica (foto: Giovanni Manca)

Francesco Guicciardino: nelle quali si veggono rappresentati i nomi di molte persone, che per altri rispetti hanno scritto lettere, informationi, et cose tali: con gli scritti delle quali, et con numero grande d’historici antichi et moderni ho confrontato quella historia. In questo modo ho raccolto con lunghezza di tempo et di studio molti costumi di diversi popoli antichi intorno al sepelire i corpi morti: di che fatto far molte figure in rame da M. Girolamo Porro Padovano, che nell’intaglio, et nell’eccellenza dell’ingegno in questa professione non ha molti pari, et mandatele affinche curiosamente, come inventioni dilettevoli et nuove, da lui fossero vedute, ad Alzano al S. Conte Cesare Loccatello mio amico di molti anni, et gentil’huomo di vera virtu, et di cortese bontà; egli, che molto è versato nell’historie; ne formò il presente ragionamento co’l valoroso S. Conte Vespesiano Cuovo suocero suo: di che venutami notitia, et fattone paragone con l’osservationi mie; m’ha parso convenevole darne copia a’curiosi co’l mezo delle stampe, et farne particolar dono a V.S. il che non pur sarà testimonio della mia molta osservanza verso lei, ma anchora debito all’amor che mi porta. Aggiugnerei, come è solito farsi nelle dedicationi, molte lodi di V.S. se in questo Dialogo non ne fosse a pieno stato trattato da quei due Signori, che ci ragionano: i quali hanno buona cognition del suo molto valore. A me basta dire, ch’ella è Cavallier da tutte le parti ornato di virtu: et però tacendo il rimanente per non conoscermi atto a tanta impresa; accetterò per gran favore, che si come con altri mezi V.S. ha dato molti segni d’amarmi cordialmente, cosi con l’accettar questa mia piccola fatica benignamente; me ne dia un’altro grandissimo: et a lei, et al gentilissimo S. Giovanni Gherardeo molto mi raccomando. Il di dopo l’Ascensione a XXI.di Maggio 1574. Di Vinetia (Fig. 2).

Egli procede nel testo con la presentazione degli interlocutori. I riti funebri sono nell’opera “descritti in dialogo” dal Porcacchi (Fig. 1) mediante due personaggi: il conte Cesare Loccatello d’Alzano (località presso Bergamo) e il conte Vespasiano Cuovo da Soncino (parimenti in Lombardia). Questi sono legati al Porcacchi da un sentimento di amicizia e i loro nomi sono abbreviati, rispettivamente, in COCES e COVES. Il primo interlocutore è sposo della gentildonna Lavinia Cuovo, figlia del conte Vespasiano Cuovo da Soncino, il quale, a sua volta, è sposato con Antonia Rota, nobildonna bergamasca. Vespasiano si recò ad Alzano al fine di visitare la propria figliola e,

in tale occasione, ebbe modo di intrattenere con il genero Cesare la dissertazione, oggetto del dialogo. Nella biblioteca del conte Cesare, colto bibliofilo, Vespasiano notò i disegni “intagliati” a questi inviati dal Porcacchi, concernenti i differenti riti di sepoltura in uso presso le antiche civiltà.

Le incisioni, secondo quanto riferisce il Porcacchi, sono praticate direttamente sul rame, con lodabile disegno e con sottile, accurato intaglio, dal medesimo autore delle incisioni illustranti le Descrittioni delle Isole

più famose del mondo, opera dello stesso Porcacchi. Entrambe le opere

dell’ingegno di quest’ultimo recano, dunque, illustrazioni dell’incisore padovano Girolamo Porro, del quale il Porcacchi sottolinea la perizia tecnica, eccelsa nonostante le precarie condizioni di salute, dettate dalla cecità ad un occhio e dall’uso del “cristallo” per l’altro occhio. Al medesimo si attribuiscono pure le incisioni delle lettere iniziali delle

Orationi, dell’Evangelio di San Giovanni e di numerosi Salmi. Al Porro

si ascrive, inoltre, la ingegnosa invenzione di una macchina attivata da trenta uomini, in essa contenuti, e sollevata in volo dal vento.

I suoi disegni per l’opera in esame rappresentano, nell’ordine delle carte legate in fascicoli, i riti funebri delle popolazioni seguenti: i Romani, gli Egizi, i trogloditi, i Macrobi, i Greci, gli Ateniesi, gli Indiani, gli Sciiti, gli Eruli, i Cristiani.

La stampa della cinquecentina reca invece la firma di Simon Galignani da Karrera (Fig. 3), mercante di libri originario di Alzano, attivo a Venezia e Padova, mentre le immagini sono intagliate dal Porro. Qui di seguito, riporto il contenuto dell’opera relativo alla parte che reputo di maggiore interesse ai fini del presente lavoro.

Antichi. Prima tavola sepolcrale de’ romani. I.: l’incisione (Fig.

4) raffigura il rito di preparazione della salma. Appena spirato, il corpo veniva preso in consegna dai “beccamorti”, o “vespilloni” (da vespere, sera, durante la quale essi “cavavano” il morto di casa, per portarlo a seppellire durante la notte, provvisti di torce accese), e dai “lavandieri”, i quali lo lavavano ed ungevano, secondo quanto è descritto nell’illustrazione (Fig. 4). Il rito sepolcrale anticamente in uso presso i Romani prevedeva l’interramento dei cadaveri o inumazione. Soltanto quando essi compresero che durante le guerre

Fig. 3. Colophon (foto: Giovanni Manca)

Fig. 4. Il rito di preparazione della salma (foto: Giovanni Manca)

i corpi venivano dissotterrati, iniziarono ad adottare, sotto il dittatore Silla, la pratica della bruciatura, o cremazione, che egli scelse per sé e che restò in auge fino all’epoca degli imperatori Antonini, quando ad essa fu nuovamente preferito il sotterramento.

Il testo procede con la descrizione delle usanze dei Romani connesse al transito. Quando l’ammalato si spegneva, i parenti più stretti ne ricevevano lo spirito con la propria bocca e gli serravano gli occhi. Gli occhi venivano riaperti al morto successivamente, quando questi veniva posto sulla pira per la cremazione, rito che osservavano anche i Greci. I Romani consideravano infelici coloro che erano lontani dai loro parenti più stretti, i quali non potevano perciò serrare loro gli occhi.

Funerali seconda tavola sepolcrale de’ romani. II.: la pratica del rogo

dei cadaveri (Fig. 5) prevedeva invece l’erezione di una pira, costituita da una catasta di legna o di altri materiali, selezionati in base allo

status del defunto. Sulla pira veniva deposto il cadavere lavato, unto e

recante, indosso, una veste bianca. I bambini capite velato da una sorta di lenzuolo presenti nell’incisione (Fig. 5) rappresentano i figli del defunto, mentre le figlie portavano il capo scoperto e i capelli sciolti, al fine di commuovere gli astanti e di suscitare il pianto. L’usanza quotidiana prevedeva, infatti, che le donne si mostrassero in pubblico esclusivamente con il capo coperto, mentre gli uomini erano tenuti a portarlo rigorosamente scoperto.

Nel corso della funzione al morto veniva asportato un dito, conservato al fine di onorarlo nelle esequie. La prerogativa di condurre il corpo alla pira era riservata ai beccamorti, i quali lo adagiavano sulla sommità della stessa. A quel punto il parente del morto, oppure l’amico più prossimo, voltate le spalle alla pira, vi gettava all’indietro una face accesa, che innescava il fuoco. L’autore riferisce che tale pratica era stata adottata anche per il funerale, ben più recente, dell’imperatore Carlo V e per quello del nipote, il principe Carlo, figlio del re cattolico Filippo, durante il quale amici e servitori con il capo coperto avevano accompagnato la salma.

Mentre la pira ardeva, gli anziani e i giovani suonavano, rispettivamente, la tromba e i pifferi (Fig. 5), cui si univano canti. I corpi, infatti, si accompagnavano alla sepoltura con i canti, poiché

Fig. 5. La pratica del rogo dei cadaveri (foto: Giovanni Manca)

gli antichi credevano che l’anima, una volta sciolta dalla connessione con il corpo, tornasse al cielo, sorgente della dolcezza della musica. Ritenevano, infatti, che anima e armonia fossero una cosa sola. È verosimile che i Romani suonassero la tromba ai funerali al fine di sottolineare la chiara fama e la celebrità del defunto. Sopra il tetto del tempio di Saturno essi collocavano figure di tritoni dalle code nascoste e raccolte, a simboleggiare sia la conoscenza della storia relativa alle epoche precedenti e a quella in corso sia, al contrario, la totale oscurità degli eventi futuri, incogniti e nascosti nelle tenebre, proprio come le code degli animali fantastici. L’usanza di suonare la tromba, mentre si accompagnavano i morti alla sepoltura, indicava agli astanti la necessità di elevare l’anima a Dio, riconoscendo la propria natura mortale. Secondo quanto riporta il Porcacchi, infatti, Dio comanda che ogni primo giorno del settimo mese si suonino le trombe e che gli uomini debbano, in quella solenne occasione, ricordare gli oracoli dei profeti, i Vangeli, le prediche degli Apostoli, che corrispondono alle trombe celesti, il cui suono raggiunge i confini della terra. Nel principio del mese, pertanto, si suonava la tromba e, contestualmente, nei Salmi si lodava Dio. I pifferi alludevano invece ai sacrifici e suggerivano di rivolgere preghiere all’Altissimo per le anime dei morti. Il loro suono, analogamente al suono dei campanelli nei riti cattolici, rendeva sensibile la presenza divina.

Funerali terza tavola sepolcrale de’ romani. III.: l’incisione della

tavola III (Fig. 6) mostra quale fosse l’esito della cremazione. Una volta arso completamente il corpo, busto secondo gli antichi, le ceneri e le ossa venivano raccolte in un vaso da amici e parenti. Era a quel punto necessario distinguere le ceneri dalla legna e da quanto era arso insieme al corpo. Ciò era consentito dall’uso di particolari tele di lino indiano, che Plinio chiamava vivo e i Greci Asbestino, che non ardevano né si consumavano nel fuoco. Con questa particolare tela si confezionavano pertanto tonache funebri, che tenevano separate, nel corso della combustione, le ceneri del corpo dalle altre. Il lino vivo si ricavava, continua la narrazione, dalla pietra Amianto presente a Cipro, e con esso si confezionavano le tele che avrebbero avvolto i corpi destinati alla cremazione. Non solo l’amianto non bruciava né si consumava con il fuoco, ma quanto più vi permaneva tanto più la tela diventava bianca e libera da ogni macchia. Una volta riposte le ceneri

Fig. 6. L’esito della cremazione: la raccolta delle ceneri e delle ossa (foto: Giovanni Manca)

nel vaso, i parenti pronunciavano l’orazione funebre che prevedeva lodi e infine la Prefica, reclutata per piangere, pronunciava la parola Licet. Il vaso veniva allora deposto in un sepolcro, davanti al quale si erigeva un altare. Indi si gridava tre volte Vale, per prendere licenza dal morto. È probabile, riporta il Porcacchi, che anche gli Egizi pronunciassero formule simili.

Se l’incisione della tavola III (Fig. 6) mostra quale fosse l’esito della cremazione, il testo corrispondente riprende invece la trattazione del rito funerario più antico, consistente nell’interramento del cadavere. Nel testo si narra della morte di Numa Pompilio: avendo egli raccomandato che non lo cremassero, gli furono erette due arche di pietra sotto il Gianicolo, al fine di ospitarne, rispettivamente, il corpo e i libri sacri. Al suo funerale i popoli amici e confederati recarono corone, mentre i nobili trasportarono a spalla il corpo entro la bara, accompagnati dai sacerdoti e seguiti dalle donne e dai fanciulli, i quali piangevano e sospiravano. La cerimonia funebre dei Romani era perciò, afferma il Porcacchi, analogamente a quanto accadeva nel Cinquecento italiano, ricca e sontuosa, poiché un lungo corteo accompagnava il corpo alla sepoltura. Erano ad essa deputati i vespilloni e i designatori, incaricati di accertare che ogni partecipante al corteo conservasse la propria postazione durante il cammino. Marco Varrone fece realizzare la propria sepoltura in terracotta, ove volle essere sepolto tra le foglie della mortine, dell’ulivo e dell’oppio nero. Anche a Sparta, del resto, i morti si seppellivano nelle foglie di ulivo. I Romani osservarono una ulteriore usanza, che consisteva nel coronare i sepolcri con ghirlande di rose e mortine, spargendovi, infine, fiori e fronde. Talvolta le ghirlande erano invece fasciate con bende o tenie di lana colorata, in seguito sostituita dall’oro, chiamate lanisci. Le arche contenenti i defunti recavano intagliato un epitaffio.

Tavola sepolcrale delle vergini Vestali in Roma IIII: l’illustrazione

fornisce rappresentazione iconografica al testo contenuto in questo capitolo, che analizza i riti destinati dai Romani a coloro che, fra le vergini Vestali, istituite da Numa Pompilio, addette alla custodia del sacro e inestinguibile fuoco della dea Vesta, fossero sospettate di impudicizia o di incesto (Fig. 7). Il Porcacchi ne descrive dettagliatamente la procedura. La fanciulla, nuda, veniva adagiata

Fig. 7. Il rito riservato alle Vestali sospettate di impudicizia o di incesto (foto: Giovanni Manca)

distesa sopra un lenzuolo, quindi, nel segreto della casa del pontefice massimo, subiva la flagellazione. Era legata sopra una bara col viso coperto, in modo che neppure se ne potesse udire la voce; veniva poi condotta, come se fosse realmente morta, attraversando il centro della piazza, mentre parenti e amici piangevano, seguiti dai pontefici e dagli altri sacerdoti, i quali esprimevano una grave malinconia, senza però proferire verbo. Era infine portata in un poggetto presso porta Collina, dentro le mura della città, destinato ad accogliere la sepoltura delle Vestali impudiche. Vi era, infatti, una profonda stanza sotterranea, nella quale la fanciulla veniva calata attraverso una buca mediante una scala, che veniva portata via subito dopo. Ella era a quel punto sciolta dai vincoli e lasciata con il capo coperto. Il pontefice massimo recitava infine una formula segreta a lei rivolta, poi, unitamente agli altri sacerdoti, voltatele le spalle, la abbandonava, lasciandola viva entro la fossa. Affinché non paresse che dovesse morire di inedia, le era posta accanto una piccola quantità di pane, di acqua, di latte e olio; aveva inoltre a disposizione un letto e una lucerna accesa. I sacerdoti, quindi, abbandonavano il luogo, mentre la città osservava il lutto e provava un sincero timore, dal momento che i Romani ritenevano che la pena della Vestale fosse un infausto presagio sia per la città stessa, sia per il regno, poi repubblica e, infine, impero. Tale crudele usanza rimase infatti in vigore fino al regno di Teodosio Imperatore, il quale abbracciò la religione cristiana, donde provenne il culto della pietà che lo condusse, finalmente, a eradicare tale usanza, intrisa di superstizione.

Esaurito l’argomento, il testo si sofferma, al fine di descriverne la procedura rituale, sulla deificazione degli imperatori romani, cerimonia evidentemente connessa al paganesimo. Si afferma che il Porro, su consiglio del Porcacchi, dedica a tale cerimonia ben due tavole, che infatti corrispondono alle due illustrazioni seguenti (Figg. 8 e 9). Escludendo per ovvi motivi la tavola dedicata agli scudi ancili, mi pare evidente che l’argomento includa, in realtà, anche la tavola successiva (Fig. 10).

La cerimonia di consacrazione degli imperatori, definita Apoteosi, fu introdotta da Augusto ed ebbe seguito con Tiberio; tuttavia, era dedicata esclusivamente agli imperatori che avessero lasciato eredi, successori

Fig. 9. La cerimonia di deificazione degli imperatori romani:

il tabernacolo ligneo (foto: Giovanni Manca)

Fig. 8. La cerimonia di deificazione degli imperatori romani: il simulacro di cera viene esposto sopra il letto eburneo (foto: Giovanni Manca)

Fig. 10. La cerimonia di deificazione degli imperatori romani: l’imperatore in carica loda il defunto

maschi. Augusto deificò pertanto Giulio Cesare, mentre Tiberio deificò Augusto, Nerone deificò Claudio, Tito suo padre Vespasiano, Domiziano suo fratello Tito, Traiano Nerva, Adriano Traiano, Antonino Pio deificò Adriano, Marco suo padre Pio, il fratello deificò Vero, Commodo deificò Marco, Severo deificò Pertinace e Commodo, Antonino e Geta il loro padre Severo. In occasione della consacrazione di Severo da parte di Antonino e Geta, lo scrittore Herodiano descrisse la cerimonia. Anticamente il rituale era semplice, mentre quando sopraggiunse la consacrazione esso divenne più complesso, svolgendosi nel seguente modo. Deceduto un imperatore, in attesa della relativa consacrazione si interrompevano in città tutti gli esercizi e i lavori, come se si trattasse di un giorno festivo, nfunestato, però, da un pianto doloroso. Il corpo veniva seppellito con solenni esequie; in seguito, si modellava una immagine di cera, il più possibile somigliante al morto, che veniva esposta nel vestibolo del Palazzo, sopra un enorme letto eburneo sopraelevato e coperto di panni aurei (Fig. 8). Il simulacro veniva quindi posto a giacere sul letto, come se fosse l’imperatore moribondo; attorno ad esso sedevano i Senatori abbigliati con vesti nere e le matrone di alto status, le quali non portavano oro, né altri ornamenti intorno al collo, mentre vestivano tutte un abito completamente bianco e il loro viso esprimeva un intenso dolore. Tale sorta di veglia durava sette giorni: ogni giorno giungevano al capezzale alcuni medici, che fingevano di tastare il polso dell’ammalato, del quale segnalavano il progressivo peggioramento, fino a dichiararne imminente la morte. Una volta annunciata la morte, i giovani più nobili e garbati, interni agli ordini dei Senatori e dei Cavalieri, sollevavano il letto sulle proprie spalle e, attraversando la via sacra, lo conducevano all’antico foro, ove i magistrati romani usavano deporre e rinunciare all’incarico. Il foro ospitava, inoltre, un tribunale ligneo dall’aspetto lapideo (Fig. 8), sopra il quale era realizzato un ulteriore edificio, sostenuto da colonne, adorno di avorio e oro. Sopra questo era posizionato un letto simile a quello precedentemente descritto (Fig. 8), ma adorno di porpora e oro intessuti, circondato da capi di vari animali terrestri e marini. Sul letto si adagiava l’immagine di cera trionfalmente ornata, proveniente dal