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I percorsi di definizione del welfare State e delle politiche sociali in Italia

2. Nascita e definizione del welfare State in Italia

2.1 I percorsi di definizione del welfare State e delle politiche sociali in Italia

Nel capitolo precedente abbiamo affermato e sostenuto la tesi secondo cui il

welfare State ha definito i propri principi e fondamenti teorici nella Gran Bretagna del secondo dopoguerra e non nel sistema assicurativo occupazionale-categoriale a carattere coercitivo ideato da Bismarck alla fine del XIX secolo65. Il vero aspetto innovativo dell’esempio britannico risiede in quel principio di cittadinanza che fonda la diffusione dei benefici e dell’assistenza del welfare State, così come è definito nel Beveridge Report, su un’idea universalistica alla partecipazione del benessere collettivo e alla condivisione delle responsabilità e dei rischi sociali ed economici scaturiti da una rapida quanto incontrollata produzione industriale.

Nel caso dell’Italia, il panorama relativo alle politiche sociali nei decenni a cavallo del 1900 era caratterizzato da due differenti realtà che convivevano fianco a fianco: il Mezzogiorno retto da un’economia quasi unicamente fondata sulla produzione agricola, e il nord Italia in cui si palesavano i primi esempi di una produzione industriale che comunque stentava a decollare. Questa sensibile differenza tra le due “macro regioni” italiane fu un ostacolo all’elaborazione di teorie e pratiche previdenziali e assistenziali nazionalistiche e portò alla conseguente prevalenza di istituzioni private assistenziali cattoliche, denominate

Opere Pie, a discapito della creazione di un sostrato di pensiero comune e diffuso

sulla necessità di istituire una struttura previdenziale più omogenea a livello nazionale.

Con la cosiddetta Legge Crispi del 189066 l’allora nascente governo italiano

si proponeva di intervenire e riordinare il complesso sistema di Opere Pie, attribuendo loro personalità giuridica pubblica e denominandole Istituti Pubblici

di Beneficenza, in seguito IPAB (1923). L’intervento normativo aveva il fine specifico di regolare la costituzione, il funzionamento e l’estinzione delle istituzioni cattoliche di assistenza, inoltre laicizzò parzialmente le IPAB introducendo la nomina pubblica nei consigli di amministrazione, il controllo dei bilanci da parte dello Stato e l’obbligo di investire i patrimoni in titoli di Stato o immobili. Questa situazione si mantenne fino al 1988 quando una sentenza della Corte Costituzionale dichiarò anticostituzionale l’art. 1 della Legge Crispi67 perché non prevedeva la possibilità che le IPAB assumessero la personalità giuridica di ente privato68.

Nel 1896, in Italia viene avviato un percorso di realizzazione del sistema assicurativo nazionale destinato esclusivamente ad alcune categorie di lavoratori (evidente il riferimento all’esperienza bismarckiana), che prevedeva l’assistenza per gli infortuni e per le malattie69. Nell’arco dei successivi vent’anni il governo

66 Legge 6972/1890, Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. 67 Sentenza n. 396 della Corte Costituzionale, 7 aprile 1988.

68

Successivamente, il D.P.C.M. 16 febbraio 1990 ha indicato i criteri per la conversione delle IPAB in enti privati attraverso la partecipazione significativa, e non più maggioritaria, dei soci nel consiglio di amministrazione, contemplando una presenza puramente integrativa e non più prevalente delle prestazioni volontarie e, infine, determinando la sostanziale modifica del patrimonio, costituito ora in prevalenza, e non più in forma esclusiva, dalle donazioni e dai contributi dei soci.

69 Sono molto pochi i testi riguardanti le ricerche storiche sulla nascita delle prime forme

assistenziali pubbliche o private in Italia. Per l’elaborazione di questo capitolo abbiamo fatto riferimento, principalmente ai seguenti testi: S. Hernandez, Profili storici, in Comitato Studio per la Sicurezze Sociale, Per un sistema di sicurezza sociale in Italia, il Mulino, Bologna, 1965; Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, Settant’anni di previdenza sociale, Roma, 1970; A. Cherubini, Storia della previdenza sociale, Editori Riuniti, Roma, 1977; F. Mazzini, Il sistema

previdenziale in Italia fra riforma e conservazione, in A. Orsi Battaglini (a cura di),

Amministrazione pubblica e istituzioni finanziarie, il Mulino, Bologna, 1980; A. Castaldi,

Dall’assistenza ai servizi sociali, Edizioni delle autonomie, 1982; S. Sepe, Amministrazione e

mediazione degli interessi: il controllo sugli istituti di pubblica assistenza e beneficenza, in AA. VV., L’amministrazione nella storia moderna, Giuffrè, Milano, 1985; M. Dal Pra Ponticelli, I

modelli teorici del servizio sociale, Astrolabio, Roma, 1985; A. Monticane (a cura di), La storia

dei poveri. Pauperismo ed assistenza nell’età moderna, Edizioni Studium, Roma, 1985; A. Belloni Sonzogni, Per una storia della previdenza sociale in Italia, in “Sanità, Scienza e Storia”, 1, 1987; E. Gustapane, Le origini del sistema previdenziale: la Cassa nazionale di previdenza per

italiano si impegnò ad estendere l’assicurazione obbligatoria a un numero sempre maggiore di categorie di lavoratori, estendendone i benefici anche alla maternità di tutte le categorie di operaie. Tuttavia non si giunse mai a un sistema di copertura nazionale universalistico in ambito occupazionale. Il motivo deve essere ricercato nell’aperta ostilità dei grandi proprietari terrieri del Mezzogiorno che collegavano la propria contrarietà all’istituzione stessa del sistema assicurativo nazionale che riduceva i loro guadagni perché totalmente a carico del datore di lavoro. I braccianti, dal canto loro, non erano interessati alle assicurazioni pubbliche perché riponevano una scarsa fiducia nell’istituzione pubblica in quanto tale. I proprietari delle fabbriche del nord Italia si trovarono a dover far fronte a tutti gli oneri economici imposti dal sistema assicurativo, così come nel caso precedente, vedendo così svanire uno dei pochi vantaggi offerti dall’economia capitalistica italiana: la manodopera a basso costo. Inoltre, gli operai manifestarono un chiaro disinteresse nei riguardi di questa nuova forma di protezione sociale perché forti di un solido sistema di mutuo-auto aiuto radicato nelle comunità di appartenenza e nella famiglia, e altresì sostenuto dal sistema di strutture caritatevoli organizzate e gestite a livello nazionale dal Vaticano.

La presenza capillare di queste organizzazioni ecclesiastiche rallentò notevolmente la diffusione tra i lavoratori dell’idea stessa di intendere il sistema assicurativo nazionale come un’opportunità per emanciparsi dal potere che proprietari industriali e i proprietari terrieri avevano sulle loro vite. Difatti, la Chiesa si oppose a tale progetto per non perdere il proprio primato di aiuto e cura alle persone attraverso la pratica della carità cristiana, una pratica che sostiene e aiuta le persone a superare i momenti difficili che seguono il concretizzarsi di un rischio e che difficilmente lo prevengono, una pratica questa che non promuove l’emancipazione e non rende autonomi ma fornisce solo sostentamento momentaneo e crea vincoli di dipendenza e nuovi terreni di incertezza:

Vanozzi, Rassegna sugli studi storici intorno alla previdenza (dal 1945 a oggi), in “Sanità, Scienza e Storia”, 1, 1989; A. Campanini, Servizio sociale e Sociologia: storia di un dialogo, Lint, Trento, 1999.

“la previdenza doveva restare frutto di sforzi individuali ispirati ai principi della solidarietà e della responsabilità sociale, della beneficenza e del soccorso ai più deboli”70.

Alla luce di ciò, appare evidente che i primi tentativi istituzionali di creare un sistema assicurativo nazionale vennero contrastati da tre linee di forza differenti, dalle azioni politiche e sociali di tre soggetti portatori di interessi ideologici o politici che contribuirono, forse in taluni casi inconsapevolmente, a determinare il forte ritardo nei processi di inclusione delle categorie lavoratrici: i capitalisti e i latifondisti, gli operai e i braccianti, il Vaticano.

L’influenza esercitata da questi gruppi di potere determinò il fallimento del tentativo italiano di definire le prime modalità operative per l’esercizio di una politica assicurativa che comprendesse nel proprio intervento tutti i braccianti agricoli. Difatti non ci fu mai una reale partecipazione o una concreta manifestazione di interesse da parte dei destinatari di questi interventi. Il sistema assistenziale informale, la lontananza percepita con le istituzioni pubbliche e l’ormai diffuso principio di sussidiarietà dell’intervento d’aiuto sostenuto e promosso dagli organismi caritatevoli della Chiesa cattolica, complici anche gli interessi dei gruppi di potere che agivano direttamente sulle scelte delle classi operaie, generarono un panorama in cui si rese impossibile la creazione di un sistema assicurativo maggiormente diffuso, ma soprattutto accettato ed apprezzato per l’innovativo contenuto ideologico insito.

A cavallo del primo dopoguerra, mentre cioè nel Regno Unito la Fabian

Society diffondeva i propri ideali socialisti, rivolti prettamente alla creazione di un sistema di tutela nazionale per tutti i cittadini, l’Italia veniva attraversata da una crisi politico-istituzionale assai grave, frutto del disastroso esito della Prima Guerra Mondiale. Il bagaglio di numerose vittime, la distruzione delle infrastrutture e delle città, l’aumento vertiginoso dell’inflazione e della disoccupazione contribuirono alla determinazione del contesto più adeguato per intraprendere una riflessione collettiva sulla possibilità e sulla necessità di costruire un nuovo sistema di protezione sociale.

Nel 1917 il governo italiano istituì una speciale Commissione di studio per

l’assicurazione di malattia che ebbe il compito di stilare un progetto per l’istituzione di un sistema sanitario pubblico che avesse anche la gestione e l’amministrazione diretta delle strutture ospedaliere ove erogare le prestazioni richieste. Questo sistema sanitario nazionale ante litteram sarebbe stato esteso a tutti i lavoratori, anche indipendenti, con reddito inferiore a una determinata soglia, ai disoccupati e a tutti i cittadini bisognosi di tutela71.

Successivamente, nel 1919, venne istituita la Commissione Rava che ebbe il compito di progettare un sistema globale di assicurazione obbligatoria per i rischi derivanti dalle attività lavorative. Il progetto proponeva i seguenti punti:

- assicurazione obbligatoria per tutti i lavoratori dipendenti e indipendenti il cui reddito non superasse un determinato limite, e per tutti coloro che erano inseriti nell’assicurazione per gli infortuni sul lavoro e la maternità;

- copertura assicurativa relativa a inabilità temporanea, invalidità e morte per cause di lavoro, disoccupazione involontaria;

- prestazioni obbligatorie che comprendevano: gli interventi minimi per il

risarcimento del danno alla famiglia, cioè: assistenza medica a tutta la

famiglia; speciale assistenza durante maternità, puerperio ed allattamento; un risarcimento per inabilità temporanea e per disoccupazione involontaria pari

alla metà del salario, decrescente nel tempo fino al minimo dell’indennità per invalidità ma pur sempre in relazione all’onere della famiglia; in caso di morte garantire un sussidio funerario, una rendita temporanea per i figli fino all’età lavorativa e un sussidio alla vedova se priva di altri mezzi;

- favorire l’assicurazione facoltativa anche per persone non obbligate all’assicurazione (ciò attraverso l’erogazione di sussidi economici)72.

Le raccomandazioni da noi evidenziate in corsivo nella precedente esposizione appaiono fin dal principio assolutamente innovative nel contenuto,

71 La creazione di strutture ospedaliere gestite direttamente dallo Stato, finalità per la quale era

prevista anche la requisizione degli istituti privati, è un aspetto assolutamente innovativo in ambito di welfare State, giacché mai prima di questo momento in nessuna nazione europea si aveva avuto l’ambizione di realizzare un simile progetto su scala nazionale. In merito si rimanda in particolare a: A. Cherubini, op. cit.

72 Cfr. Commissione Reale per il Dopoguerra, Studi e proposte della prima sottocommissione,

soprattutto se rapportate con le esperienze e le idee relative al welfare State in auge in quegli anni nel panorama internazionale, anche se nella loro forma giuridica di linee guida progettuali esse sono prive di alcun valore normativo. L’idea di promuovere e favorire l’adozione di una assicurazione, attraverso l’erogazione di sussidi, anche tra chi non è obbligato per via della particolare mansione svolta, manifesta un chiaro orientamento verso ideali universalistici che vorrebbe superare, andare oltre lo schema categoriale dell’inclusione totale di un solo gruppo identificabile di persone (gli occupati, i bisognosi, i poveri, i vecchi).

La strada che si iniziava a definire sembrava portare verso forme di welfare

State senza paragoni in termini di copertura della popolazione e di organizzazione delle infrastrutture tecniche ed amministrative.

La venuta del regime fascista pose però grandi ostacoli alla realizzazione di tali principi. Esso impose drastiche modificazioni alla struttura assicurativa ed assistenziale esistente fino ad allora creata in Italia ed impedì l’implementazione dei principi universalistici e delle linee operative dei programmi elaborati dai governi negli anni precedenti.

Il fascismo incrementò la frammentazione dei modelli assistenziali categoriali, attuando provvedimenti selettivi legati a singole e circoscritte categorie lavorative. Alcune di queste vennero duramente penalizzate, per esempio le categorie dei lavoratori agricoli, al fine di rafforzare il potere economico dei grandi proprietari terrieri e di consolidare pertanto lo status quo, le differenze di classe73. Nella pratica, il risarcimento del debito contratto con i latifondisti, che appoggiarono e sostennero l’ascesa del regime, si tradusse nell’esclusione dell’intero settore agricolo dai piani previdenziali contro la disoccupazione e nell’abolizione della copertura pensionistica per mezzadri e coloni.

73 Sostanzialmente sembrerebbe che la tipologia di welfare State definita da Esping-Andersen

‘regime corporativista’ riscopra la propria derivazione in un contesto simile a quello appena descritto. Secondo l’autore, le conseguenze storiche generate dal peculiare approccio all’amministrazione dell’assistenza pubblica durante il ventennio fascista sono riscontrabili, per alcuni versi, nella più o meno recente strutturazione del welfare State in Italia, con il conseguente inserimento di questa tra gli esempi di questa tipologia di regime. Cfr. supra, cap. 1.2. In merito alle riforme del sistema assicurativo nazionale attuate dal regime fascista si rimanda a: M. Salvati,

Il regime e gli impiegati. Nazionalizzazione piccolo-borghese negli anni del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1992.

Inoltre, anche gli interventi e i provvedimenti assistenziali introdotti dal governo vennero gestiti e strumentalizzati direttamente dal regime che li utilizzò a proprio vantaggio per aumentare il controllo coercitivo sulla popolazione. Basti pensare, per esempio, all’istituzione nel 1925 dell’Opera Nazionale per la

Maternità e l’Infanzia (ONMI), ideata e voluta per migliorare l’assistenza in questo specifico ambito sociale e coordinare a livello nazionale gli interventi dedicati, ma strumentalizzata dal regime per fini demografici e di politiche razziali. Un altro esempio, emblematico per l’argomento da noi affrontato, è quello della Prima Scuola per Assistenti Sociali, fondata a Roma nel 1928 presso la Scuola Femminile Fascista di Economia Domestica. I programmi didattici avrebbero orientato le studentesse allo studio e alla cura della persona umana, ma il regime fascista voleva utilizzare la scuola stessa, attraverso l’indottrinamento delle future assistenti sociali, come strumento di propaganda e di penetrazione politica74.

Pertanto, al di là dei principi idealistici che avrebbero sospinto le possibili riforme verso orizzonti assolutamente originali per l’epoca, l’avvento del regime dittatoriale frenò e ostacolò i progetti del governo nell’ambito della costruzione delle prime forme di politica sociale. Il fascismo in Italia cancellò i progetti riformisti fino ad allora creati, generando una irreversibile frammentazione categoriale in ambito previdenziale e una degenerazione degli interventi implementati verso derive di assistenzialismo particolaristico, a discapito dei principi e dei propositi di copertura universalistica dell’assistenza pubblica.

2.2 Dopo il ventennio fascista: dal Piano D’Aragona al