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Un pericolo “globale”: il rischio di una grave condanna o l’esilio?

La reazione borbonica: la persecuzione e le condanne dei carbonar

IV. 3. Un pericolo “globale”: il rischio di una grave condanna o l’esilio?

Nel dicembre 1821 il Governo stabiliva di istituire delle Corti marziali, con la facoltà di giudicare i carbonari – indicati più generalmente come “settari” – ed i trafficanti d’armi546. Le condanne previste erano gravissime, dalla relegazione alla pena

di morte da espiare al “terzo grado di pubblico esempio”, che prevedeva che il detenuto fosse accompagnato al patibolo vestito di nero e con il viso coperto. Un’ulteriore pena era l’esilio. Subire questa condanna era abbastanza comune negli anni della seconda Restaurazione, non solo nel Regno delle Due Sicilie. L’esodo di molti italiani, costretti a lasciare la loro patria a causa delle loro idee – sia in caso di condanna, che di partitenza volontaria – avrebbe caratterizzato tutto il Risorgimento.

Per coloro che attesero il momento opportuno, e partirono soltanto dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1821, i primi anni della Restaurazione furono cruciali per determinare gli ulteriori sviluppi della loro cultura politica e aggiungere nuovi elementi al loro modo di concepire la nazione547.

Secondo le statistiche proposte da Agostino Bistarelli, nel Regno delle Due Sicilie più di 1500 persone venivano espulse dal 1821 al 1826548. Ciò che nel suo lavoro lo

storico non ha chiarito è se i dati esposti facciano riferimento all’intero Regno, includendo, quindi, la Sicilia, oppure no. La difficoltà di conteggiare gli esiliati del Regno delle Due Sicilie è dovuta principalmente a quella che potremmo definire “la prolungata partenza”. Mentre nel Piemonte sabaudo si decise di attuare un’espulsione di massa, pressoché contemporanea, nello stato borbonico le commissioni di scrutinio istituite per avviare la procedura di epurazione, tardavano nel fornire dati certi alle istituzioni competenti. La polizia, dunque, responsabile dei rapporti da presentare a tali organi, ed, in seguito, a provvedere all’espletamento delle pratiche necessarie all’espulsione – tra le quali spiccavano il rilascio del passaporto, l’autorizzazione della destinazione prescelta ed, in molti casi, l’organizzazione del viaggio – era quasi suo

546 La diffusione di armi dopo il Nonimestre era uno dei problemi più pressanti per i Borbone in Sicilia.

Lo stesso Delle Favare veniva in quel periodo più volte incitato a provvedere al disarmo della popolazione, per evitare anche lo scoppio di una nuova insurrezione.G.PACE GRAVINA, Il codice e la

sciabola. La giustizia militare nella Sicilia dei Borbone tra repressione del dissenso politico ed emergenza penale (1819-1860), Bonanno Editore, Catania, 2015, pp. 103-136.

547 M. ISABELLA, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Laterza,

Roma-Bari, 2011, p. 21.

malgrado responsabile di questi ritardi. Nel caso della polizia siciliana, in particolare, dalle carte prese in esame presso l’Archivio di Stato di Napoli trasmesse da Palermo, è rilevabile una certa tendenza “giustificatoria” nei confronti di coloro che tentavano di posticipare il più possibile la data della partenza.

Un elemento di rottura, quasi involontario, dell’ordinamento borbonico non era solo la repressione in sé, con le conseguenze che essa comportava sulla vita dei singoli e delle loro famiglie, ma anche, la possibilità per una folta schiera di fiancheggiatori che a vario titolo erano stati e continuavano ad essere oppositori dei Borbone, di restare in Sicilia e continuare, pertanto, l’opera di disaggregazione della società rispetto all’ordinamento costituito. Questi individui, rimasti al margine nei procedimenti penali, avrebbero rappresentato un gruppo sociale molto importante per l’organizzazione del dissenso, che si sarebbe concretizzata nei tentativi insurrezionali degli anni ’30 e infine nel 1848, con il rientro graduale anche di molti degli esuli del 1821, che avrebbero ottenuto la grazia dal Re. Per questo non è possibile trascurare la mole di controlli richiesti alla polizia su individui di differente condizione, sia per il rilascio di autorizzazioni per l’insegnamento nel caso dei sacerdoti, sia per l’assegnazione di incarichi pubblici. In entrambi i casi, la richiesta di informazioni riguardava i due consueti criteri: se l’individuo “si fosse ascritto” e se “avesse preso parte alle passate vicende” era l’indicazione chiara di chi avesse ricoperto incarichi durante il Nonimestre e, dobbiamo supporre, che tali considerazioni non giovassero alla causa dell’interessato. Riteniamo, dunque, di poter rilevare un doppio criterio di giudizio, mitigato o esacerbato dall’appartenenza o meno di un individuo al gruppo di potere di un dato comune549. Per questo, le centinaia di denunce anonime, presenti tra le carte della polizia degli anni tra il 1820 e il 1821, non rispecchiavano fedelmente il settarismo isolano, ma solo un tentativo di élites contrapposte di prendere il potere attraverso le nuove istituzioni introdotte in Sicilia.

La percezione della questione siciliana per coloro che si erano affiliati alla carboneria era molto diversa a seconda dell’area geografica di appartenenza. La vicenda palermitana aveva dei tratti peculiari nel contesto isolano, soprattutto per l’adesione e per le modalità di partecipazione all’insurrezione dei vari ceti cittadini. Non a caso,

549 Tale circostanza è stata verificata in più parti della Sicilia, in primo luogo da DE FRANCESCO, La guerra di Sicilia…, cit.

dunque, Antonino De Francesco ha fatto riferimento al “notabilato” per indicare i “buoni cugini” siciliani. La stessa descrizione fornita dalla polizia per molti degli adepti sembrerebbe coincidere con questa indicazione550.

Molte informazioni sulla carboneria di Palermo emergevano durante il processo sui congiurati di Salvatore Meccio, che si teneva contemporaneamente alla redazione (o alla conclusione della redazione) del “Notamento” dei settari palermitani. Le regole proposte dalla carboneria, costituivano per l’ordinamento borbonico della seconda restaurazione un grave pericolo, sia nel caso in cui i siciliani avessero preferito un orientamento indipendentista, sia nel caso in cui avessero aderito al movimento cospirativo continentale. Per questo, i tentativi da parte dei settari napoletani di riaprire un dialogo con coloro che avevano appoggiato la causa dell’indipendenza parrebbero essere un punto a favore dell’esistenza di un dibattito ripreso dopo il “cortocircuito” iniziato nel luglio del 1820. Infatti, la carboneria in Sicilia aveva cominciato a diffondersi già a partire dal 1815, almeno come testimoniato da Gaetano Abela, il quale, rifiutato dalla Regia Marina borbonica, aveva prestato servizio nell’esercito francese. Massone fin dall’epoca del suo servizio a Calais, nel 1812 diveniva carbonaro a Napoli, e, ritornato in Sicilia nel 1817, cercava di diffondere la setta attraverso i diplomi e le carte di matrice continentale, che più volte si dichiarava disposto a fornire a nuovi adepti.551 Veniva arrestato e riusciva a fuggire solo nel 1820 allo scoppio della rivoluzione. A quel punto, modificava totalmente il suo orientamento politico aderendo alla causa indipendentista. Il cambiamento avvenuto in questo ufficiale è l’emblema di un più generale motivo di dissenso di una parte almeno della società isolana, che non aveva necessariamente contestato il nuovo assetto politico istituzionale siciliano, perché aveva goduto dei benefici che l’ordinamento amministrativo introdotto nel 1816 aveva offerto. In una prima fase, le patenti e i catechismi portati da Abela e dagli altri carbonari, che tentavano di fare proseliti in Sicilia, erano quasi certamente tutti provenienti dal Mezzogiorno continentale.

La frattura profonda con i settari napoletani sugli obiettivi da mettere al centro del programma carbonaro, certamente si sarebbe consumata dopo l’ingresso delle truppe

550 DE FRANCESCO, «La carboneria in Sicilia…», cit.

551 Si veda su G. Abela: F.BRANCATO, «Gaetano Abela», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 1

borboniche a Palermo, coinvolgendo anche la Sicilia orientale. In questa parte dell’isola, nella prima fase del Nonimestre, la fedeltà alla carboneria continentale ed al Parlamento napoletano era consolidata, grazie anche all’apporto di padre Luigi Minichini, che vi aveva fatto proselitismo. Per questa ragione il prosieguo delle vicende siciliane aveva caratteristiche peculiari. I tentativi, infatti, di fare breccia nel mondo settario orientale da parte di carbonari palermitani, avrebbero dato esiti in parte positivi, proprio in funzione delle tante “promesse disattese” dalle scelte politiche che si consumavano a Napoli dopo la Convenzione di Termini552.

Per questo è fondamentale seguire le “fratture” intorno alle quali si aggregavano o si scindevano coloro che decidevano di esprimere, anche se in segreto, le loro opinioni, in un’epoca in cui la libertà politica non era riconosciuta. Si potrebbe sostenere, inoltre, che la stessa natura peculiare del Nonimestre in Sicilia sia stata un elemento decisivo per la diffusione della carboneria nell’isola, anche se in un momento in cui questa era emersa dalla clandestinità. Potremmo definire, oltre alla generale contrapposizione fra indipendentisti e riformatori, fedeli alla rivoluzione di Napoli, individuata nel contrasto fra la Sicilia orientale e la città di Palermo e i suoi alleati, anche altri punti chiave del Nonimestre nell’isola. Uno di questi potrebbe essere l’evoluzione che la politica napoletana mostrava dopo la “conquista” dell’antica capitale.

Una situazione decisamente complessa, che in parte potrebbe spiegare i rapporti tra le vendite che si concretizzavano nei mesi successivi, ma che va letta alla luce della grande rivoluzione operata dalla carboneria per quanto riguarda i modelli organizzativi e i riferimenti ideali forniti agli adepti.

Escludendo l’insorgenza popolare che si verificava a Palermo ed in molte parti dell’isola, la carboneria diveniva un importante fenomeno aggregativo che riuniva elementi molto diversi della società isolana. Per questo, oltre ad i condannati per associazione settaria nel decennio successivo al Nonimestre, presi in esame già da Valentino Labate, si vuole cercare di apportare qualche elemento in più per la comprensione di quella zona grigia di fiancheggiatori, fuggitivi, condannati all’esilio che si ritrovano inclusi nelle carte della polizia.

Molti si davano alla macchia fin da subito, comprendendo la gravità della situazione e riuscendo, quindi, ad evitare la pena capitale. Tale era il caso del generale Giuseppe Rosarroll che aveva tentato una resistenza all’esercito austriaco fallita sul nascere553. Il suo, tuttavia, non fu l’unico esempio di una diaspora di rivoluzionari o “insorgenti” che si allontanavano volontariamente dalla Sicilia554.

Esisteva una fitta corrispondenza tra il governo centrale e l’isola, in particolare tra il ministro di Grazia e Giustizia ed il luogotenente generale, che aveva come oggetto l’individuazione dei soggetti che dovevano essere espulsi. L’esilio doveva concretizzarsi prima della pubblicazione dell’amnistia, effettivamente concessa nell’ottobre del 1822, che veniva più volte posticipata affinché alcuni individui ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico e la sicurezza dello stato non beneficiassero di tale provvedimento. Per questa ragione veniva inviato un rescritto da Napoli il 30 settembre 1822 al luogotenente, che includeva l’elenco di coloro che dovevano essere “inviati a viaggiare”, non come colpiti da una condanna, ma come individui da fare allontanare “volontariamente” dal Regno.

Il direttore generale di polizia doveva informare i soggetti, a cui sarebbero stati consegnati i passaporti, e vigilare sulla loro effettiva partenza. Costoro avrebbero potuto rientrare dall’esilio solo in caso di un “espresso permesso” del Re. Inoltre, venivano fornite indicazioni anche per coloro che erano ancora sottoposti a processo o erano “profughi”. Nel primo caso, se posti in libertà durante il procedimento penale che li riguardava, avrebbero dovuto essere controllati dalla polizia e, in caso di assoluzione, comunque allontanati dal Regno. Nel secondo, qualora fossero rientrati in Sicilia, sarebbero stati nuovamente costretti a partire.

Molti “Notamenti” di soggetti destinati all’esilio emergevano da una richiesta fornita dal Regio Ministro Plenipotenziario a Roma marchese di Fuscaldo, pervenuta al direttore generale di polizia attraverso l’intermediazione del ministero degli affari esteri e del luogotenente generale, che richiedeva l’elenco esatto dei cittadini siciliani espulsi dall’isola «con l’oggetto di evitare qualunque sbaglio che potrebbe commettersi

553 Vedi supra, cap. III.

554 Si faccia riferimento, al documento n. 7 in Appendice, che include dieci fuggiaschi, irreperibili dopo le

accordando loro dei passaporti»555. La destinazione finale dell’esilio dei siciliani, tuttavia, non avrebbe potuto essere lo Stato pontificio, in quanto il governo aveva dato mandato alle autorità siciliane la seguente direttiva:

Ciò che converrà fare dunque verso di loro nelle occasioni, si è, quanto non convenisse o tenere le prigioni ingombre di questi scellerati o soffrirli liberi a danno della pubblica tranquillità, obbligarli a partire per Tunisi, per la Grecia, e per l’Inghilterra, eccetto l’Isola di Malta, per la Spagna, ed anche per l’America, costringendoli a imbarcarsi ovvero di farli giudicare e condannare severamente, e con speditezza556

L’esclusione di Malta, che era sotto la dominazione inglese, era dovuta al timore che si potesse costituire sull’isola un gruppo di esuli siciliani che, data la vicinanza, potessero facilmente ritornare in patria e ordire nuove insurrezioni.

In ogni caso, il luogotenente generale si affrettava ad inoltrare copia dei documenti trasmessi dalla direzione generale, che includevano sia gli “individui volontariamente partiti”, sia quelli allontanati “per causa delle passate vicende”, che quelli che “per motivi osservati al margine non sono partiti”.

Dopo il Nonimestre giungevano a Tunisi, la prima destinazione indicata dal Governo, circa quattrocento persone, “siciliani e napoletani”557. I numeri di questi allontanamenti dal Regno furono di gran lunga inferiori rispetto al massiccio esodo verificatosi in Piemonte558.

Anche i personaggi allontanati dall’isola sotto l’occhio vigile della polizia non erano necessariamente comprovati carbonari, ma spesso la responsabilità che veniva loro attribuita era di essere “perturbatori dell’ordine pubblico” in senso lato, sia capeggiando insurrezioni popolari, sia guidando i movimenti liberali isolani.

555 ASN, Ministero di Polizia generale, I numerazione, vol. 3, anno 1823, Missiva del luogotenente

generale in Sicilia del 1 marzo 1823, vol 348.

556 Indicazione fornita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in Napoli il 18 gennaio 1823, in ASN, Ministero della Polizia Generale, I numerazione, Affari di Sicilia, b. n. 348.

557 Ciò viene indicato in ASN, Esteri, Consolato di Tunisi, f. 3085. Tunisi, 28 giugno 1821, Console a

ministro degli Esteri, e riportato da S.SPEZIALE, «Gli italiani in Tunisia tra età moderna e contemporanea: diacronia di un’emigrazione multiforme» in L. FARANDA (a cura di), Non più a sud di Lampedusa.

Italiani in Tunisia tra passato e presente, Armando editore, Roma, 2015, pp. 17-42, (in particolare pp.

30-32).

558 Nel caso del Piemonte, le partenze furono concentrate in un periodo di tempo più limitato. Si veda G.

MARSENGO – G.PARLATO, Dizionario dei Piemontesi compromessi nei moti del 1821, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Torino, 1982.

Uno dei nodi centrali di queste espulsioni è l’incidenza che esse ebbero rispetto al numero di coloro che si erano compromessi con la carboneria. Per questo tornando ai dati elaborati grazie al “Notamento” dei settari palermitani, potremmo verificare il ristretto numero di espulsi rispetto a coloro che venivano coinvolti nelle indagini della polizia. Spiccava in tal senso una sorta di motu proprio del luogotenente generale nei confronti del Duca di Calascibetta e del principe di Giardinelli che venivano espulsi con un ordine del 18 giugno 1822. Il primo era stato indicato nel “Notamento de’ Gran

Maestri, e maestri carbonari, associati nelle vendite di Palermo, scelti li più accaniti nell’ordine” come:

G. M. in 3° grado. Massone in gradi eminenti; pertanto anche il titolo di Cavalier della Rosa Bianca. Fondatore di varie vendite fra le quali quella dell’Eremo, in cui batteva l’accetta, pria di di consegnarla al G.M. Capuccino, l’istesso praticava in altre Vendite, fra le quali quella della Vera Unione, funzionando come G. M. onorario559.

Non solo veniva indicato come carbonaro, ma anche come massone, e il grado a lui “imputato” ne faceva uno dei più eminenti gran maestri di Palermo, direttamente coinvolto, peraltro, durante la rivoluzione dei mesi di luglio-ottobre 1820. Il problema che si poneva al momento dell’espulsione era la veridicità dell’accusa560.

Altra situazione era quella del principe di Giardinelli, che era anche Conte di Pachino, anch’egli espulso per volontà del luogotenente generale principe di Cutò. Egli era uno dei principali esponenti della carboneria a Palermo e di lui nel “Notamento” si diceva:

Gran Maestro in terzo grado, egli è fondatore di varie vendite, fra le quali quella del Mezzagno, batteva l’accetta nella vendita da lui fondata sotto il titolo della Vera Unione561.

Anche in questo caso, il Pietro Starrabba Virgilio, Conte di Pachino, IV Principe di Giardinelli, veniva indicato come uno dei principali carbonari palermitani, oltre che incluso in quel ristretto circolo di settari più volte menzionati dalla polizia, e già parlamentare alla camera dei pari nel 1812562.

Dopo una condanna all’esilio, molti tra coloro che avevano lasciato la Sicilia facevano domanda di grazia al Re. Anche in questo caso, venivano redatti notamenti

559 Il soggetto era vicino a Gio Batta Martines, già sorvegliato dalla polizia dal mese di giugno del 1821.

“Notamento…”, cit., n. 10.

560 Infatti, se il titolo fosse stato quello di duca di Calascibetta, il riferimento sarebbe stato ad Edoardo,

barone di Sabuci. Se, invece, come nel caso della “principessa” di Carinola, ci fosse stato un errore nella trascrizione del titolo, questo soggetto potrebbe essere stato D. Salvatore Calascibetta, duca di S. Nicolò, che richiese ed ottenne di poter rientrare nel Regno, con decisione comunicata alla polizia nel dicembre del 1823. La supplica riguardante il suo rientro nel Regno è contenuta in Notamento di alcuni individui eliminati dai Reali Dominj, i quali han rassegnato le loro suppliche, Documento 11 in Appendice. La conferma del rientro del Calascibetta in ASP, Real Segreteria di Stato - Polizia, f. 1386 bis, anno 1823.

561 Documento 4, n. 2. Anche in questo caso la polizia metteva in relazione l’operato di questo soggetto

con quello di Gio Batta Martines, oltre che con quello del duca Calascibetta.

562 F.DE SPUCCHES, Storia dei Feudi e dei titoli Nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni,

che aggiornavano le informazioni su coloro che erano in attesa del parere regio, allegando le motivazioni che essi adducevano per discolparsi563. Proprio attraverso le annotazioni della polizia è possibile ricostruire gli spostamenti degli esuli, poiché il contatto costante tra i consoli e il ministro degli esteri forniva notizie precise e dettagliate sul loro viaggio564.

Oltre alla necessità di controllare l’effettiva permanenza oltre confine degli esuli, un ulteriore problema interessava la polizia del Regno delle Due Sicilie: coloro che, rivoluzionari di altri paesi, avrebbero potuto “turbare la pubblica tranquillità” entrando nel Regno. Questo si desume dalla presenza di un voluminoso fascicolo alla direzione generale di polizia di Palermo, riguardante il controllo sugli “Esteri”. La questione della libertà dei popoli si manifestava improvvisamente con una nuova “ministeriale”, giunta al luogotenente generale, principe di Campofranco e comunicata al direttore generale di polizia: si temeva uno sbarco in Sicilia di Raffaele Poerio e dei suoi accoliti, un gruppo composto anche da siciliani, per organizzare un’insurrezione, o fare razzia di viveri e

563 Si veda, come esempio, il documento 11, in Appendice, p. 374.

564 Questo era il rapporto su Don Salvatore Calascibetta Duca di S. Niccolò: «Dalle carte pervenute in

questo ministero di Stato pe gli affari di Sicilia, e precisamente da’ due rapporti del L. G. del 1 agosto 1822 e 23 febbraio 1823 si è rilevato di essere stato esposto dal Direttore Generale di Polizia, che il collaterale individuo fu mandato via da’ R. D. per disposizione data dal Principe di Cutò, allora Luogotenente Gen.le in Sicilia; che forse la intima di lui amicizia con Conte di Pachino gli abbia attirata quella misura; ma che i costumi di esso Calascibetta sieno ben diversi da quelli di Pachino. Furono essi un tempo insieme in Malta; ma indi Calascibetta passò in Toscana, e poi in Parigi per la via di Marsiglia. Essendosi ricusato il R. Ambasciatore a Parigi a firmargli il Passaporto per Marsiglia, Calascibetta ebbe ricorso a S. M. La Maestà Sua con decisione emessa in Vienna a 17 gennaio 1823 si degnò ordinare di prevenirsi il suddetto R. Ambasciatore che potesse munire del suo visto il passaporto del Calascibetta per qualunque parte volesse egli dirigersi meno per ritornare ne’ Reai Dominj, o per recarsi in Malta. Or pria che fusse pervenuta in Napoli la suddetta Sovrana Risoluzione, erasi emessa qui da Vienna dal Presidente