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Politiche pronataliste e salute riproduttiva femminile dal 1966 al 1989

Incontro Dimitru nel cortile del Collegio dei Padri lasalliani a Iaşi, dove intervi-sterò un paio di adolescenti e, naturalmente, chiederò alcune informazioni sui ragazzi ivi ospitati ai Padri disponibili. Felicia lo conosce, me lo presenta e ci fermiamo a fare due chiacchere, nell’ombra riposante del magnifico giardino, in un soleggiato pomeriggio di fine maggio, carico delle promesse dell’estate. Di-mitru, 17 anni, accenna con orgoglio alle magnifiche rose del giardino, che an-che lui contribuisce a curare. Pensa di continuare gli studi al Collegio, an-che fun-ziona anche come seminario, perché vuole diventare sacerdote. Dimitru è il più giovane di undici fratelli e sorelle. Il più grande ha 36 anni. «Undici sono tanti!», commento, e mi viene in mente la politica pronatalista del regime di Ceauşescu. Dimitru sorride e dice solo che crescerli tutti è stato molto difficile per i suoi, che sono una famiglia povera, residente in un villaggio della Moldavia.

Se desideriamo collegare le politiche nataliste rumene alla condizione delle donne, il primo elemento da menzionare riguarda le tappe della politica prona-talista sotto il regime di Ceauşescu, politica in realtà affrontata durante l’intera durata del comunismo rumeno (1948-1989) (Bolovan 2004). Lo Stato comuni-sta intervenne nella regolamentazione del comportamento fertile della popola-zione attraverso tre livelli di apopola-zione: usando la repressione (proibipopola-zione dell’a-borto e del divorzio); con misure di stimolazione della procreazione (aiuti fi-nanziari e altri vantaggi alle donne e alle famiglie con molti figli); orientando l’opinione pubblica per indurla ad avere un comportamento riproduttivo più fecondo possibile, mediante la retorica rappresentata dallo slogan della creazio-ne di un ‘uomo nuovo’ che impersonasse pienamente gli ideali socialisti. Tra il 1948 e il 1989 questa politica raggiunse parzialmente i suoi scopi, portando in quarant’anni a un aumento della popolazione di sette milioni di persone, che, sebbene vada considerato come il tasso di crescita più alto in Europa, non soddisfaceva gli obiettivi proposti dal programma del Partito Comunista

Ru-meno il quale auspicava di raggiungere nel 1990 i venticinque milioni di abitan-ti (Bolovan 2004). Migliaia di asili nido e per l’infanzia, scuole, palestre5, pro-grammi speciali per ragazzi particolarmente dotati e orfanotrofi furono costru-iti per perseguire la costruzione di una nuova generazione.

Lo stato si trova quindi a dover formulare un compromesso: accettare che il com-pito di allevare i figli rimanga nell’ambito privato della famiglia, ma continuare ad esercitare il proprio controllo attraverso l’influenza sulle madri. Per ragioni pura-mente pratiche, quindi, le voci del Partito iniziarono a promuovere il ruolo centra-le della madre nell’educazione dei figli. Lentamente ma gradualmente emergono alcune delle numerose tensioni irrisolte che la politica ufficiale ha creato, coniu-gando ancora una volta tradizione e rivoluzione. Se da un lato si incitava le donne ad “uscire dalle cucine”, ad utilizzare il loro tempo per istruirsi, per lavorare, per acquisire una coscienza politica e per realizzarsi nella collettività, dall’altro si chie-de loro di continuare ad occuparsi chie-del focolare domestico e chie-dei figli (Riolo 2006/07, 21-22).

L’idea di che cosa dovesse essere una famiglia, Ceauşescu la prese dal pro-prio passato: proveniva da una famiglia contadina con dieci figli. Com’era successo negli altri Paesi comunisti, anche in Romania il coinvolgimento dello Stato nell’evoluzione demografica si è materializzato attraverso una serie di decreti legislativi. Con il decreto n. 770 del 1966 Ceauşescu aveva proibito la contraccezione e l’aborto alle donne con meno di quattro figli. Sino al 1966, la Romania era il Paese più permissivo in Europa in tema di interruzioni volonta-ria della gravidanza. Era di fatto l’anticoncezionale più in voga, anche perché gli altri semplicemente non erano reperibili, al punto che si verificavano quat-tro aborti per ogni nascita: circa l’80% delle gravidanze veniva interrotto. In-fatti, paradossalmente, una scatola di preservativi arrivava a costare cinque volte tanto il prezzo di una seduta in ambulatorio per l’interruzione di gravi-danza. Oltre alla convenienza in termini economici è da aggiungere il fatto che i normali metodi contraccettivi erano reperibili solo nei grandi centri urbani, anche se con forniture non sufficienti, mentre le aree rurali ne rimanevano del tutto sprovviste6. Questo comporta una riflessione sulla gestione statale della 5 Sono gli anni che vedono Nadia Comaneci vincere la medaglia olimpica di ginnastica

artistica, e i ragazzi e le ragazze sono incentivati a partecipare alle competizioni interna-zionali.

6 L’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) scelta come misura di controllo delle

nasci-te ha costituito un innasci-terrogativo sulle sue motivazioni diffuso in tutta Italia nei confronti delle donne immigrate in genere, e soprattutto per le immigrate dall’Est Europa nel corso di tutti gli anni ’90 e il primo decennio degli anni Duemila. Interrogarsi sulle motivazioni di tale scelta, ha significato non solo fronteggiare una richiesta di IVG superiore alla richiesta

riproduzione, in pratica, una riflessione biopolitica sul corpo riproduttivo del-le donne, forzate a diventare madri, e suldel-le politiche che rendono accessibili o meno strumenti di regolarizzazione delle nascite. In realtà, la politica rumena nei confronti dell’aborto attraversò fasi contraddittorie: nel Codice penale del 1948 esso venne considerato un delitto, poi, il decreto n. 463 del 1957 autoriz-zò l’aborto su richiesta incondizionata, il che equivaleva ad una liberalizzazio-ne, pare ispirata ad una analoga liberalizzazione avvenuta in URSS nel 1955 ma anche legata al desiderio di costruire un consenso attorno al regime comunista dopo i fatti di Ungheria del 1956. Riguardo agli anni successivi, sino al 1966, si osserva una curva discendente nella natalità. Alla diminuzione della fertilità contribuì anche una nuova fase di transizione demografica, associata all’indu-strializzazione e all’urbanizzazione promosse in quel periodo: quindi, aumenta-re la fertilità è visto come un aumento della futura classe lavoratrice.

I cambiamenti verificatisi sulla struttura di età e di sesso nella popolazione urbana e rurale, nonché l’emigrazione dall’ambiente rurale a quello urbano, hanno avuto effetti evidenti sulla nuzialità e sulla fertilità della popolazione rumena (Bolovan 2004, 156).

Così, nel 1965, quando Ceauşescu prese il potere, l’indice di natalità era sceso per la prima volta sotto il 15‰. In questa situazione il dittatore interven-ne con tre fasi politiche distinte: la prima dall’ottobre 1966 al giugno 1973, la seconda dal giugno del 1973 al marzo 1984 e la terza dal marzo 1984 al dicem-bre 1989. Il decreto n. 770 del 1° ottodicem-bre 1966 comportò una rottura brusca e inaspettata con il periodo precedente e le eccezioni alla proibizione furono molto limitate (ad esempio, quando una donna ha già quattro figli e li mantie-ne). Con questa legge veniva bandita anche ogni forma di educazione sessuale: avere donne consapevoli significa avere donne meno docili rispetto a un ‘dove-re riproduttivo’ imposto dall’alto; al contempo, ave‘dove-re uomini non consapevoli significa riprodurre quelle dinamiche di genere che vedono nella naturalizza-zione della maternità uno strumento di valorizzanaturalizza-zione della mascolinità e insie-me del controllo sociale che passa attraverso l’enfasi sui doveri riproduttivi femminili. In altre parole: la naturalizzazione della maternità, come attributo ascritto alla femminilità, sposta il peso del giudizio dalla consapevolezza

ripro-media nazionale, ma anche iniziare a interrogarsi sul significato dell’aborto in una prospet-tiva soggetprospet-tiva e al contempo legata alle diverse (bio)politiche riproduttive nei diversi stati. Per la situazione dell’IVG tra le donne migrate dalla Romania, cfr. Tizzi (2012) per la pro-vincia di Arezzo; e Settepanella (2017) per le trasformazioni di genere, familiari e migratorie tra Italia e Romania. Un importante contributo sull’aborto in Romania, le campagne pro vita e il ruolo della Chiesa ortodossa è in Anton (2018).

duttiva di genere alla sfera morale; se una conseguenza possibile dei rapporti sessuali è la procreazione, e se gli uomini ‘naturalmente’ seguono l’istinto, allo-ra spetta alle donne il peso della decisione di concedersi oppure no, facendo appello alla loro capacità di autocontrollo ‘morale’. Se una donna si concede sessualmente, è l’unica responsabile delle conseguenze e su di lei ricade la re-sponsabilità di scegliere se portare avanti la gravidanza o no.

Dopo il 1966 il tasso di fertilità balzò in un solo anno da 1,9 a 3,7 per mille (US Census Bureau’s International Data Base 2003) e da 3.600 aborti per mille nati si passò nel 1967, sempre per mille nati, a 400 aborti. In seguito a questo decreto, il tasso di natalità passò dal 14,7% nel 1966 al 27,4% nel 1967. Nel 1973 le misure si inasprirono: l’applicazione del decreto fu estesa alle donne fino ai 45 anni (prima si fermava alla soglia dei 40 anni) e il numero dei figli per donna passò da quattro a cinque.

Secondo le testimonianze scritte e orali, in quel periodo la radio martellava dalla mattina alla sera: «Un Paese forte è un Paese popoloso». Dicevano che il Paese aveva bisogno di contadini, operai, soldati e che l’Occidente aspettava il minimo cenno di debolezza dei comunisti per attaccare. Molti ci credevano, e vivevano nella paura, molti altri aderivano all’idea della famiglia da considerar-si tale solo se con molti figli. Agenti del governo – spesso ostetriche –, sarcasti-camente denominati ‘polizia mestruale’, compivano regolari ispezioni nei luo-ghi di lavoro per sottoporre le donne a test di gravidanza, per scoprirle preco-cemente7. Quelle che risultavano ripetutamente negative si vedevano appiop-pare una salata multa ‘sull’astinenza’, mentre si punivano con la detenzione o pesanti multe gli aborti clandestini.

Quando iniziarono le misure per estinguere il debito estero, i primi tagli riguardarono farmaci, dispositivi medicali e reagenti chimici. Non c’era quindi la possibilità di effettuare i test di gravidanza, ma la soluzione adottata fu quan-tomeno bizzarra: si scoprì che i rospi reagivano all’urina delle donne gravide, che quindi veniva loro iniettata. «Era un buon metodo, ma richiedeva molto tempo e dopo poco i rospi erano esausti. Inoltre, c’era qualcosa di ridicolo e cinico nell’affidarsi ai rospi per sapere se una donna era incinta» (Adrian Sân-giorzan, ginecologo, Braşov; Iepan 2005). E i rospi furono quasi condannati 7 Adrian Sângiorzan, ginecologo di Braşov, nel film di Iepan Children of the decree / Decre-tul 700. Experiment Social (2005) (www.220.ro/documentare/DecreDecre-tul-770-Experiment-

(www.220.ro/documentare/Decretul-770-Experiment-Social-Partea1/hwcvKU8Vdp/?rel=related) racconta come si svolgevano questi controlli, a cui le donne in fabbrica non potevano sfuggire. In due ore, lui stesso sottoponeva a test dalle quaranta alle sessanta donne, estremamente organizzate, per accelerare i tempi, in un ‘balletto grottesco’ in cui le donne si alternavano su due lettini, entravano nella stanza sen-za mutande: «Quello che importava alle autorità era la data dell’ultima mestruazione e se trovavo qualcosa di strano dovevo denunciarlo».

all’estinzione. Venne anche disposta una tassa sul celibato nel 1986 che avrebbe dovuto costringere i ragazzi a sposarsi in giovane età, per concepire, in tal mo-do, più figli possibile. Il celibato veniva considerato un fenomeno asociale, un allontanamento dai doveri patriottici di servire la patria socialista anche dal punto di vista demografico. La legge suscitò rabbia e contestazione: Ceauşescu, infatti, dovette rapidamente abolirla entro due anni.

Le commissioni mediche che autorizzavano l’interruzione della gravidanza erano nominate dai fori provinciali dei medici e dai capi della procura e della milizia provinciali.

La presenza dei membri dell’apparato di repressione alle sedute delle commissioni mediche costituiva non soltanto l’espressione di un esercizio evidente di controllo dello stato sul corpo della donna, ma allo stesso tempo, faceva indebolire l’autorità scientifica dell’albo dei medici rumeni (Bolovan 2004, 161).

La produzione di bambini divenne, dal 1973, un metro di valutazione di me-dici, quadri di partito (come ingegneri, capi-reparto nelle fabbriche), personale sanitario, soprattutto ostetriche. Nello stesso periodo pubblicistica e televisione sostenevano la politica pronatalista, dando ampio risalto alla nascita del 20.000.000 rumeno nel 1969, cifra simbolica del successo raggiunto, Marius Dan Stănciulescu, e seguendolo nei suoi primi anni di vita. In realtà, come si seppe solo dopo, quella che era stata dichiarata come la nascita del 20.000.000 cittadino rumeno rilevata dai computer dell’Istituto di statistica nazionale era stata pilotata, in modo da escludere, tra i circa mille bambini nati nello stesso giorno, quelli con genitori appartenenti ad una minoranza etnica, come quella dei rromii, i Roma, e le bambine, e di comprendere genitori di provata fede verso il partito.

Tutti i bambini, l’eterna primavera, dovevano entrare a far parte dell’Organizaţia

de Pionieri, che doveva testimoniare l’amore e la riconoscenza per l’educazione

e le opportunità ricevute verso il ‘padre della patria’. I bambini ammessi a in-contrare Ceauşescu nelle numerose cerimonie pubbliche dovevano possedere qualità speciali. Certo, non facevano parte di minoranze come quella dei Roma. Le donne Roma non ricevevano una buona assistenza quando andavano a par-torire, il fatto che abortissero veniva facilmente tollerato: molti dei membri delle commissioni preposte all’aborto condividevano l’idea che l’aumento della popolazione Rom avrebbe danneggiato quella rumena, e il decreto n. 770/1966 divenne uno strumento indiretto di pulizia etnica.

Il 1966 è un anno cruciale anche per quanto riguarda il divorzio, che ottiene una caratterizzazione totalmente eccezionale, così da renderlo in pratica molto difficile da ottenere. Solo alcuni motivi specifici lo rendevano possibile: se uno

dei coniugi era diagnosticato demente, o se uno dei due aveva abbandonato l’altro, emigrando all’estero. La riconciliazione era imposta dalle leggi quando venivano invocati come motivi l’infedeltà, le liti seguite da pestaggi, il compor-tamento degradante o le malattie incurabili. Iniziare una causa di divorzio era scoraggiato dalle tasse altissime.

Nonostante tutte queste misure, l’incremento naturale della popolazione (la differenza tra il numero dei nuovi nati e dei morti) seguì una curva discenden-te: 167.028 nel 1980; 156.466 nel 1981; e una vera catastrofe nel 1983, 86.606. Questo portò Ceauşescu nel 1984 all’ultima tappa per favorire la natalità: i medici vennero considerati i responsabili dei problemi di natalità e il loro sti-pendio decurtato del 15%. Alle misure della politica pronatalista si accompa-gnarono quelle per abolire il debito estero dello Stato rumeno, con una dimi-nuzione dei salari, del potere di acquisto e una dimidimi-nuzione diffusa del livello di vita nel Paese. L’introduzione delle razioni alimentari con la tessera peggiorò notevolmente la qualità di vita e la salute della popolazione, che nelle città af-frontava file anche di dieci ore per acquistare beni di prima necessità.

Quello che si sa è che l’aborto illegale, spesso operato da persone non qua-lificate e che molto spesso provocava setticemia, è stato la causa predominante di morte tra le donne in età fertile, il tragico risultato di una legge pensata per aumentare la popolazione. Dal 1966 al 1989, il bilancio ufficiale delle morti delle donne è stato di 9.452 persone. Questa cifra non include le donne che non cercarono cure mediche dopo un aborto clandestino, e invece comprende quelle che morirono per malnutrizione e inadeguata cura prenatale. Le donne, a centinaia, si trovavano ricoverate in ospedali che difettavano di personale e di attrezzature8. Molte di quelle che portarono a termine la gravidanza furono costrette ad acquistare il latte al mercato nero, in quanto la produzione nazio-nale non era assolutamente in grado di soddisfare i bisogni della metà della popolazione totale del Paese. Moltissime donne morirono per banali

complica-zioni o per scarsa igiene:

The septic room of our hospital were the place in which every week some women died for the consequences of illegal abortion. A tragedy happening beyond any human level. As a woman who had uterus and ovaries damaged, obliged to enter in menopause aged 18 years. A woman without chance to have children anymore. I

8 Nel silenzio generale che circondava l’aborto clandestino, sola eccezione è il film Ilustrate cu flori de camp (1975), con la regia di Andrei Blaier, che raccontava la storia vera di una

donna di 20 anni, Maria Goran, che morì per un aborto illegale. Alcune scene di questo film sono contenute nel documentario Children of the decree di Florin Iepan (2005), www.220. ro/documentare/Decretul-770-Experiment-Social-Partea-1/F0yvVUDwAl/.

remember some of these women, before she died. They were conscious until they died, and they realized they will die because at some point everything was beyond our resources. I remember they faced a dialogue with us, we didn’t regret their death: we were completely, completely exhausted (Adrian Sângiorzan, ginecologo, Braşov; Iepan 2005).

Obbligate a fare figli molte donne abbandonavano il neonato subito dopo l’espulsione, anche per la povertà dilagante nel Paese. L’istituzionalizzazione dei minori fu l’unica offerta dello Stato alle famiglie in difficoltà. Gli orfanotro-fi si riempirono, ne vennero creati di nuovi, adattando però strutture inadatte allo scopo; aumentò così in parallelo anche il tasso di mortalità infantile, legato alla povertà da un lato e alle condizioni di vita disumane negli orfanotrofi stes-si, che fecero ammettere ai primi osservatori arrivati in Romania dopo la cadu-ta di Ceauşescu che scene simili erano scadu-tate viste solo nei campi di concentra-mento nazisti9. Nel 1980, più di 100.000 bambini erano ‘affidati alle cure’ dello Stato. Abusi fisici e sessuali da parte di membri del personale erano molto diffusi, la malnutrizione e l’abbandono subiti dai bambini causarono a molti di loro disabilità fisiche e mentali. La verità emerse soprattutto nel marzo 1990, quando una troupe tedesca entrò in una istituzione per bambini disabili men-tali a Cighid10. Non ci sono parole per descriverne l’orrore.

La maggior parte della popolazione rumena non conosceva l’esistenza di strutture come quella di Cighid, dove la mortalità infantile aveva raggiunto il 50%, la più alta in Europa. Solo nel 1988, vi morirono 62 bambini, la maggior parte decreţei, ‘figli del decreto’, tra i 3 e i 5 anni di età. La decisione per l’in-ternamento a Cighid era presa da una commissione medica. Per tutti, Cighid era la destinazione finale, al freddo, senza cibo, senza cure, senza affetto. Una conseguenza diretta di ventiquattro anni di politica pronatalista. Quello che la Romania ha dovuto pagare per produrre l’‘uomo nuovo’.

Tutto questo ci sembra lontano, ma non lo è così tanto, quando pensiamo quante donne che hanno vissuto tali situazioni sono venute poi a lavorare in Italia, o ci sono venute le loro figlie, o vengono ora, alla soglia dei sessant’anni – secondo quanto i colleghi sociologi rumeni osservano come nuovo fenomeno che prende piede: non più giovani, ma ancora in grado di fare pulizie o di ba-dare a qualcuno più anziano di loro. Un mercato senza fine.

9 Una documentazione fotografica drammatica delle condizioni di vita negli orfanotrofi di

Bucarest è offerta dal fotografo inglese John Freed, che tra dicembre 1989 e gennaio 1990 riprese scene della rivoluzione e della vita nelle istituzioni pubbliche (ospedali e orfanotro-fi) rumene.

10 Il film di Iepan (2005) mostra alcune sequenze di questo documentario. Davanti ad esse

La maggior parte dei rumeni definirebbe decreţel, nato per decreto, qualun-que persona nata fra il 1966, anno del decreto n. 770 che vietava l’aborto e la contraccezione, e il 1990, anno della sua abrogazione. Secondo altri, solo quel-li nati fino al 1968 debbono portare questa etichetta, perché dopo un certo tempo la gente era riuscita a adattarsi a uno stile di vita in cui la sessualità era vissuta come un vincolo. Sessualità vissuta come vincolo può significare tante cose: senso di estraneità nei confronti dei figli, con il conseguente abbandono nelle strutture, senso di colpa per tale abbandono, alterazioni e cambiamenti del vissuto di maternità e paternità, impotenza per la difficoltà a mantenere i figli e dar loro un futuro, modifiche delle forme di famiglia e delle identità di genere, impossibilità di scelta (non poter scegliere se tenere il bambino o me-no), cambiamenti nell’investimento affettivo verso la prole (considerare i bam-bini ‘figli dello Stato’ implica che cessano di essere figli di qualcuno/a, smetto-no di implicare una qualche funzione di genitorialità, per diventare corpi de-personalizzati).

Forse non è un caso che i protagonisti – e le vittime – della cosiddetta