Marco Fontana
2. Il risorgere di un vecchio paradigma: la connessione migrazioni-malattia mentale
Vieda Skultans in Empathy and healing (2008) traccia un quadro della psichia-tria post-sovietica in Lettonia come un’arena in cui le contraddizioni di una economia liberale vengono tradotte attraverso un linguaggio medico, esploran-do le narrazioni individuali e come esse mettono in forma memoria condivisa – l’occupazione nazista e poi il dominio sovietico –, autobiografia e malattia.
Attraverso una tessitura di narrazioni, Skultans mostra le ripercussioni dei cambiamenti da una psichiatria di matrice pavloviana e attrice attiva di control-lo sociale verso la psichiatria ‘occidentale’: si tratta non socontrol-lo un cambiamento di paradigma, di strumenti e metodi, ma di una inserzione nell’economia neo-liberista del farmaco, dalla sponsorizzazione di corsi di aggiornamento da parte di multinazionali farmaceutiche alla pubblicità sulle riviste mediche, alla richiesta di farmaci da parte della popolazione, quei farmaci introvabili duran-te l’epoca della dittatura e che ora diventano merce e bene di consumo. Quel disagio pervasivo del tono dell’umore che un tempo veniva denominato
neura-stenia, e che trovava un ancoraggio fisico nell’avere i nervi, le forze esaurite,
autorizzando in qualche modo il sentire socializzato e diffuso di essere mal-adattati al regime, dal 1991 viene convertito in depressione, quindi individualiz-zato, diagnosticabile, curabile attraverso farmaci – da acquistare, ovviamente. Cambiamenti del potere e dell’economia che entrano in risonanza con gli slit-tamenti della soggettività, non misurabili oggettivamente ma che Skultans esplora in profondità.
Nella patria di Kiselyov e Faifrych, l’Ucraina – e la Romania ha seguito gli stessi cambiamenti del modello psichiatrico, come descrive qui Marco Fontana nel suo saggio L’incontro con la psichiatria rumena – dal 1991 assistiamo a una decisa svolta rispetto all’uso politico e sociale della psichiatria che veniva fatto precedentemente. Ad esempio, molti dissidenti politici prima ricevevano una diagnosi di schizofrenia ‘latente’ in base ai modelli che descrivevano la schizo-frenia come caratterizzata da un ‘asse negativo’ di sintomi che comprendevano conflitti con le autorità, scarso adattamento sociale e pessimismo, anche senza la presenza di sintomi psicotici. Dopo il 1989-1991, iniziarono a diffondersi
strumenti diagnostici come l’ICD-109. Ricordiamo inoltre che negli anni ’70, in Romania vennero chiuse le Facoltà di Psicologia, riaperte solo dopo la caduta di Ceauşescu. Steven D. Targum (2013) intervista in Ucraina due psichiatri accademici, Mykhnyak e Chaban. Mykhnyak dice:
Political influence was evident in all aspects of medical science during the Soviet era, and most especially in psychiatry. Soviet ideology was intended to be the cornerstone of our practice during the Soviet era, and psychiatrists were expected to preserve the moral, political, and ideological safety of Soviet citizens. Legislation on psychiatry was adopted in 2000 that made it possible to eliminate the misuse and/or manipula-tion of psychiatry for political purposes (Targum 2013, 42, 44).
Targum domanda:
Can you describe some cases that may differ from what Psychiatrists may observe in the United States?
Dr. Chaban: In my opinion, the last few years have been clearly marked by the sign of patomorphosis, which means a permanent clinical change in the clinical manifes-tations or course of a mental disorder that could be due to diverse medical, social, psychological, and biological factors. We have also seen more drug nonresponsive-ness to the therapy.
I have seen a definite growth of the diagnosis of schizoaffective disorder in the Ukraine. It has also been very interesting to observe some diagnostic differences between my colleagues here and psychiatrists in the United States. For example, some of our patients who were diagnosed with schizophrenia in the Ukraine were, after emigrating to the United States, rediagnosed with bipolar disorder by Ameri-can psychiatrists.
Solo una questione di patomorfosi o, come sottolineava già nel 1988 Arthur Kleinman, la schizofrenia è fortemente condizionata da situazioni come la di-soccupazione e le situazioni di crisi economica? Molti dei sintomi negativi che caratterizzano la schizofrenia cronica sono simili a quelli riportati durante un lungo periodo di disoccupazione, ad esempio: «depression, apathy, irritability, negativity, emotional overdependence, social withdrawal, isolation, loneliness, and loss of self-esteem, loss of identity, and loss of a sense of time» (Kleinman 1988, 55). Kleinman, anticipando il filone di analisi sulla sofferenza sociale, insisteva sull’importanza che le questioni socio-politiche, socio-economiche e 9 L’ICD (dall’inglese International Classification of Diseases; in particolare, International Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death) è la classificazione
inter-nazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO).
socio-psicologiche rivestono nell’originare forme di disagio psichico. Potrem-mo sostituire ‘disoccupazione’ con ‘lavoro segregato e senza pause’ e i sintomi che Kleinman descrive si sovrapporrebbero a quelli che vengono attribuiti alla Sindrome Italia.
L’utilizzo di strumenti come ICD-10 suppone che i disturbi psichiatrici si-ano universali e, in quanto tali, culture-free. Shelley Ann Yankovskyy nella sua tesi di dottorato sulle trasformazioni della psichiatria in Ucraina (2013), oltre a non menzionare la Sindrome Italia, delinea una interessante continuità tra il paradigma pavloviano del periodo sovietico, che leggeva la sofferenza come discrasia ed eccessiva enfasi collocata sull’individuo rispetto alla proiezione collettiva e sociale che ogni bravo cittadino doveva possedere come requisito, e la classificazione dello stress e del trauma come disturbi di personalità e sofferenza individuale: in entrambi i casi, viene ignorato il ruolo dei fattori socio-politici:
When stress and trauma are defined as rooted in the individual, this detracts from attention to larger societal forces endemic to Ukraine, such as extreme poverty, lack of access to resources and [for Ukraine] threat of cancer from radiation related exposures (Yankovskyy 2013, 101).
L’esperienza traumatica viene quindi normalizzata – tutte le donne che emi-grano ne soffrono – produce maladattamenti comportamentali negli individui e nelle famiglie: «caution, even paranoia, guilt and the inability to be free, dis-simulation, splitting, self discontinuity, intergenerational emptiness, and de-spair» (Lindy, Lofton 2001, xvi).
Inoltre:
A disability specialist who is also a psychiatrist goes into more detail regarding the applicability of the ICD-10. He feels it is better than the diagnostic tools available during the Soviet Union, which he describes as being based on a “nosologic ap-proach.” As noted earlier, this type of approach is etiological, meaning it is based on the cause of the illness as opposed to the Western approach, reflected in the ICD-10, which is based on “symptoms.” He says the switch to the ICD-10 has been the most difficult for older doctors; however, he feels that symptom-based diagnosis is better in the long run for patients, especially since “cause” is not always known» (Yankovskyy 2013, 107).
A quale paradigma appartiene, allora, la Sindrome Italia? Essa affonda nel paradigma nosologico pavloviano in quanto richiama una causa definita, la migrazione, tuttavia è il cluster dei sintomi ‘persistenti’ a definirla. Nella sua forma di chimera, innesta le etichette diagnostiche attribuite alla sofferenza individuale – come psicosi, schizofrenia, depressione – nel corpo di un
discor-so discor-sociale «che fa dunque delirare il pensiero dominante intorno al femminile e al materno» (Taliani 2017, 244). Un femminile e un materno che nella Roma-nia post-Ceauşescu, assumono il volto di donne maladattate, che condividono l’esperienza della migrazione e l’illusione, oltre al desiderio, di essere moderne:
“Being modern” also means to be able to build oneself according to a personal project; to think of the specific being one wants to be (and build); and to use – as Henrietta Moore puts it – “the shared resources to construct and embellish [one’s] own and collective fantasies” (Moore 2011, 127, in Vacchiano 2018, 91).
E condividono l’illusione di raggiungere alcune modalità di consumo e un differente stile di vita: «Consumption is indisputably intertwined with the cap-italist form of being in the world. However, it constitutes not only a marker of social difference, but also a powerful form of subjectivation, especially for younger generations» (Vacchiano 2018, 91). Queste forme di soggettivazione sono percepite come potenzialmente distruttive, soprattutto quando le donne diventano le principal breadwinners in famiglia, lasciando indietro coniugi e figli. Abbandonare i propri figli diventa la colpa peggiore da attribuire alle madri, e come contrappasso i loro figli si ammalano.
La scena che viene evocata dalla diffusione della Sindrome Italia evoca un vecchio paradigma, quello della connessione tra migrazione e malattie mentali. Un paradigma che si presenta nella duplice veste della nostalgia-malattia e del migrante (implicitamente) folle.
Sulla storia della nostalgia-malattia, una nostalgia così forte per quanto si è la-sciato in patria o per la persona migrata da far ammalare, Roberto Beneduce (1998) ha scritto, alla fine di un lungo esame storico e clinico che prende avvio dalla Heimweh sino alle interpretazioni legate agli attuali scenari migratori:
Non esiste la nostalgia-malattia, e anzi bene sarebbe sbarazzarsi una volta per tutte dell’idea che vuole universale o inevitabile questa esperienza: esistono tuttavia, quasi ne sia il loro spessore, singolari legami con il paese e gli affetti lontani, ed è lungo tali legami che corre l’insieme contraddittorio e complesso di sentimenti, di vissuti e di rammarico che assommiamo in questa nozione spuria che è appunto la ‘nostalgia’. Se dolore nasce, esso nasce dentro questo desiderio di connessioni, dentro la fatica di nuovi ancoraggi emotivi e di ricongiunzione con passaggi impor-tanti della propria esistenza: in essa gioca una parte non piccola anche l’affermazio-ne e la ricerca della propria identità (Bel’affermazio-neduce 1998, 47).
Dagli anni ’80 del Novecento si ritiene che presentare migrazioni e disturbo mentale come collegati rischia di far cadere in trappole diagnostiche, che im-pongono una ridefinizione del problema, riconoscendo, con Frigessi Ca-stelnuovo e Risso, che
malattia mentale e migrazione sono appaiate e giustapposte dalla conflittualità e dall’ambivalenza, esistenziale e sociale, che le sottende, dalla loro funzionalità ri-spetto alle regole che stabiliscono le leggi della produzione, del lavoro, dell’emargi-nazione (Frigessi Castelnuovo, Risso 1982, 85).
Non pochi studiosi avevano cercato il motivo, la natura oscura dell’emigra-zione all’interno di un nucleo psico-patologico che muoveva a partire: basti citare lo straniero folle di M.H. Ranney (1850), l’alienato viaggiatore o migran-te di Achille-Louis Foville (1875), l’emigranmigran-te alienato di Louis Mann (1875). Collignon (1990-1991) notava come si fosse passati in modo quasi impercetti-bile da ‘si emigra perché si è folli’ (ipotesi della selezione negativa) a ‘si diventa folli perché si emigra’ (ipotesi del goal striving stress che slatentizza la vulnera-bilità individuale eventualmente presente).
L’ipotesi che fa da ponte tra questi due modelli è: ‘si emigra perché si è in-quieti, disadattati rispetto alla propria cultura e società e ci si ammala perché non ci si adatta abbastanza alla nuova società’. Di rado, con questa ipotesi, si individuano i conflitti sociali – economici, etnici, di genere – come aspetti de-cisivi per comprendere l’esperienza individuale e collettiva della migrazione in tutta la sua complessità. Di rado, inoltre, si è in grado di collocare la nostalgia di cui parlano gli immigrati entro le vicissitudini quotidiane che attraversano la loro esistenza, scavano il corpo e la mente, cambiano l’identità. Più spesso la nostalgia non è solo lasciarsi andare ai ricordi, piuttosto è una reazione ostina-ta (Beneduce 1998, 48) al nuovo ambiente di viostina-ta o a legami che si costruiscono con non poche rinunce, la forma estrema per pensare a una possibilità di fuga che attenua la durezza del quotidiano, e riporta a un tempo passato. La nostal-gia non è tra chi emigra e il suo passato, dentro a una interiorità solipsistica, quanto piuttosto fra chi emigra e il suo attuale contesto di vita, non meno che
fra chi emigra e il suo passato affettivo e simbolico (la famiglia, il gruppo, il
villaggio). Per questo Ana (vedi infra) è contenta di essere tornata, anche se tutta la sua famiglia è rimasta in Italia. Perché tornare, andando a vivere con l’anziana madre, è per stato per lei il modo di rinsaldare un legame con il pas-sato con precise gerarchie affettive necessarie per il mantenimento della sua integrità psichica.
Al centro del sistema produttivo italiano vi è la stretta connessione tra precarizzazione del lavoro e ruolo dell’economia informale, alla quale si salda molto spesso l’immigrazione irregolare. Il nesso tra incertezza giuridico-eco-nomica degli immigrati e loro ruolo nel sistema produttivo è stato messo in luce da Terray (1999), che ha parlato al proposito di «delocalizzazione sul luogo» poiché il lavoro clandestino, endemico in determinati settori come l’edilizia, l’agricoltura, o l’assistenza, presenta per i datori tutti i vantaggi
della delocalizzazione senza comportarne i costi. Si tratta di una nuova gestio-ne della produziogestio-ne: i lavoratori illegali non sono sottoposti al diritto nazio-nale, rispondono unicamente alle dinamiche di offerta e domanda di forza lavoro, e i costi sociali sono nulli per il datore e bassi per la collettività in quanto il clandestino si appoggia più sporadicamente ai servizi socio-assisten-ziali del paese di arrivo (Cingolani 2009, 49-50), come documenta bene anche Marco Fontana, quando menziona come i rapporti con il curante in Romania vengono mantenuti dalle persone emigrate in Italia. Non solo: la carriera di badante andrebbe indagata su un più lungo periodo, perché non è un destino, ma molto spesso il primo passo per uscire dalla Romania e potere, se possibi-le, guardare a nuove opportunità di lavoro. Esaminato dal punto di vista di un modello di mobilità ascendente, le donne possono accettare un lavoro come coresidenti solo come prima occasione, per spostare poi la propria ri-cerca di occupazione altrove, nell’ambito della ristorazione, degli ospedali, in sartorie o altre imprese di confezione. Oppure, ritornare in Romania per av-viare piccole imprese. O anche, insistere sul lavoro come badanti proprio perché le protegge, oltre che a sequestrarle, entro spazi limitati, che possono controllare, che non richiedono un eccessivo dispendio di energie socializzan-ti e compesocializzan-tisocializzan-tive, che permettono, in qualche modo, di celare una parte di sé dietro l’attività di assistenza. Il focus dell’attenzione non sei tu, ma chi accu-disci. Non tutti gli/le autori/trici che si occupano di migrazioni femminili concordano sugli aspetti emancipatori della migrazione. Ai poli opposti tro-viamo Vlase (2013) che attribuisce un valore emancipatorio alla migrazione e Salazar Parreñas (2001) che al contrario sottolinea come il lavoro domestico e assistenziale migrante corrisponda ad una nuova forma di sfruttamento tra donne.
La mobilità occupazionale è prevalentemente prerogativa delle donne più giovani, soprattutto di coloro che riescono ad emigrare senza lasciare dietro di sé coniugi e figli. In Rumeni d’Italia (2009), Pietro Cingolani cita molte affer-mazioni di donne e uomini in Romania che dividono le donne migranti in due classi di età.
La prima, quella delle donne sposate e ‘buone’ madri, che sacrificano se stesse per il futuro dei propri figli, non mettono in questione l’ordine morale o le gerarchie di genere date per scontate (Issoupova 2000) e continuano a com-piere la loro funzione transnazionalmente legittimando se stesse con l’invio di denaro, beni e regali ai propri figli – la ‘donna-bancomat’ citata da Leogrande e la mercificazione dell’affetto (commodification of love), menzionata da Par-reñas, che peraltro risponde alle dinamiche complesse e ambivalenti delle aspettative reciproche tra chi parte e chi resta. Le aspettative reciproche posso-no infatti essere disarmoniche o entrare in conflitto alimentando i timori della
famiglia, e quelle idee di abbandono e di morte che possono essere proiettate su colui che si separa, come abbiamo visto nel caso dei left behind.
La seconda classe di donne è costituita dalle giovani donne non sposate, che emigrano da sole in Italia, alle quali viene generalmente attribuito un compor-tamento licenzioso e guadagni illeciti.
Nel contributo su chi resta in patria abbiamo esaminato quanta retorica sulla sofferenza sia stata diffusa attraverso il circuito mediatico in Romania sui figli rimasti soli e i genitori rimasti soli. Ad essa, si è accompagnata in crescen-do negli ultimi anni la sofferenza delle crescen-donne che tornano ammalate di Sindro-me Italia. Secondo i Sindro-media ruSindro-meni, seguiti da quelli italiani, esiste una epidemia incontenibile di sofferenti, con migliaia e migliaia di casi di donne adulte e di minori. Dai quotidiani rumeni (tra il 2018 e il 2019) rimbalza nella stampa di altri Paesi europei la notizia che le ricoverate al Socola per ‘Sindrome Italia’ sono 3.500. L’Ospedale Socola ha 750 letti; non si tratta quindi di ‘ricoveri’ bensì di ‘ingressi’, ovvero le donne e in generale i pazienti che vengono seguite/i a domicilio si recano a cadenza mensile all’ospedale per ricevere cure e farmaci. Nei periodi di crisi, diverse tra loro vengono anche ricoverate, ma confondere il numero di utenti con il numero delle ricoverate non è solo una distorsione prospettica, serve a creare moral panic intorno alla migrazione delle donne, così come è stato creato nei confronti dei minori.
In un recente servizio televisivo10 («Corriere della Sera», marzo 2019, F. Battistini, F. Giusti) la primaria di psichiatria dell’Ospedale Socola di Iaşi, Petronela Nichita, dichiara che la Sindrome Italia non colpisce solo le donne ma l’intera famiglia, soprattutto i figli. Nel tentativo di far comprendere una sofferenza reale, diffusa, che artiglia il corpo sociale rumeno, un corpo non povero ma impoverito11, il rischio è di non riuscire a mostrare la rete che si distende tra male individuale, condizioni sociali che portano alla migrazione e situazioni lavorative all’estero, tra costi affettivi e sociali delle partenze e opportunità non reperibili in patria. La questione della migrazione femminile, i suoi costi affettivi e sociali, viene quindi ridotta al modello della donna egoi-sta che abbandona i propri figli e i propri affetti, e torna malata, punita per questa colpa.
10 https://www.corriere.it/elezioni-europee/100giorni/romania/Sindrome Italia, nella
clini-ca delle nostre badanti, testo di Francesco Battistini, foto e video di Francesco Giusti/ Prospekt, marzo 2019 (ultimo accesso 27 aprile 2019).
11 Cfr. la lettera della scrittrice rumena Ingrid Beatrice Coman-Prodan in risposta
all’arti-colo di Francesco Battistini, il quale, secondo la scrittrice, mostra Iaşi come una città squal-lida, povera, abitata da una umanità dolente, quando la città non è solo questo, non è povera ma impoverita. Lettera inoltrata il 09 aprile 2019, http://culturaromena.it/%EF%BB%BFsindrome-italia-nella-clinica-delle-nostre-badanti-lettera-aperta-a-francesco-battistini-corriere-della-sera/.
Sayad (2006) ha scritto dei figli degli immigrati come di «mostri sociologi-ci», perché erano loro a far nascere al contrario e a posteriori i loro genitori. Nel caso rumeno qui presentato, diventa evidente come questa nascita al contrario si verifichi nel paese di origine: sono gli orfani bianchi a mettere in evidenza le proprie madri, a farle esistere nell’assenza e nel rimpianto, a motivare il regime di verità che trova nelle donne il coagulo di una economia morale che le stig-matizza e manipola ancora una volta la loro capacità riproduttiva:
Gli studi sulla migrazione non smettono di mostrare infine un altro aspetto. Le donne che non si adattano all’interno delle definizioni culturali dominanti rischiano di diventare assai spesso oggetto di una patologizzazione e di una medicalizzazione che, ancora una volta, sono tanto più frequenti quanto più è debole la loro posizio-ne in termini di classe sociale, condizioposizio-ne lavorativa, apparteposizio-nenza etnica o dell’e-ventuale presenza di disturbi mentali: quanto più questi aspetti concorrono, cioè a fabbricare madri disattente, inadeguate, trascuranti… (Beneduce 2015).
Difficile è per me pensare a una chiusura più adeguata.