Marco Fontana
1. Sindrome Italia: un’archeologia della denominazione
Nel 2015 il Manuale critico di sanità pubblica, curato da Francesco Calamo Specchia, presenta un box (a pagina 271) scritto da Alessandro Leogrande, giornalista e autore di diversi reportages dedicati alle migrazioni rumene in Europa. Il box riprende e amplia uno scritto di Leogrande del 2011, contenuto nella rivista online «Minima & Moralia». Riporto integralmente il testo, che verrà parzialmente ripreso infinite volte da tutti coloro che inizieranno a scri-vere della Sindrome Italia. In esso, così viene presentata l’archeologia di questa recente etichetta diagnostica e le sue caratteristiche:
3 Di queste richieste, ho accolto quelle di: Romina Vinci (giugno 2018), giornalista free lance,
per il documentario RSI Radiotelevisione Svizzera in due puntate Mamma ti legherò al letto, https://www.rsi.ch/news/oltre-la-news/Mamma-ti-legherò-al-letto-11324100.html e Anche
la badante si ammala,
https://www.rsi.ch/news/oltre-la-news/Anche-la-badante-si-amma-la-11338830.html (Romina Vinci ha anche citato la stessa intervista nell’articolo Why
Roma-nian migrant women suffer from ‘Italy syndrome’. RomaRoma-nians care for the elderly in Italy but long hours, loneliness and mistreatment lead to mental health problems, Al Jazeera News, 13
febbraio 2019, https://www.aljazeera.com/indepth/features/romanian-migrant-women-suf-fer-italy-syndrome-190212095729357.html); BBC World Service Radio, Newshour rilasciata il 14 febbraio 2019; Francesco Battistini, Sindrome Italia, nella clinica delle nostre badanti, «Corriere della Sera», https://www.corriere.it/elezioni-europee/100giorni/romania/, 7 mar-zo 2019; Roberto Lugones, RSI Radio Televisione Svizzera, rilasciata il 18 marmar-zo 2019.
Una nuova forma di depressione si aggira per l’Europa: si chiama “Sindrome italia-na”. Non riguarda la schizofrenia della finanza o il pericolo di una nuova recessio-ne. La sindrome che prende il nome dal Belpaese colpisce i lavoratori, o meglio le lavoratrici, più invisibili: le badanti provenienti dall’Est. I primi ad accorgersene sono stati due psichiatri di Ivano-Frankivs’k, città di duecentomila abitanti nell’U-craina occidentale, profondamente segnata dalle tragedie del Novecento. Nel 2005, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych intuiscono che due donne in cura nel loro re-parto presentano un quadro clinico diverso dagli altri. Sintomi che hanno imparato a riconoscere in anni di attività (cattivo umore, tristezza persistente, perdita di peso, inappetenza, insonnia, stanchezza, e fantasie suicide) si innestano su una frattura del tutto nuova, che mescola l’affievolirsi del senso di maternità con una profonda solitudine e una radicale scissione identitaria. Quelle giovani madri non sanno più a quale famiglia, a quale parte dell’Europa appartengano, come se un’antica armo-nia si fosse all’improvviso spezzata.
Kiselyov e Faifrych capiscono che il “male oscuro” ha chiare origini sociali. Le due pazienti sono state badanti all’estero, hanno lavorato a lungo come donne di com-pagnia, infermiere, assistenti tuttofare nelle case italiane. Lo hanno fatto per anni, ventoquattr’ore al giorno, salvo che per una breve pausa nella domenica pomerig-gio. Sono state lontane dalla loro casa, hanno lasciato soli i loro figli per accudire anziani altrettanto soli dall’altra parte del continente. Hanno retto sulle proprie fragili spalle due delicate trasformazioni: da una parte, l’invecchiamento dell’Italia e lo sgretolamento delle sue famiglie; dall’altra – attraverso le loro rimesse, spesso unica fonte di reddito per le loro famiglie lasciate lì – la tumultuosa transizione dei paesi orientali. Sono rimaste a lungo sole, molto sole, senza che nessuno potesse percepire il loro stress crescente. E alla fine non ce l’hanno fatta più, sono crollate. I due psichiatri comprendono subito che le due pazienti non sono un caso isolato. Tante altre donne versano nelle stesse condizioni. E allora coniano il termine “Sin-drome italiana”, dal nome del paese più “badantizzato” dell’Europa occidentale e forse del mondo. Le date in questa storia sono importanti.
Kiselyov e Faifrych diagnosticano i primi casi nel 2005, appena tre anni dopo la grande sanatoria del 2002 che permette di regolarizzare decine di migliaia di lavo-ratrici domestiche. Non ci vuole molto a capire che la “Sindrome italiana” non ri-guarda solo le donne ucraine. Colpisce anche moldave, rumene, russe, polacche… cioè buona parte delle lavoratrici che hanno finito per costituire l’ossatura centrale della “gestione” nostrana degli anziani non-autosufficienti. In Romania alcuni psi-chiatri iniziano a studiare l’altra faccia della medaglia, i figli lasciati nei paesi di partenza. Ed estendono la nuova locuzione “Sindrome italiana” anche a loro. Nel 2010 Mihaela Ghircoias, psichiatra presso l’ospedale pediatrico Santa Maria di Iasi, in Romania, si accorge che su circa mille bambini curati nel suo reparto, la metà ha un genitore (in particolare la madre) emigrata all’estero (in particolare in Italia) per lavorare (in particolare come badante). Alcuni hanno tentato il suicidio. Ecco il caso tipo: un ragazzino di 11 anni vive solo con il padre che non lavora, mentre la madre assiste un’anziana in Italia. Va bene a scuola, ha ottimi voti, ma è sempre silenzioso, la tristezza per la lontananza della madre gli scava dentro. Non ne parla con nessuno, apparentemente tutto procede per il meglio, ma in realtà il male oscu-ro lo logora. E – a soli 11 anni – tenta il suicidio.
Come si cura questo male europeo, che sembra quasi seguire i sommovimenti eco-nomici (e geopolitici) del nuovo mercato globale del lavoro? Spesso basta ricom-porre il nucleo famigliare, e di colpo tutto il malessere svanisce. Ma altre volte le situazioni sono più complicate. Quando ritornano nel paese di origine, molte donne si ritrovano in un nuovo limbo. Si ritrovano in un paese che non considerano più come proprio; e, nel frattempo, i figli hanno definitivamente voltato loro le spalle. Maurizio Vescovi, medico a Parma, è uno dei primi ad aver riscontrato in Italia questa nuova forma di depressione. Almeno il 25% delle donne dell’Est incontrate nel suo studio ne soffre, tanto che ha segnalato il caso all’interno dell’Italian Study on Depression, una ricerca condotta dall’Istituto Mario Negri Sud di prossima pubblicazione. «Due costanti», sostiene Vescovi, «sembrano ritornare. Spesso que-ste donne lasciano un lavoro qualificato come insegnante, medico, ingegnere, per venire a svolgere mansioni dequalificate, per le quali non sono state formate. Inol-tre, col tempo, si percepiscono come donne-bancomat: il solo rapporto con la fami-glia consiste nell’inviar loro dei soldi. Diventano l’unica fonte di reddito». Svitlana Kovalska, presidente dell’Associazione Donne Ucraine Lavoratrici in Italia, ha le idee chiare a riguardo: «Questo stress, in forme più o meno gravi, l’abbiamo prova-to tutte». Queste donne hanno solo bisogno di rompere una gabbia di solitudine. Non è normale lavorare 24 ore al giorno, assorbendo su di sé i problemi di una nuova famiglia, dimenticando la propria.
La “Sindrome italiana” si cura con il calore, con il lavoro di comunità, elaborando nuove forme di auto-aiuto: «Ricordo una donna che stava molto male. Le chiesi di raccontarmi della sua vita. Iniziò a farlo, ma dopo pochi minuti scoppiò in un lun-ghissimo pianto. Quando si calmò, mi disse che erano dieci anni che non piangeva, in Italia non l’aveva mai fatto… Fece un lungo respiro, solo allora si sentì meglio». L’ansia a volte scompare così. Ne è convinta anche Tatiana Nogailic, presidente di AssoMoldave a Roma. L’emigrazione di massa non si fermerà, dice, perché le ba-danti servono come il pane. È irrealistico pensare che il ritorno in patria sia l’unica soluzione, serve una vita migliore qui. «Le badanti devono essere considerate don-ne, non macchine. Anche qui, anche in Italia. Sono loro i soggetti da privilegiare quando si progettano interventi per l’integrazione. Sono loro le figure chiave per la mediazione tra mondi e culture» (Leogrande 2011).
Tentare di articolare un’archeologia della Sindrome Italia è difficile. Innan-zitutto, pur trascorrendo molte ore di ricerca nelle banche dati mediche, non è possibile rintracciare nessuna pubblicazione scientifica dei due psichiatri citati, Andriy Kiselyov e Anatolij Faifrych. I loro nomi sono riportati in numerosi articoli online a partire dal 2009, ma sembrano essere totalmente assenti nella pubblicistica scientifica internazionale. L’unica citazione dei due autori presen-te nelle banche dati scientifiche compare grazie all’articolo di Dino Burtini (2015), psicologo, psicoterapeuta e antropologo, che riprende frasi chiaramen-te espunchiaramen-te da Leogrande, il quale però non viene menzionato. Nel mio chiaramen- tentati-vo di ricostruzione date e numeri rivestono molta importanza, e richiedono tempo e pazienza per incrociare il rincorrersi di pagine in rete, che mostrano
una epidemia incontenibile di sofferenti, con migliaia e migliaia di casi di don-ne adulte e di minori, con la letteratura scientifica esistente e con altre fonti. Neppure Marco Fontana, nei suoi incontri con gli psichiatri rumeni (si veda il suo saggio sull’argomento in questo volume) ottiene notizie sulla sindrome, che gli specialisti dicono di non conoscere. Ciò che sembra legittimare ed estende-re la denominazione di Sindrome Italia è la rilevazione che l’Italia è meta di
lavoro di cura anche per moldave, rumene, russe, polacche4… cioè buona
parte delle lavoratrici che hanno finito per costituire l’ossatura centrale del la-voro di cura in Italia per gli anziani non-autosufficienti.
Tutta la documentazione raccolta, comunque, a partire dal testo di Leogran-de, conferma la data del 2005 come momento di ‘invenzione’ della Sindrome. Tuttavia, evidentemente non per via scientifica, la denominazione si diffonde velocemente attraverso la rete. Soffermiamoci un momento sul testo di Leo-grande, che riassume in sé lo spettro degli argomenti compresi entro la Sindro-me Italia:
– I due psichiatri ucraini sono persuasi dell’evidenza di un nuovo quadro sindromico, con la relativa descrizione di sintomi, durata delle manifestazio-ni, eziologia.
– I sintomi che hanno appreso a riconoscere in anni di attività, e che richia-mano quelli della depressione, si innestano su «una frattura del tutto nuova, che unisce l’affievolirsi del senso di maternità» a una «profonda solitudine» e una «radicale scissione identitaria»: dove il senso di maternità viene pre-sentato come universale, moralmente definito, normativo e naturalizzato. La radicale scissione identitaria viene imputata a non sapere più «a quale fami-glia, a quale parte dell’Europa appartengano, come se un’antica armonia si fosse all’improvviso spezzata». In questa frase troviamo in verità una triplice frattura, quella rispetto a un modello naturalizzato di maternità, quella rela-tiva all’appartenenza e quella rispetto a una antica armonia, non meglio spiegata e ancor meno collocata in qualche periodo storico.
4 Ad esempio, per la Polonia cfr.
https://polskiobserwator.de/aktualnosci/depresja-polskich-opiekunek-czyli-ciemna-strona-emigracji/ dell’08 febbraio 2017 (ultimo accesso 12 maggio 2018): «La psicologa Antonina Pieprzyk ha anche incontrato la depressione dei/delle
care-givers, e sottolinea come essi/e raramente cerchino l’aiuto di un medico o di uno psicologo
mentre sono ancora all’estero. […] Pieprzyk nota che queste donne pensano di essere “coraggiose”, che i loro figli, mariti e parenti non riescano a scoprire quanto sia difficile per loro. Non vogliono ammetterlo nemmeno di fronte a se stesse, perché per un lavoro come quello dell’assistenza per 24 ore di anziani e di malati, è necessaria una forza quasi sovru-mana. E cercano questa forza in sé, costringendosi a una serie di faticosi meccanismi di difesa, che, in alcuni casi, esitano in esaurimento nervoso, depressione, malattie psicosoma-tiche o dipendenze».
– Il tipo e le condizioni di lavoro come badanti (spesso incapsulate, talvolta segregate) in Italia, «il paese più badantizzato d’Europa occidentale». Ma il logoramento legato alle condizioni di lavoro passa in secondo piano ri-spetto all’individualizzazione del disagio – la «solitudine» – e riri-spetto alle politiche di welfare italiane che spingono a cercare questa soluzione. Infine, non va trascurato il fatto che alcune partono già sofferenti, come viene di-chiarato in due interviste raccolte al Socola e dai medici psichiatri intervi-stati da Marco Fontana.
– Presentata come una «nuova forma di depressione, e insieme come ansia, tuttaviasi cura con il calore, con il lavoro di comunità, elaborando nuove forme di auto-aiuto», nonostante i sintomi persistenti citati dai due psichia-tri ucraini, refrattari a ogni cura. «Spesso basta ricomporre il nucleo fami-liare, e di colpo tutto il malessere svanisce», quando il nucleo familiare ap-pare spesso formato da madri rimaste sole e i loro figli, il che è un motore infinito di mobilità, sino a quando vanno tenute in considerazione le esigen-ze dei figli.
– Per seguire una possibilità di lavoro, le donne hanno lasciato da soli i loro figli, i quali per la lontananza dei genitori e soprattutto della madre, a loro volta si ammalano, arrivando a tentare il suicidio, avvalorando un nesso nostalgia-malattia.
– La narrazione che si sviluppa intorno alla migrazione delle donne le rende sì visibili, ma non come soggetti migranti che agentivamente cercano una soluzione alle difficoltà/precarietà/necessità economiche, che sviluppano competenze con maggiore o minore successo del percorso migratorio; piut-tosto come figure fragili, vulnerabili, insicure, depresse, ansiose. Il processo trasformativo della soggettività legato alla migrazione viene visto solamente attraverso la lente della vulnerabilità di genere, e invera, rende autentica questa vulnerabilità.
Quindi, la nascita della Sindrome Italia è legata alla scoperta di trovarsi di fronte a un quadro clinico diverso dagli altri, per ragioni cliniche e per comuni cause sociali – la migrazione in Italia, il tipo di lavoro e le pessime condizioni in cui viene svolto. Tra le «psichiatre» citate da Leogrande, troviamo Mihaela Ghircoias, in realtà psicologa infantile presso l’Ospedale Pediatrico Santa Ma-ria di Iaşi. Secondo lo scritto, Ghircoias constata, nel 2010, che su circa mille bambini curati nel suo dipartimento – ma non sono in grado di verificare l’at-tendibilità delle cifre –, la metà ha un genitore (in particolare la madre) emigra-to all’estero, in particolare in Italia, per lavorare. Ma Mihaela Ghircoias, nelle numerose sue interviste rintracciabili online, non suggerisce che esistano con-nessioni biunivoche tra Sindrome Italia e minori, o tra minori left behind e ri-schio suicidario: la sua attenzione è rivolta piuttosto al disagio scolastico di
bambini e adolescenti, che può aggravarsi nel caso di assenza dei genitori. I ti-toli che sollecitano un moral panic nei confronti della Sindrome Italia estesa ai minori sono quindi già diffusi nel 2011. Eccone un esempio, dalla «Gazeta românească» del 13 giugno 2011, con un titolo ‘strillante’, Depressione,
emicra-nia, gastrite, diabete e suicidio: ecco la “Sindrome Italia”:
Gli effetti della separazione dei genitori sono devastanti per i bambini rimasti nel paese: emicranie, dolori di stomaco, depressione, in alcuni casi persino il diabete – sintomi ai quali medici e psicologi hanno già dato il loro nome: “Sindrome italiana”. […] Gli psicologi sostengono che l’80% dei bambini lasciati alle cure di parenti vi-vono un lutto grave, semplicemente perché amano i loro genitori. La depressione che passa inosservata può portare i bambini a desiderare la morte5.
Tra il 2008 e il 2014 la notizia della sindrome Italia rimbalza da un quotidia-no online e all’altro, a volte ripubblicando brani dell’articolo di Leogrande, altre volte collegando in modo più stringente il disagio con le condizioni di clandestinità, che vedono accomunate donne moldave, rumene, ucraine, come in questo articolo di Laura Delsere (Ad Est è ‘Sindrome Italia’, il male oscuro
dei clandestini e dei figli dei migranti), nel quale, inoltre, da nuova forma di depressione la Sindrome Italia diventa un complesso di malattie mentali
invali-danti e una forma depressiva acuta (2009):
Non essere in regola può far ammalare l’anima. Non significa solo non avere acces-so ai servizi, né poter affittare una casa, “ma sentirsi perseguitati e spiati – chiarisce Tatiana Nogailic di Assomoldave, che si è occupata a fondo di questo tema. Non si esce per mesi dalla casa in cui si lavora perché una leggerezza può essere fatale, e si è costretti all’isolamento per la paura di essere intercettati dalle forze dell’ordine. In una parola, si perde il contatto con la realtà. Mi auguro che non accada anche ai moldavi di dover pagare lo stesso prezzo di molti lavoratori romeni e filippini, che nei loro Paesi devono essere curati dalla ‘sindrome Italia’. È così che viene indicata dai medici questo complesso di malattie mentali invalidanti, con illusioni di perse-cuzioni, di maltrattamenti ed ossessioni ricollegabili alle attività lavorative svolte in Italia. “Conosco diversi connazionali che per l’abitudine al timore in Italia, perfino al rientro in Moldova per le feste, impallidiscono alla vista di un poliziotto”, aggiun-ge la Nogailic. Ma la “sindrome Italia” ha anche una declinazione ulteriore in pa-tria. In Moldova per ora non ha colpito gli adulti come in Romania, dove lo scorso Natale, ripartiti i migranti dopo la momentanea riunione familiare per le feste, ha generato atti di autolesionismo o tentativi di suicidio, in numero tale da attirare
5
https://www.gazetaromaneasca.com/observator/prim-plan/depresie-migrene-gastrite-diabet-i-sinucidere-iat-sindromul-italia-video/, «Gazeta românească», 13 giugno 2011 (ulti-mo accesso 20 febbraio 2019), traduzione dell’autrice.
l’attenzione della stampa. Piuttosto tocca in massa i minori figli di immigrati all’e-stero, rimasti soli in Moldova, spesso in una casa vuota, o con nonni troppo anziani per occuparsi di loro. “In Moldova non c’è più cerniera tra le generazioni, nel Pae-se sono rimasti solo vecchi, bambini e giovanissimi – spiega Tatiana Nogailic. Così i minori forzatamente abbandonati sviluppano una forma depressiva acuta. Anche questa, per i giornali di Chisinau, è ‘sindrome Italia’”. Rende i bambini ansiosi, apatici, spesso aggressivi perché senza più punti di riferimento. “Un’anziana, nono-stante l’affetto, non può supplire al ruolo di genitore, né spiegare ai minori un mondo che cambia vorticosamente”, confermano altre madri moldave. Nelle regio-ni rurali più della metà dei bambiregio-ni vive solo o con i nonregio-ni. “È un tema che colpisce al cuore la nostra diaspora e il presente nazionale”, secondo la Nogailic, anche perché questi ragazzi sono esposti a rischi crescenti, da un’esistenza come street
children fino alla migrazione precoce.
Una corrispondenza tra Michela Marchetti e lo psichiatra ucraino Anatolij Faifrych (Marchetti 2018) rivela alcuni particolari ulteriori riguardo alla genesi della denominazione ‘Sindrome Italia’. Lo psichiatra scrive di essersi interessa-to alle sofferenze delle donne nella migrazione a seguiinteressa-to dell’inviinteressa-to, da parte del collega psichiatra Andriy Kiseliov, a visionare due casi resistenti ai trattamenti psichiatrici. Nello scambio di posta elettronica, Michela Marchetti chiede a Faifrych le ragioni che hanno portato i due colleghi a qualificare la supposta sindrome come ‘italiana’:
We have to better explain the term “Italian syndrom” which is very controversial. Do immigrants to other countries face the same problems that they have in Italy? Yes, they do. Why then do we use the term “Italian syndrom” and are there any special “Italian” traits? My opinion is that, first of all, the difference is more quan-titive6 – a lot of Ukrainian and Romanian women have been working in Italy as caregivers for eldery people. In other countries, such as Germany, Portugal, Poland and Anglosaxon world they mostly work as cleaners, and with other tasks because in other cultural traditions caregiving for older people is more institutionalized. Very often in Italy these women have been living with their employers and their elders in one house, so that they almost do not have private space and private time.
It is somewhat an Italian tradition, it probably has something to do with other nation-al traits – to live in big multigenerationnation-al families7. This kind of setting is compara-tively rare in other cultures» (Anatolij Faifrych, psichiatra, Ucraina; Marchetti 2018, 135).
È interessante notare come un effetto del cambiamento demografico e so-ciale italiano, che ha visto la dissoluzione delle famiglie estese, l’allungamento 6 Si è preferito mantenere la dizione inglese della mail senza correzioni.
della vita media e la neolocalità delle nuove coppie, venga interpretato dallo