• Non ci sono risultati.

Un secondo album di storie

1. Una visita a Butea

Conoscere Felicia significa avere la fortuna di accompagnarla a fare qualche passo nella sua quotidianità professionale come psicologa e psicoterapeuta, della quale fa parte una intensa attività di volontariato. Felicia presta la sua competenza in diverse istituzioni cattoliche che ospitano ragazzi e ragazze con i genitori all’estero o seguiti dalla Protezione dell’infanzia, come la casa-fami-glia delle Suore missionarie ‘Surolilor Misionarie ale Patimilor Iui Isus’, diretta

da suor Elisabetta Barolo, che accoglie una ventina di giovani tra i 4 e i 17 anni. La missione gode del sostegno di un’ampia rete di volontari e benefattori ita-liani, che nel tempo hanno finanziato la costruzione della casa-famiglia, il rifa-cimento della vicina chiesa e la costruzione di una casa per anziani.

Felicia arriva seria all’appuntamento in Plaţa Uniri, in centro a Iaşi: le è ar-rivata da poco la notizia che un ragazzo, ex ospite della casa-famiglia che ha lasciato da un paio di anni per aver raggiunto la maggiore età, si è suicidato. Il giorno seguente il nostro appuntamento è previsto il funerale, quindi concor-diamo con Felicia di rimandare il nostro arrivo a Butea al pomeriggio: in tanti della casa-famiglia intendono parteciparvi.

Così il giorno dopo, nel primo pomeriggio, si parte. Butea dista una sessan-tina di chilometri da Iaşi verso il confine con la Moldova. Attraversiamo una vasta campagna ondulata, un bel paesaggio in gran parte incolto. All’incrocio con la statale, offriamo un passaggio a una giovane donna: da lì in poi, per circa due chilometri, non ci sono mezzi pubblici per raggiungere il paese, in nessuna stagione.

Le suore sono arrivate a Butea nel 1999. Nei primi anni seguivano l’assisten-za ai bambini e agli anziani al loro domicilio. Poi, viste le necessità del posto, parroci e sindaci hanno iniziato a rivolgersi al gruppo di suore per cercare aiuto per quei minori che avevano grandi difficoltà in ambito familiare. Quindi,

in accordo con la Protezione dell’Infanzia di Iaşi, nel 2004 è stata aperta la casa-famiglia, prima con dieci in seguito approvata per venti minori. Al mo-mento della nostra visita, vi erano ospitati dodici tra ragazze e ragazzi.

L’attività programmata, e concordata con suor Elisabetta e Felicia, è stata la realizzazione di un ‘albero di relazioni’, in cui ragazze e ragazzi avrebbero inse-rito il loro nome, la persona che consideravano più vicina e legata a loro, e via via in posizione più lontana rispetto al proprio nome, altre persone meno signi-ficative.

Lo schema è solitamente usato per costruire alberi genealogici, ma in que-sto caso, considerata la problematicità delle relazioni con i genitori, viene utilizzato affinché i ragazzi vi inscrivano quelle che per loro sono le relazioni più significative. Al gioco partecipano nove ragazze e ragazzi tra i 10 e i 16 anni, dei quali due sono fratello e sorella. Alla fine dell’attività, alla quale se-guono commenti e spiegazioni alle mie domande che li interrogano per cono-scere l’identità dei nomi e delle relazioni, faccio con loro un breve riassunto dei risultati.

Il primo elemento che spicca è che, da parte di tutti i presenti, i genitori sono collocati nella parte più alta dell’albero, in zona periferica. Nelle posizio-ni relazionali più vicine al soggetto sono collegati, anche qui senza variazioposizio-ni individuali, il/la miglior amico/a di ciascuno: per sei su nove si tratta di un altro ospite della struttura, mentre per tre è un ragazzo/a in paese. Seguono, tra le persone considerate più vicine, suor Elisabetta o suor Tarcisia, per le ragazze, e uno dei seminaristi presenti per i ragazzi, in posizione ‘genitoriale’. I più grandi, Aligi (16 anni) e Artemisia1 (14 anni), dopo l’amico/a del cuore, indica-no il e la ‘fidanzato/a’, lei disegnando un gran numero di cuoricini intorindica-no al nome. Aligi prende in giro la sorella Artemisia: in due mesi lei lo ha incontrato tre volte, un po’ poco per definirlo fidanzato, inoltre, dice Aligi, è brutto, viva-cemente contraccambiato da Artemisia che critica la di lui ‘fidanzata’. Aligi, atteggiandosi a uomo di esperienza, oltre che come fratello maggiore, cerca di metterla in guardia dal frequentare ragazzi.

Leggermente più lontani troviamo zii e zie materni o paterni, cugini. Ad alcuni, esauriti l’amico del cuore, un adulto della struttura e i genitori, riman-gono ‘foglie’ libere: li invito a metterci altre persone preferite o animali.

1 Ho cambiato i nomi dei presenti, adottando una strategia inversa rispetto a quella

adot-tata da Italo Calvino in Marcovaldo, in cui gli adulti avevano nomi aulici e desueti, mentre i bambini erano presentati con il loro nome reale: qui è a ragazze e ragazzi che viene attribu-ito un nome aulico o desueto.

2. Un secondo album di storie

Quello scritto da Felicia è un breve notebook di storie tratte dalla sua attività professionale con giovani adulti che hanno fatto esperienza dell’emigrazione dei genitori e/o sperimentato cicli di emigrazione e ritorno. Il mio rapido al-bum comprende invece le narrazioni dei ragazzi durante l’attività e degli adul-ti, che arricchiscono di dettagli alcune storie.

Così apprendo che i due fratelli, Aligi e Artemisia, sono entrati in Romania dall’Austria senza documenti. I genitori, Roma, sono in carcere rispettivamente una in Italia e l’altro in Austria. Rimasti soli, i ragazzi hanno cercato di raggiun-gere una zia in Romania a piedi, con qualche passaggio in auto, sino a che sono stati fermati dalle autorità rumene e portati prima in un centro di accoglienza, poi affidati alla casa-famiglia di Butea. A volte si recano a trovare una zia in una località vicina. Recentemente, durante una di queste visite, Artemisia scappa e ritorna dopo qualche giorno. Artemisia, appena arrivata in casa-famiglia, mani-festava atti di autolesionismo.

Penelope e Medea si indicano reciprocamente come la miglior amica dell’al-tra. Basta vederle insieme per capire quanto sono legate. Penelope a 6 anni ri-mane orfana di entrambi i genitori, e riri-mane a casa con i tre fratelli più grandi, di 11, 14 e 18 anni. A 8 anni Penelope manda avanti la casa, cucina per tutti, fa quello che può. Il fratello più grande è violento, spesso la picchia. Una volta, sferra a Penelope un potente colpo tra il collo e la nuca. Ancora oggi che ha 14 anni, Penelope soffre di mal di testa e indica quel punto come dolorante. Allo-ra, gli altri fratelli le hanno detto che era meglio per il suo bene se si allontana-va da casa. È stata accolta a Butea.

Il padre di Regina è stato ucciso in una rissa. La madre si è trovata da sola con tre figli, senza un lavoro che le consentisse di mantenerli.

Medea è stata lasciata a Butea dai genitori quando aveva 2 anni. I genitori, dopo un periodo di lavoro all’estero, avrebbero dovuto ritornare a prenderla. Medea non li ha più visti e oggi ha 14 anni.

Si fa legame o meglio relatedness (‘relazionalità’) nelle istituzioni e avendo alle spalle una storia difficile? Come Bolotta e Vignato (2017) nel volume col-lettaneo di «Antropologia» da loro curato, quelli che stiamo considerando sono legami che si sviluppano, almeno per una fase significativa della vita, fuori dai legami di filiazione, a volte di parentela, dai quali sono stati allontanati per si-tuazioni drammatiche, violenza o abuso. Il processo di crescita di una agentivi-tà e la costruzione di relazioni significative non si arrestano in questa situazio-ne: bambini e ragazzi sono agenti attivi nell’appropriazione di un campo rela-zionale che comprende i pari, gli adulti dentro e fuori all’istituzione, le possibi-lità di fare nuove conoscenze negli spazi esterni che frequentano, come la

scuola. L’istituzionalizzazione e la molteplicità dei contesti di cura aumentano la loro capacità di creare una parentela fittizia multipla, nello spazio e nel tem-po, con diversi ‘padri’, ‘madri’, ‘fratelli’, ‘sorelle’ (vedi Ana Maria, e i passaggi da un nucleo di sibling alla casa-famiglia, alle vacanze trascorse in Italia in fa-miglie accoglienti, come accade ad altri ospiti della casa e, infine, ad una nuova convivenza con la sorella ed altre coetanee proiettata verso la possibilità di una vita di coppia). Passare attraverso l’esperienza di de-strutturazione/ri-struttu-razione dei legami familiari fa in modo che si sviluppi un discorso critico verso i legami familiari di origine, e questo mette talvolta tali soggetti di fronte alla necessità di sostenere un posizionamento difficile, a volte contraddittorio e conflittuale: essere figli di qualcuno e insieme non esserlo più o solo in parte; essere stati rifiutati e cercare senza soluzione una ragione di appartenenza; es-sere lì per il proprio stesso bene a patto di troncare con il mondo di prima, i suoi spazi e i suoi tempi.

Inoltre, questa relazionalità è politicamente informata: il contesto di Butea è marginale e povero, e questo aspetto non può essere considerato separata-mente dalle storie di questi ragazzi. Dei 5.000 abitanti, almeno 1.000 sono all’estero per lavoro. Nel 2018 i ragazzi presenti nella casa-famiglia proveniva-no da situazioni di povertà o violenza domestica; in anni passati, soproveniva-no stati ac-colti bambini e adolescenti con genitori all’estero, in una situazione ambigua di semi-abbandono, come Ana Maria e le sue sorelle. Sullo sfondo c’è comunque una rete sociale che si rende conto delle situazioni critiche, che allerta le istitu-zioni, che fa ponte verso le unità di accoglienza.

Crescere nella casa-famiglia è una prova di resilienza verso un contesto par-ticolarmente svantaggiato, per adulti e bambini, una prova che non sempre ha successo, come il suicidio del giovane ex ospite dimostra. Questa resilienza si manifesta anche nel fatto che i bambini non sono più considerati ideologica-mente la ‘ricchezza della nazione’ – come nel periodo di Ceauşescu –, piuttosto costituiscono un nodo problematico: ragazzi che restano a casa senza i genitori, come micro-comunità semi-indipendenti e senza controllo, ragazze che posso-no finire in strada con condotte malavitose, ragazzi e ragazze che assorboposso-no le scarse risorse del welfare per la loro tutela e mantenimento. Sono tutti elemen-ti che li espongono alla selemen-tigmaelemen-tizzazione: poveri, left behind e donne migranelemen-ti sono accomunati dal medesimo panico morale che disvela i cambiamenti della famiglia e della società.

La condizione infantile diventa il prisma attraverso il quale vedere riflessa l’attualità politica rumena, con le sue difficoltà e le sue risorse. Un nodo pro-blematico che ha inoltre aperto, sin dagli inizi degli anni Novanta, la strada a ONG e associazioni religiose straniere – la maggior parte di coloro che si oc-cupano di bambini e adolescenti è cattolica, in un Paese a maggioranza

orto-dossa, che i cattolici criticano per la ridotta presenza nel mondo dell’assistenza. Questo significa crescere in un ambiente sì ideologicamente e religiosamente orientato, eppure aperto a fornire servizi, solidarietà, collaborazione, lavoro all’intera comunità.

Qui politica significa anche affrontare cosa vuol dire (riuscire a) essere geni-tori in questi tempi di crisi, che cosa descrive il modello dominante di famiglia e genitorialità in Romania oggi e quali sfide e crisi presenta. Contemporanea-mente, significa esaminare come i legami biologici possono essere rifabbricati, sia socialmente che affettivamente: i pari offrono supporto psicologico e affet-tivo, i caregivers non biologici che riescono ad offrire affetto e cura possono sostituire i genitori biologici. La genitorialità sussidiaria offerta nella casa-fami-glia dona presenza, affetto, un ambiente confortevole e protetto, e la figura carismatica di suor Elisabetta riesce a far coincidere in un’unica persona sia la visione religiosa della maternità, sia l’affidabilità come leader della comunità.