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Potere di mercato e mercati monopolistic

1.2 Introduzione economica allo studio della concorrenza: la teoria della “Mano Invisibile”

1.2.1 Potere di mercato e mercati monopolistic

Nel precedente paragrafo si è descritta la situazione caratterizzante il mercato perfettamente concorrenziale. Tale situazione viene sovente individuata come l’obiettivo cui tendere, sebbene sia chiaro che le condizioni per la sua completa realizzazione siano quanto meno rare nelle situazioni concrete.

Nella consapevolezza di non poter raggiungere tale situazione ideale (c.d. “first best”), si potrà comunque tendere, attraverso oculati interventi correttivi, al raggiungimento della migliore alternativa (c.d. “second best”) e dunque ad una situazione quanto maggiormente possibile vicina a quella ottimale63. Identificare il second best, nonché individuare gli interventi

62 Cfr. M. MOTTA, M. POLO, “Antitrust”, 2004, pag. 54

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necessari per conseguirlo, è l’obiettivo che si pone l’analisi economica del diritto.

Vi sono una serie di circostanze che impediscono alla “mano invisibile” di adempiere alla sua missione, impedendo alle descritte dinamiche di realizzare un’allocazione efficiente delle risorse 64 . La moderna

microeconomia ha raccolto tali circostanze in una serie di categorie, denominate

market failures

, fra le quali troviamo le asimmetrie informative, le esternalità e il potere di mercato. Quest’ultimo concetto può essere così descritto:

“Il concetto di potere di mercato […] fa riferimento alla capacità di un’impresa di aumentare in modo profittevole il prezzo al di sopra di un certo livello competitivo (il livello di riferimento). Poiché il più basso prezzo possibile che un’impresa può praticare è uguale al costo marginale di produzione, il potere di mercato è di solito definito in funzione della differenza tra i prezzi praticati da un’impresa e i suoi costi marginali di produzione”65.

In particolare, si fa riferimento alla capacità dell’impresa di tenersi sostanzialmente indifferente rispetto alle reazioni dei concorrenti e degli stessi consumatori, riuscendo così a mantenere i prezzi ad un livello elevato, senza subire significative riduzioni nelle vendite. E’ evidente quanto il suddetto concetto risulti collegato alla nozione di posizione

64 Si rilevi che nella prima metà del XX secolo emersero delle teorie economiche, critiche principalmente

nei confronti del neo-classicista Alfred Marshall, che vedevano nel mercato monopolistico, piuttosto che in quello perfettamente concorrenziale, il risultato fisiologico del laissez faire: “laddove l’analisi marshalliana era giunta alla conclusione che (in assenza di situazioni inusuali, che avrebbero potuto generare una situazione di monopolio), il risultato normale del laissez faire basato sulla libera impresa sarebbe stato quello di mercati a struttura caratterizzati da concorrenza perfetta, Chamberlin è invece del parere che la conseguenza più tipica sia quella dei mercati di concorrenza monopolistica”. Semplificando, la ragione risiederebbe nella tendenza ad affermarsi di grandi imprese dotate di costi decrescenti (Piero Sraffa, 1926). [H. LANDRETH, D. C. COLANDER, op. cit., pag. 736 – 739]

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dominante, ed infatti, la detenzione di un elevato potere di mercato66 la

più comune causa della posizione di dominio. Il massimo potere di mercato detenibile da un’impresa, coincide con l’instaurazione di un monopolio sebbene anche tale scenario, al pari del mercato perfettamente concorrenziale, appaia difficilmente verificabile nei mercati reali, o per lo meno sarebbe difficile protrarre tale situazione nel lungo periodo, senza la presenza di riserve legali.

Rispetto ad un mercato perfettamente concorrenziale, il mercato monopolistico porta ad una significativa perdita di benessere, misurabile, come evidenziato nel grafico 1.2, nel mancato raggiungimento dell’efficienza produttiva.

Guardando la curva del ricavo marginale67 dell’impresa monopolista, si

può notare una significativa differenza rispetto al grafico precedente. In effetti, in una situazione di concorrenza perfetta, il beneficio (o ricavo marginale) che un’impresa ottiene dalla vendita di un’unità aggiuntiva del prodotto, corrisponderebbe al prezzo di mercato del bene, mentre dal grafico 1.2 si evince che, per il monopolista, il ricavo marginale ottenibile

66 Andando alla ricerca di un ausilio per l’individuazione del technical market power, l’indice di Lerner

potrebbe fornire dei parametri significativi. Si tratta di una tecnica che “combinando la regola marginalista di massimizzazione del profitto […] con la relazione generale tra prezzo e ricavo marginale” consente di individuare il potere di mercato attraverso un calcolo che tiene conto della differenza fra prezzo di equilibrio e costo marginale, nonché dell’elasticità della domanda rispetto al prezzo. In condizioni di perfetta concorrenza, l’indice sarebbe pari a zero, mentre nel monopolio raggiungere il massimo grado [N. GIOCOLI, op. cit., pag. 42]. L’applicazione dell’indice presenta dei problemi di non facile soluzione. In effetti anche solo la stima del costo marginale dell’impresa non sarebbe semplice, soprattutto con riferimento al calcolo del costo marginale. Sotto quest’aspetto, anche ipotizzando una sincera collaborazione fra Autorità e impresa (la quale in linea di principio non sarebbe facilmente disposta a rilevare il dettaglio dei propri costi), la stima di tale valore potrebbe rivelarsi fuorviante. A tali difficoltà, si potrebbe ovviare attraverso un’ancor più complessa stima dell’elasticità della domanda residuale, ma in tal modo si potrebbe giungere al paradosso di attribuire un non significativo livello di TMP ad un’impresa in sicura posizione dominante, impegnata in una strategia escludente, come avverrebbe per le strategie predatorie [ivi].

67 Il ricavo marginale consiste nella variazione, nel ricavo totale di un’impresa, che viene a determinarsi

in ragione della vendita di un’unità addizionale del prodotto. [R. H. FRANK, B. S. BERNANKE, op.

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dalla vendita di un’unità aggiuntiva, sarebbe necessariamente inferiore al prezzo di mercato.

Grafico 1.2, fonte: elearning.ec.unipi.it

La ragione deve ricercarsi nella natura della curva di domanda. In effetti, in presenza di un’effettiva concorrenza, la curva di domanda sarebbe disegnata come una retta orizzontale, poiché vi sarebbe un numero indefinito di venditori e, ciascun potenziale acquirente, troverebbe indifferente rivolgersi ad uno piuttosto che ad un altro. Evidentemente, nel mercato monopolistico l’acquirente non avrebbe tale possibilità di scelta, essendovi un solo soggetto offerente il bene o servizio in questione. La pendenza negativa rappresenta graficamente la conseguenza di quanto detto, raffigurando quella che viene definita una domanda anelastica68,

ossia fortemente dipendente dalle condizioni praticate dal monopolista.

68 Per elasticità della domanda, si intende la sensibilità di quest’ultima alla variazione del prezzo del

prodotto cui si rivolge. “Formalmente […] è definita come la variazione percentuale della quantità domandata derivante da una variazione di prezzo dell’1%”. Avremo una domanda “elastica” quando la sua elasticità rispetto al prezzo è maggiore di 1, (situazione propria del mercato perfettamente concorrenziale), mentre definiremo domanda “anelastica” quella presentante un’elasticità inferiore ad uno (il limite massimo coincide con il mercato monopolistico). [Ivi, pag. 80]

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Quanto detto, infatti, si ripercuote sull’atteggiamento delle imprese riguardo ai prezzi da praticare. In effetti, nel mercato perfettamente concorrenziale l’impresa sarebbe price-taker in quanto, non potendo in alcun modo influire sulla determinazione del prezzo di mercato, sceglierebbe di “accettare”69 di produrre il proprio output per il prezzo

determinato dall’interazione dei due insiemi di agenti economici. Il price-

taker, praticando tale prezzo di equilibrio, può vendere quante unità

desidera del prodotto in ragione della corrispondenza fra ricavi marginali costanti e il prezzo praticato70. In altre parole, guadagnerà sempre il

necessario per coprire i propri costi.

Il monopolista, al contrario, viene definito

price-setter

, in quanto

suscettibile di determinare il prezzo del prodotto incrementando o riducendo il volume del proprio output71. Nello scegliere quale quantità

collocare nel mercato, il monopolista deve tener conto che, aumentando la produzione, il prezzo richiesto diminuirebbe per la totalità dei beni prodotti, determinando quindi una progressiva riduzione nei propri ricavi marginali. La migliore soluzione che possa prendere, in un’ottica di massimizzazione del proprio profitto, è quella di produrre un output tale per cui il ricavo marginale eguagli il costo marginale72, rapporto che,

tuttavia, non appare soddisfacente per il consumatore, né per il mercato in generale.

69 L’impresa non sarebbe incentivata a praticare un prezzo differente: un prezzo più elevato

determinerebbe un deficit nelle vendite, mentre un prezzo più basso non sarebbe una scelta razionale in un’ottica di massimizzazione del profitto. [Ivi, pag. 201]

70 Tutt’al più dovrà scegliere il livello di output efficiente al fine di massimizzare il profitto in

corrispondenza del prezzo già determinato. In tale prospettiva dovrà tener conto dei propri costi medi e marginali (rispettivamente il costo totale per ogni quantità prodotta diviso per il numero di unità prodotte e l’incremento dei costi totali all’incremento di un’unità del prodotto).

71 Cfr. N. GIOCOLI, “Impresa, concorrenza, regole”, 2009, pag. 41 72 Cfr. R. H. FRANK, B. S. BERNANKE, op. cit., pag. 209

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In effetti:

“[…] la presenza di un monopolio ha dunque due effetti sul benessere sociale: un effetto distributivo ed uno allocativo. L’effetto distributivo riguarda il passaggio di una parte di benessere sociale dalle tasche dei consumatori a quelle dell’impresa […] L’effetto allocativo riguarda invece la distruzione di benessere sociale, causata dalla riduzione degli scambi […] e misurata dalla DWL [deadweight loss].”73

Dunque, la perdita di benessere risultante dall’instaurazione di un monopolio, può leggersi in una duplice ottica: dal punto di vista del consumatore e da quello dell’intera collettività (comprendente il produttore stesso).

Se il grafico 1.2 rappresentasse una situazione di concorrenza effettiva, noteremmo una sostanziale differenza nell’area BAC, che in tal caso rappresenterebbe il surplus del consumatore, ossia il beneficio che l’insieme dei consumatori ricavano dal partecipare al mercato74. Il monopolio,

invece, fa sì che tale valore si riduca al più piccolo triangolo BPmM, causa l’effetto distributivo del benessere a vantaggio del surplus del produttore, rappresentato nell’area PmMAE.

73 Cfr. N. GIOCOLI, op. cit., pag. 38

74 Siamo nella branca della scienza economica denominata Welfare Economics, la quale si occupa di

analizzare come l’allocazione delle risorse influenza il benessere degli agenti. Elementi fondamentali della ricerca sono il consumer surplus, ossia la somma che un compratore sarebbe disposto a pagare per un certo bene meno la somma che egli effettivamente paga, e il producer surplus, consistente nella differenza tra la somma totale incassata dal venditore ed il costo di produzione. La somma dei due dati consente di ottenere il surplus totale, dato che risulterà massimizzato quando si raggiunge l’allocazione efficiente delle risorse. E’ dibattuto se il disvalore del monopolio debba essere ricercato nel minor benessere causato ai consumatori, o piuttosto nella perdita di benessere generale. Adottando un criterio strettamente efficientista (affine dunque all’approccio economico, anche perché più distaccato da un giudizio di valore che esulerebbe dalla natura dell’analisi) dovremmo optare per la seconda alternativa, ricercando quelle soluzioni volte a ridurre l’area di deadweight loss [ibidem]

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In realtà, il risultato del monopolio non si limita a tale passaggio di surplus, determinando altresì una perdita netta di benessere collettivo (dovuta al c.d. effetto allocativo) individuabile nel triangolo MEC. Quest’ultima area, definita

deadweight loss

, rappresenta infatti le transazioni che non hanno

avuto luogo in ragione del prezzo troppo elevato e della minore quantità di output immessa nel mercato75.

Guardando la situazione da un’ottica puramente efficientista, il passaggio di ricchezza dal consumatore al monopolista dovrebbe esser visto con pura indifferenza76: sarebbe la diretta perdita di benessere collettivo,

riscontrabile nell’area di deadweight loss, a rappresentare la vera preoccupazione. Ma il reale effetto negativo del monopolio potrebbe verosimilmente estendersi fino a ricomprendere l’intera area dell’extra- profitto77 (coincidente con il passaggio di benessere dal consumatore al

produttore) in ragione dei c.d. costi di monopolizzazione78 (o rent-seeking

costs), ossia costi improduttivi sostenuti dal monopolista al solo fine di

preservare la propria posizione nel mercato.

75 Si fa riferimento a quegli agenti, collocati dal lato della domanda, che pur avendo un prezzo di riserva

idoneo ad indurli alla transazione, qualora il prezzo fosse determinato nelle suddette logiche dell’economia perfettamente concorrenziale, risulta superiore al prezzo monopolistico (dunque, in base al trade-off fra costi e benefici, non sarebbe per loro conveniente procedere nella transazione). Non a caso, la combinazione socialmente efficiente prezzo/quantità dovrebbe individuarsi nel punto C del grafico mentre, come risulta dal grafico, nel mercato monopolistico si produrrebbe una quantità Qm, inferiore rispetto a quella efficiente (Qpc), ad un prezzo Pm superiore rispetto a quello di equilibrio (che a sua volta si collocherebbe nel punto A). Si potrebbe comunque raggiungere l’efficienza permettendo al monopolista di “discriminare”, ossia vendere il prodotto a prezzi differenti a seconda del valore di riserva degli acquirenti. In realtà, oltre che vietato dalle normative antimonopolistiche, sarebbe difficilmente realizzabile, specie con riferimento ai prodotti destinati al consumatore finale [ivi]

76 Questo perché la ricchezza si sarebbe semplicemente spostata. Si ribadisce che un’analisi di questo

genere non può tener conto di giudizi di valore.

77 Da non confondersi con il profitto c.d. normale, il quale consisterà nel costo opportunità che sopporta

il produttore per realizzare un determinato bene, comprensivo dei costi opportunità e dei costi impliciti.

78 I costi di monopolizzazione consistono, ad esempio, nelle “attività lobbistiche volte a influenzare

decisioni pubbliche verso la creazione di un monopolio legale”. Tali assunti si devono a Posner, il quale giunge a ricondurre nell’area dei costi sociali da monopolizzazione anche l’intera area dell’extra-profitto, sebbene su tale posizione non vi sia pacificità; in tal modo si tradurrebbe in una perdita per il benessere collettivo anche il frutto dell’effetto distributivo [M. MOTTA, M. POLO, op. cit., pag. 49]

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