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A PPENDICE : I P ERSIANI TRA RICEZIONE E MESSA IN SCENA NEI MODERN

MODERNI SPETTACOLI DI SIRACUSA

Queste pagine si pongono l’obiettivo di studiare la ricezione dei Persiani di Eschilo nei moderni spettacoli messi in scena nel teatro greco di Siracusa. Primo oggetto di questa analisi sono dunque tre spettacoli concepiti da tre diversi registi, con i loro rispettivi cast ed équipes, sulla base di due diverse

418 Gruen 227-36.

419 Pind.Ol.I.24, 93, IX.9, Bacchyl.VIII.31 M, Soph.Aj.1292, Ant.824s, Hdt.VII.8, 11. Thuc.I.9.2

riporta invece generalmente che Peleo venisse dall’Asia, e sostiene di averlo saputo da coloro che avevano le fonti più certe sul Peloponneso.

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traduzioni, ma allo stesso tempo accomunati dall’istituzione che ne fu promotrice con le sue caratteristiche e la sua storia: l’Istituto Nazionale del Dramma Antico421. Vista la particolarità del doversi confrontare con tre

spettacoli diversi ma influenzati dalle direttive concettuali e artistiche di un’unica istituzione, questo studio ha finito per delinearsi anche come un’indagine sulla storia della ricezione di questi spettacoli entro questo contesto, e sul variare delle loro modalità di realizzazione nell’arco di cinquant’anni. Per fare l’esempio di un espediente tecnico il cui uso è cambiato drasticamente negli spettacoli siracusani, basterà menzionare l’impiego di microfoni sulla scena: nel 1950 questa pratica sarebbe parsa impensabile, mentre pare esser data per scontata nel 2003 (tredici anni dopo la loro prima utilizzazione a Siracusa, peraltro accolta tutt’altro che di buon grado422) e irrinunciabile oggi, a quasi settant’anni dai Persiani di Guido

Salvini, in cui Vittorio Gassman si distinse fra gli attori anche grazie alla sua voce possente423.

In più di un secolo, come si è accennato, i Persiani sono stati messi in scena a Siracusa tre volte: nel 1950, con regia di Guido Salvini sulla base della traduzione di Ettore Bignone, per essere poi riproposti quarant’anni dopo con la regia di Mario Martone e traduzione di Giusto Monaco e degli allievi della scuola di teatro della Fondazione, testo che sarà poi riutilizzato dal regista Antonio Calenda per il più recente spettacolo del 2003.

421 Colgo l’occasione per specificare che la scrittura dell’appendice di questa tesi di laurea è

stata possibile grazie a un progetto di tirocinio avviato dal Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa con la Fondazione INDA di Siracusa, presso la quale ho potuto svolgere il tirocinio curriculare previsto dal corso di laurea magistrale in Filologia e Storia dell’Antichità.

422 M. D’Amico ne La Stampa del 26 Maggio 1990: «Lo spettacolo di Martone avvince l’occhio

più dell’orecchio; […] l’ascolto è penalizzato dall’uso, nuovo per Siracusa, dei microfoni […] che toglie concentrazione al nucleo del dramma».

423 V. Pandolfi, ne Il Progresso d’Italia del 28 Maggio 1950: «La necessità imprescindibile di farsi

intendere esige sforzi prolungati e tensione fisica che vanno a scapito di ciò che si deve intendere: si sacrifica l’intonazione alla dizione, quasi sempre. Il quasi è costituito da Vittorio Gassman».

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I materiali e le fonti principali con cui si è lavorato durante questa ricerca sono stati le due traduzioni su menzionate, gli archivi fotografici della Fondazione, le rassegne stampa con le relative interviste e note di regia e traduzione, e, per i due più recenti spettacoli del 1990 e del 2003, anche le rispettive riprese audiovisive. Pertanto, se per lo spettacolo del 1950 si è tentata una ricostruzione e quindi una analisi di ‘seconda mano’, per gli altri due si è potuta fornire un’analisi più diretta.

Prima di intraprendere l’indagine che si è indicata sopra, tuttavia, sarà utile soffermarsi su alcune questioni teoriche concernenti la ricezione del dramma antico nel teatro moderno e contemporaneo ‒ che chiameremo ricezione performativa. Conseguentemente a questo, si presenteranno in breve degli esempi di come negli ultimi due secoli in particolare i Persiani siano stati recepiti, reinterpretati e messi in scena.

5.1. ALCUNE QUESTIONI DI RICEZIONE PERFORMATIVA

Una questione che ha riguardato i Persiani sin dalle loro prime riletture in età moderna è l’appropriazione del testo e la sua reinterpretazione entro le coordinate ideologiche, storiche e culturali proprie di chi di volta in volta si è confrontato con questa tragedia. Per trattare meglio di questo argomento è bene tentare di inquadrare le possibili ragioni per cui un testo drammatico classico è particolarmente predisposto a questo tipo di operazione.

Di fatti questi testi vanno incontro a processi che provocano ciascuno un distanziamento più o meno importante e intenzionale dal testo autoriale. Questi processi sono traduzione, interpretazione e messa in scena, e non sono necessariamente da collocare in ordine cronologico, in quanto agiscono tutti e tre influenzandosi l’un l’altro simultaneamente: ad esempio la traduzione, che pure precede la messa in scena, è in una certa misura influenzata da questa, specialmente se è effettuata appositamente per la scena.

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Per cominciare, si può dire che ogni operazione di traduzione si caratterizza già di per sé come un’interpretazione, in quanto implica delle scelte linguistiche, artistiche e culturali nella resa nel testo che devono essere prese anche dal traduttore che vuole tenersi il più possibile vicino al testo autoriale. Questo accade perché l’obiettivo di qualsiasi traduzione consiste nel facilitare la comunicazione tra persone di culture differenti, in un processo in cui il problema della comprensione è centrale. Il traduttore si pone dunque il problema di rendere comprensibile per un lettore situato in un preciso contesto storico e socioculturale un testo prodotto in un contesto diverso. Ne segue che questo processo di mediazione è tanto più complicato quanto più lontane sono le due culture fra loro, e dipende fortemente dalle conoscenze, dalla sensibilità e dal modo di operare del traduttore, che a sua volta non può tradurre astraendosi completamente dal suo stesso contesto e dagli obiettivi che si pone come primari. Traducendo un testo bisogna infatti stabilire quale criterio si vuole seguire in modo più rilevante e quali meno: alcune traduzioni privilegeranno la resa artistica del testo, altre la fedeltà letterale all’originale, altre ancora la sottolineatura di alcuni aspetti sentiti come peculiari della cultura che si sta ‘traducendo’, e così via.

A questo primo processo interpretativo se ne aggiunge un altro che dipende dalla situazione storica del lettore (e dunque nel nostro caso anche del regista), che legge e interpreta il testo a sua volta influenzato dalla propria formazione e dal proprio contesto storico e culturale. In Verità e metodo Gadamer forza questo punto arrivando ad asserire che è il senso stesso di un testo ad essere influenzato dall’interpretazione che ne dà il lettore:

«Ogni epoca interpreta necessariamente qualunque testo in un proprio modo, giacché il testo appartiene all’insieme della tradizione che essa ha interesse a comprendere e nella quale si sforza di capire se stessa. Il senso vero di un testo, come esso parla agli interpreti […] è infatti sempre anche

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determinato dalla situazione storica dell’interprete […]. Perciò il comprendere non è mai solo un atto riproduttivo, ma anche un atto produttivo424».

E’ chiaro che queste affermazioni non si addicono alla lettura filologica di un testo, ma costituiscono d’altra parte una premessa teorica utile per studiare i meccanismi della ricezione di un testo e soprattutto della sua ricezione performativa. Con questo si intende dire che ogni rilettura, ogni interpretazione di un’opera si è in qualche misura confrontata con la propria epoca e con la storia della ricezione dell’opera in questione425; e questa

tendenza, come si vedrà dagli esempi che si presenteranno nel prossimo paragrafo, è ancor più significativa laddove si tratti di riproporre opere drammatiche.

Veniamo dunque all’ultimo dei tre processi su indicati.

Quando il testo viene tradotto e interpretato per un fine performativo entra in gioco una delle componenti fondamentali del teatro: lo spettatore426, che è sua

volta inserito in una situazione storica e complica notevolmente il compito del traduttore. Appunto per questo, trattandosi di portare sulla scena un testo prodotto originariamente in un contesto socioculturale molto lontano e diverso da quello dello spettatore, la messa in scena dovrebbe confrontarsi da una parte con la necessità di rispettare più o meno rigorosamente il testo autoriale, e dall’altra con quella di tenere più o meno presente il suo destinatario, valorizzando la fruizione dell’opera. Se l’equilibrio fra queste

424 Gadamer 1960 (trad. it. 2000, 613).

425 Similmente Hall 2004b, 54: «Il nostro apprezzamento dei testi originali può essere

perfezionato scavando nella loro fortuna, in cosa hanno significato in culture ed epoche diverse da quelle che le hanno prodotte originariamente» richiamandosi a Martindale 1993, 7: «Numerosi e inesplorati approfondimenti della letteratura antica sono racchiusi in imitazioni, traduzioni»; «Le nostre attuali interpretazioni dei testi antichi […] sono […] prodotte dalla catena delle ricezioni attraverso cui si è attuata la loro continua leggibilità».

426 Hall (2004b, 53) citando la nota definizione di Eric Bentley (The Life of the Drama, 1964),

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due componenti si annulla del tutto, ad esempio nella pretesa di poter ricreare fedelmente l’intero spettacolo antico, si avrà piuttosto un dramma sì basato su un testo fedele a quello autoriale, ma che illuderà lo spettatore di essere la ricostruzione di uno spettacolo antico sulla cui realizzazione effettiva – per quanto riguarda almeno musiche, costumi, movimenti, danze del coro e gestualità degli attori – nella maggior parte dei casi non si hanno abbastanza dati. All’altro estremo, invece, si avrà una rielaborazione dell’opera originale, che tanto più si discosta dal testo autoriale per avvicinarsi al contesto socioculturale dello spettatore e del regista (anche riducendolo a semplice trama da cui prendere ispirazione), tanto più si configurerà come un nuovo spettacolo, valido di per sé, ma potenzialmente incline a snaturare la poetica e l’ideologia dell’autore.

Riepilogando, si può sostenere che tutti e tre i processi che caratterizzano la ricezione performativa di un testo drammatico classico sono, seppur in una diversa misura, interpretativi: quello insito nella traduzione, quello legato alla situazione storica del lettore/regista, e quello legato alla messa in scena stessa; e ognuno di questi fattori porta inevitabilmente l’opera a confrontarsi con il contesto socioculturale in cui è riprodotta.

Se questo può essere valido per questo tipo di testi in generale, vedremo ora attraverso alcuni esempi come ancor di più i Persiani, per la loro peculiarità di essere un dramma a soggetto storico che porta in scena l’incontro e lo scontro tra due diverse civiltà, e per la rilevanza che hanno avuto le guerre persiane per la storia e la formazione dell’identità greca427, si sono prestati a diverse

427 Si parla di identità greca dal momento che davanti alla minaccia persiana le diverse città e

stati della Grecia si allearono con il comune obiettivo di respingere il nemico; il famoso tripode delfico con l’iscrizione dei 31 popoli greci che combatterono a Platea (F 59 = M-L 27) celebra infatti una vittoria collettiva. Anche Tucidide (I.XVIII.2-3) parla di un successo comune e di un’alleanza fra stati: κοινῇ τε ἀπωσάμενοι τὸν βάρβαρον, ὕστερον οὐ πολλῷ διεκρίθησαν πρός τε Ἀθηναίους καὶ Λακεδαιμονίους οἵ τε ἀποστάντες βασιλέως

Ἕλληνες καὶ οἱ ξυμπολεμήσαντες… [3] καὶ ὀλίγον μὲν χρόνον ξυνέμεινεν ἡ ὁμαιχμία.

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reinterpretazioni anche forzate, non solo dovute ai processi di ricezione performativa, ma a ideologie fortemente faziose. Anche nella storia della ricezione di quest’opera dunque il rapporto con l’alterità e la sua rappresentazione hanno avuto, come si vedrà, una valenza fondamentale.

5.2. IPERSIANI E LE REINTERPRETAZIONI DELLA STORIA

Sin dall’alba del diciannovesimo secolo la storia della moderna ricezione dei

Persiani si intreccia infatti con la moderna storia greca, e in particolare con la

rivoluzione del popolo greco contro la dominazione turca, i cui ideali ben presto si diffusero in un contesto europeo e occidentale428 grazie all’interesse

degli intellettuali romantici europei429. Il testo eschileo, in occasione di una

lettura recitativa fra nobili greci dalle aspirazioni rivoluzionarie, non fu solo rimaneggiato in chiave politica e patriottica, ma anche corredato dai commenti del patriota greco Kostantinos Oikonomos, con l’intenzione di orientarne la comprensione secondo un’ideologia ben precisa; venne così messa in risalto una dicotomia tra una Grecia civilizzata e custode della libertà occidentale e la minaccia rappresentata da un mondo orientale fortemente stereotipato430. Sulla base di questa stessa linea interpretativa ben più di un

secolo dopo Edward Said rilesse i Persiani nel suo noto saggio sull’orientalismo, sostenendo che Eschilo offra una rappresentazione del Persiano come «simbolo per tutto l’Oriente» piuttosto che un «ritratto naturale», e finisca così col demarcare una linea di confine tra occidente e oriente esistente ancora nel mondo moderno431. Nel corso del presente lavoro

si è tentato di dimostrare che di fatto il testo di Eschilo non si presta a questo

428 Van Steen 2007, 300-4.

429 Ci si riferisce soprattutto all’interesse politico e personale di Percy B. Shelley per la guerra

d’indipendenza greca, che si manifestò anche nella decisione del poeta di comporre la sua

Hellas rifacendosi ad Eschilo, e individuando nella Grecia classica le radici culturali di un

occidente cristiano e libero contrapposto all’oriente musulmano: Hall 2007, 181s.

430 Van Steen 2007, 309s. 431 Said 1979, 21, 56s.

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tipo di interpretazione a meno di forzarne in una certa misura il contenuto e le sue implicazioni; proprio per questo è ancora più interessante per noi notare come già dal romanticismo i Persiani sono stati oggetto di una vera e propria appropriazione ideologica e culturale.

Non sono mancate tuttavia nemmeno riletture della tragedia focalizzate su una certa συμπάθεια emergente dal testo eschileo, e su una generale critica all’imperialismo. Al 1966 risale la messa in scena dei Persiani di Karolous Koun, originale perché non criticava come nemico uno straniero, ma certi membri dello stesso governo greco, ovvero alcuni esponenti dell’estrema destra dalle aspirazioni imperialiste432. Negli Stati Uniti vennero poi allestite

due produzioni della tragedia nel 1970 e nel 1974, ispirate dal movimento pacifista che nacque in opposizione alla guerra del Vietnam, e altre tre nel solo biennio 1993-4 all’indomani della guerra del Golfo433. In particolare uno degli

adattamenti del 1993 venne concepito dal regista Peter Sellars nella convinzione che il teatro potesse rappresentare un’alternativa alla censura che i mass media applicarono alla dimensione umana del conflitto; rimaneggiò il testo spostando la scena dall’antica Susa alla moderna Baghdad e inserendovi diretti attacchi contro la crudeltà della politica americana, sottolineando nello stesso tempo le atrocità commesse da Serse/Hussein nei confronti del suo stesso popolo434 e cercando di andare oltre la stereotipitizzazione etnica nella

rappresentazione di quest’ultimo435.

Un’altra produzione che si distingue per la sua rilevanza fu quella allestita allo scoppiare dalla seconda guerra del Golfo sulla base della sceneggiatura di Ellen McLaughlin, più aderente al testo eschileo e priva di riferimenti diretti ai conflitti contemporanei e di polarizzazioni etniche; probabilmente fu proprio per questi motivi che tale riadattamento riscosse un maggiore

432 Hall 2007, 185s.

433 Hartigan 1995, 102-4, 108 n.2. 434 Foley 2012, 140s.

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successo dei precedenti, essendo incentrato sulla compassione per i vinti e comunicando un senso di «perdita e responsabilità collettiva» comune a tutti i conflitti436.

5.3. LA MANCATA MESSA IN SCENA SIRACUSANA DEL 1914

La storia della moderna ricezione dei Persiani si intreccia anche con l’inizio della storia dei moderni spettacoli classici siracusani. Quando nel 1913 per iniziativa del conte Mario Tommaso Gargallo si decise di riportare sulla scena il dramma antico nel teatro greco di Siracusa437, inizialmente si pensò di

rappresentare proprio i Persiani di Eschilo, per la suggestione di rappresentare un dramma che era già stato presentato a Siracusa dal poeta stesso438. Così il

giornale Tribuna:

«Il nome dell’autore che viene spontaneo alle labbra è Eschilo, la tragedia i Persiani, che, se anche si vuol credere alla critica negante ch’essi fossero recitati per la prima volta, come le Etnee, pur troppo perdute, in questo Teatro, resta assodato che recitati vi furono presente l’autore. […] Sarebbe poi così bella la rievocazione in questi tempi della tragedia celebrante la civiltà europea che ricaccia nei suoi paesi la barbarie asiatica!439».

Un augurio che richiama alla memoria lo spirito con cui quasi un secolo prima i Persiani furono riletti in nome del patriottismo greco contro la dominazione turca, tanto più che in quegli anni l’Italia era impegnata militarmente dapprima contro i Turchi e poi sul suolo libico, in un conflitto che dal 1911 si

436 Foley 2012, 141s. 437 Fondazione INDA 2013, 1. 438 Σ ad Ar.Ran.1028: δοκοῦσι δὲ οὗτοι οἱ Πέρσαι ὑπὸ τοῦ Αἰσχύλου δεδιδάχθαι ἐν Συρακούσαις, σπουδάσαντος Ἱέρωνος, ὥς φησιν Ἐρατοσθένης ἐν γʹ περὶ κωμῳδιῶν, Vita Aeschyli 18: φασὶν ὑπὸ Ἱέρωνος ἀξιωθέντα ἀναδιδάξαι τοὺς Πέρσας ἐν / Σικελίαι καὶ λίαν εὐδοκιμεῖν.

439 Tribuna del 26 Giugno 1913; l’articolo è firmato solamente F.F.G., e non è stato purtroppo

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sarebbe protratto almeno fino al 1931440. Un riferimento ai Persiani

accompagnato da una simile tensione ideologica è presente anche in altri giornali dell’epoca:

«Noi non possiamo dimenticare […] che una tra le più grandi tragedie di Eschilo, I Persiani, fu rappresentata per la prima volta nel teatro greco di Siracusa, regnante Jerone I. […] La tragedia eschilea della quale i cittadini siracusani vogliono celebrare quasi un secondo millenario ha, per ripetersi di eventi, una ragione particolare di venire riesumata. Le pallide orde di Serse, con ciò che avanza corrotto e imputridito della loro barbarica potenza, sono forse alla vigilia di rivarcare il mare oltraggiato che già gli dèi dell’Iliade vendicarono nel sangue441».

Anche il celebre critico svizzero Maurice Muret nel suo Journal des Débats accolse con entusiasmo l’idea di assistere ad una messa in scena dei Persiani a Siracusa, a quanto pare illudendosi erroneamente di vederli rappresentati in greco442. Tuttavia, dietro suggerimento di Ettore Romagnoli, individuato nel

frattempo come traduttore e curatore dello spettacolo, si decise di sostituire i

Persiani con l’Agamennone per «ragioni di opportunità tecnica ed estetica443». I

Persiani dovranno aspettare altri trentasei anni prima di tornare in scena a

Siracusa.

5.4. IPERSIANI DEL 1950: TRADIZIONE E INNOVAZIONE

Dopo una pausa di nove anni dovuta alla Seconda guerra mondiale, con l’Orestea del 1948 riprese la consuetudine di portare in scena i drammi

440 Labanca 2012, 10.

441 C.T. Ubertis in La Donna del 20 Maggio 1913. 442 E.M. Gray in Tribuna del 5 Ottobre 1913.

443 Atti della Sezione Siracusana in Aretusa del 12 Luglio 1913. Nel periodico Aretusa si decise di

pubblicare gli Atti delle riunioni del Comitato Generale e di quello Esecutivo riferendosi ad essi come «Atti della Sezione Siracusana», cf. Aretusa del 22 Aprile 1913.

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dell’antichità con cadenza biennale. Sarà tuttavia l’undicesimo ciclo di spettacoli a segnare un momento di svolta decisivo nella prassi artistica dell’Istituto. Con i Persiani e le Baccanti rappresentati tra il 6 e il 21 Maggio del 1950 si inaugurò infatti una tradizione destinata a perdurare sino ai nostri giorni, cioè quella di affidare la direzione degli spettacoli ad un regista professionista: in questo caso, il fiorentino Guido Salvini444. Allievo di Luigi

Pirandello e del regista e drammaturgo austriaco Max Reinhardt, Salvini era stato, nei due decenni precedenti, il primo grande interprete e sostenitore del ruolo del regista nel teatro italiano445, e un innovatore del modo di concepire

il teatro in Italia446.

Tale decisione fu comunque presa contestualmente a quella di seguire il modus

operandi già proprio dell’Istituto, ovvero quello di allestire degli spettacoli

basati su traduzioni rispettose dell’originale greco, ma che fossero frutto di una interpretazione consapevole della particolarità di rappresentare sulla scena moderna opere concepite nell’antichità. Per l’Istituto Salvini doveva presentarsi pertanto come l’artista perfetto per questo compito, in quanto sin dagli anni in cui collaborò con Pirandello sembrò non apprezzare «la cosiddetta regia metafisica, che piegava, cioè, le parole del testo a suo piacimento» rispettando piuttosto «il testo in quanto detentore della poetica del drammaturgo447». Utile in questo senso è il comunicato dell’Istituto

redatto da Raffaele Cantarella:

«Abbandonando certe discutibili tradizioni che si risolvono in vani tentativi di fredda ricostruzione archeologica e mettendo, invece, a punto soluzioni felicemente sperimentate in precedenza, e più idonee a

444 G. Calendoli ne La Libertà ‒ Roma ‒ del 30 Aprile 1950: «Per la prima volta nella storia delle

rappresentazioni classiche di Siracusa gli spettacoli portano la firma di un regista: quella di Guido Salvini».

445 Roncati 2010, 369s. 446 Id., 380.

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rappresentare una moderna interpretazione dello spirito che anima e vivifica tali capolavori, l’Istituto […] ha affidato la regia dei due drammi a Guido Salvini, che ha saputo dare, ai due spettacoli siracusani, unità di toni e impostazione coerente di tutte le parti, nel pieno rispetto alla fedeltà dei testi. […] Gli altri elementi dell’antica tragedia, musica, scenografia e danze, sono stati studiati in rapporto alle esigenze derivanti dal testo, ma elaborati a rispecchiare le reazioni esercitate sull’anima