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Forse mi sfugge la precisa natura del distinguo, 123 ma – leggendo Erba – mi pare di ritrovare nella definizione quei tratti di genuinità un po’ alla buona, che procede per approssimazioni,

senza gli strumenti deputati comuni a Strauss e Genette:

Tiene tutto da parte senza pertanto essere avaro, non sa quasi mai quello che finirà per fare, procede per tentativi, intende e fraintende, ripara, riadatta, non senza qualche méprise. Per tutto questo, per il fatto di non buttare via niente, di credere che tal pezzo potrà sempre servire, dà segno di un implicito riconoscimento della letterarietà, rende il migliore degli omaggi alla letteratura124

hanno conferito un tocco di nobiltà», p. 468) [Palimpsestes. La littérature au second degré, Seuil, Paris 1982].

122 LÉVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, p. 30.

123 Non è evidente in cosa, infatti, si distingua questo bricoler da quelli tratteggiati dalla nouvelle critique, se non una certa resistenza di Erba alla nouvelle critique che mal sopporterebbe l’ipotesi di un’annessione o, addirittura, una filiazione.

124 ERBA, Dei cristalli, p. 9. Quel méprise corsivo cita L’Art poétique di Verlaine, manifesto simbolista in

Jadis et naguère: «Il faut aussi que tu n’ailles point / Choisir tes mots sans quelque méprise: / Rien de

plus cher que la chanson grise / où l’Indécis au Précis se joint», cfr. Albert SCHNEIDER, L’Art poétique de

Paul Verlaine (107-116), “Mémoires“, 146, 5, 1967: «Il y conseille de ne pas choisir ses mots sans

Un autoritratto coevo, per l’Almanacco della Cometa, emerge dall’epistolario erbiano e

dettaglia, dando consistenza a quegli strumenti non consoni, superati, approssimativi, goffi

a loro modo, quest’attitudine make-it-your-self:

Mi vedo molto out e per di più ci prendo gusto. Non senza problemi. Col fatto di vivere in un tempo (la chiamano epoca) di “usa e getta”, ma anche di “riusa e getta di nuovo”, succede ogni tanto che involontariamente, come se avessi aperto una cassaforte manovrando a caso la combinazione, mi venga a trovare in sintonia con l’attualità, addirittura in. Il fatto mi allarma, vedo in pericolo il mio genio incompreso. Non sarò per caso uno snob? [...] diciamo, sono un mondano incerto. Ma sul lavoro? Un po’ bricoleur, o “fai da te” che sia, quindi molte note, appunti, di quelli che al momento buono non si trovano mai; e poi vecchi arnesi, dizionari di famiglia, manuali e grammatiche obsolete, atlanti dove la Turchia arriva in mezzo ai Balcani, orari ferroviari dove Fidenza si chiama ancora Borgo San Donnino; tanti scritti iniziati, quasi nessuno finito; la convinzione, a volte, che quello che viene prima potrebbe venire dopo; che non si sa se sia l’ammalato ad aver bisogno del medico o il medico dell’ammalato; che scrivere una poesia è sempre un ricominciare da capo; l’ambizione, ma solo l’ambizione, che il primo verso di una poesia non sia la stessa cosa dell’ultimo. Invece… 125

Un «mondano incerto», che si compiace di star fuori da giochi, o dice di, che se si trova,

per caso, come gli orologi rotti esatti almeno due volte in un giorno, in sintonia con

l’attualità si allarma, con sprezzatura. D’altronde, il successo non lo insegue, o dice di:

perde gli appunti come i gaffeur, eredita dizionari da attempati cugini, si fidasse dei suoi

atlanti si perderebbe. Erba dovrebbe parlare di sé, nella consegna dell’almanacco e si ritrae

come un naïf, che non ha rimari, classificatori o quelli che dovrebbero essere (ma quali

dovrebbero essere, poi?) gli strumenti di un poeta “serio”, patentato, un poeta

“professionista”:

nel bricoleur vi è l’amore delle cose, l’amore del recupero di quello che si dovrebbe mettere da parte, e soprattutto il destinare un oggetto, un meccanismo,

poète préfère le mot impropre, imprécis, volontairement mal choisi […] Une sèche et exacte précision coupe les ailes à l’imagination et conduit à la prose. Le mot impropre et imprécis donne au contraire le branle à l’imagination du lecteur et lui permet de rêver», p. 148.

un congegno o altro a una funzione ben diversa da quella per cui questo oggetto o questo meccanismo era stato concepito. Ricorda quella scultura di Picasso, La

chèvre, La capra? La capra è fatta con una bicicletta da corsa, il sellino della

bicicletta è il muso della capra, il manubrio sono le corna e via dicendo. Insomma, Picasso ha adoperato la bicicletta per fare un’altra cosa. Sì, è una trovata felice, e non è solo una trovata, perché è artisticamente valida. Il vero professionista avrebbe dei cassetti dove ci sono viti, chiodi, leve, chiavi, ferri eccetera, se si parla di lavori meccanici, o, se è un poeta, classificatori, rimari e cose del genere. Nel bricolage si ha invece una libertà, una casualità, e anche una certa “avarizia” nel riciclare le cose, nel riprenderle, nel ridar loro un altro valore.126

Mi pare interessante, questo insistere sul non essere “attrezzato”, sul giocare con le

lacune,

127

in un riscatto creativo dell’imperfezione iniziale, tanto più pensando che Erba è,

negli ultimi anni ottanta un poeta e un francesista con tutte le patenti, i riconoscimenti, gli

“strumenti”.

128

Ma forse tradurre è diverso, è radicalmente altro, è il vertice più scoperto

della sua attività.

129

Tradurre è un assemblaggio, un rappresentare impiegando materiali

straniati, come nelle sculture di Picasso.

130

Nel contingente, Erba confonde due sculture

126 RITROVATO, Il poeta, il bricoleur, p. 76.

127 Yves BONNEFOY, La traduzione della poesia (71-79), a cura di Marisa Ferrarini, “Testo a fronte”, n. 13, 1995: «Giocavamo d’astuzia, con le lacune della nostra lingua, facevamo del bricolage come si ama dire oggi, eccoci adesso rivivere il limite dell’altro, ascoltare quanto egli ha potuto apprendere: che bisogna esistere prima di scrivere», p. 78.

128 La metafora è impiegata anche per quanto riguarda la prassi della poesia in proprio, si vedano Samuele FIORAVANTI, La piroga scavata da Luciano Erba. Per un’analisi dei titoli di negli spazi intermedi (121- 129), “Autografo”, 53, 1 2015: «Sull’ultima carta del plico delle bozze, Erba scrive Bricolage includendo una fotocopia con interventi in biro nera con cui stabilisce l’ordine delle poesie», p. 125. Luciano Erba,

Intervista per “Uomini e libri” [dall’archivio privato, senza riferimenti]: «Sono certo che scriverò altri

versi, che recupererò altri juvenilia, che ritornerò su certe poesie. Il mio ideale è un po’ quello dei cataloghi di alcune serie ditte, di prima del ‘14, che mettevano sempre a disposizione della clientela i loro vecchi articoli, e magari anche i ricambi (importantissimi!), non senza ignorare, con giudizio, i necessari aggiornamenti».

129 Pier Vincenzo MENGALDO, Orelli traduttore di Goethe (245-253) in ID., La tradizione del Novecento, quinta serie, Carocci, Bologna 2017: «dunque egli ripete quella triangolazione poeta-traduttore-critico che è tipica della poesia italiana del Novecento, coi relativi riversamenti e sulla base di ciò che potremmo chiamare, largamente, un atteggiamento metapoetico», p. 245. Stante che «il rapporto di dare e avere tra tradotto e traduttore ha frecce direzionali intrecciate» [Maria Antonietta GRIGNANI, A play of iridiscent

colour (303-325), in William Henry HUDSON, La vita della foresta, traduzione di Eugenio Montale, Einaudi, Torino 1987, p. 309], servirà dunque moltiplicare le frecce tra lo studiato, lo scritto e il tradotto 130 Cfr. Francesco POLI, Introduzione in La scultura del Novecento. Forme plastiche, costruzioni, oggetti,

installazioni ambientali, Laterza, Roma-Bari 2006, p. V: «Scultura è un termine che oggi viene

abitualmente utilizzato nell’ambito dell’arte contemporanea non solo per le opere realizzate con materiali e tecniche tradizionali (intaglio e modellato) ma anche, in un’accezione ben più vasta, per ogni altro tipo di lavoro con caratteristiche tridimensionali effettive, dalle costruzioni e assemblaggi agli oggetti, dalle installazioni spaziali agli ambienti». William TUCKER, The Language of Sculpture, Thames and Hudson, London 1974, pp. 59-60 [tradotto in Poli]: «È solo grazie a Picasso, e in particolare alle opere in

celebri dell’artista, fondendole in una: descrive le parti che compongono Testa di toro, del

1942,

131

citandola però come la Capra, scultura del ‘50, assemblaggio ma ben più

articolato, più “realistico”, in cui molti pezzi provenienti da cassonetti e robivecchi,

vengono montati grazie a un’armatura in gesso: grazie a un calco la Capra verrà poi fusa in

bronzo: dell’accozzaglia di scarti resterà solo la plasticità dei volumi.

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Il tradurre erbiano si sente affine ai tentativi di «liberare il linguaggio della scultura dalla

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