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Le principali tendenze riguardanti l’offerta di disclosure non finanziaria

2.2 La situazione globale attuale in materia di disclosure non finanziaria

2.2.2 L’offerta di disclosure non finanziaria

2.2.2.5 Le principali tendenze riguardanti l’offerta di disclosure non finanziaria

Dopo aver analizzato la situazione quantitativa generale in merito al Corporate

Responsibility reporting, appare lecito discriminare il contenuto delle informazioni che ne

fanno parte in base al tipo di tematica che affrontano. L’indagine “KPMG Survey on

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Corporate Responsibility Reporting 2017” ha portato alla luce tre grandi scoperte: la

conoscenza dei rischi finanziari connessi al cambiamento climatico è ancora troppo poco diffusa(1), cresce il collegamento fra l’impegno sociale e ambientale delle aziende e i

Sustainable Development Goals (SDGs) tracciati dalle Nazioni Unite o gli obiettivi fissati

dal Paris Agreement(2) e cresce la consapevolezza che la questione dei diritti umani rappresenta una business issue(3). Alcuni dati aiutano a comprendere più nel dettaglio la portata di tali tendenze.

I rischi finanziari connessi al cambiamento climatico

Nonostante nel 2015 il Financial Stability Board (FSB), organismo internazionale con il compito di monitorare il sistema finanziario internazionale e rappresentato dai governi e dalle banche centrali delle maggiori economie mondiali (G20), abbia apertamente dichiarato che il cambiamento climatico rappresenta un rischio per il sistema finanziario globale, al punto da attivare la Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD), il numero di aziende all’interno dei due campioni di studio dell’indagine, N100 e G250, che discutono i rischi finanziari connessi alle problematiche derivanti dal cambiamento climatico all’interno dell’annual report è ancora davvero troppo basso. Solo il 28% delle imprese nel campione N100 e il 48% delle imprese nel campione G250 ha incorporato tale consapevolezza all’interno della propria attività di risk management con la dovuta disclosure in bilancio d’esercizio. Nel luglio del 2017 la Task Force on Climate- related Financial Disclosure ha fortemente raccomandato ai paesi che fanno parte del G20 che un cambio di rotta sulla questione è necessario e che i governi e le altre istituzioni devono fare il possibile perché tale practice si diffonda.

Gli effetti negativi derivanti da catastrofi naturali, quali ad esempio uragani e siccità, impattano fortemente sulle possibilità delle aziende di svolgere la propria ordinaria attività. In risposta a tali minacce, che stanno aumentando di frequenza e intensità a causa del cambiamento climatico, ci si aspetta che le aziende metabolizzino il rischio che ne può derivare e offrano un’opportuna disclosure in bilancio d’esercizio dei possibili scenari futuri e di come tali scenari potrebbero danneggiare la capacità dell’azienda di raggiungere gli obiettivi finanziari prefissati. Sono solo 5 i paesi in cui più della metà delle aziende che fanno parte del campione N100 discutono tale tipo di informazioni: Taiwan (88%); Francia (76%), Sudafrica (61%), Stati Uniti (53%), Canada (52%).

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La figura sottostante mostra nel dettaglio all’interno dell’intero campione N100 del 2017 quale sia il livello di disclosure di informazioni riguardanti il rischio finanziario del cambiamento climatico all’interno degli annual reports diviso per industria.

Figura 23: Divisione per settore delle aziende che riconoscono i rischi finanziari connessi al cambiamento climatico all’interno del bilancio d’esercizio100

Le industrie che potrebbero risentire maggiormente dei danni derivanti da eventi ambientali negativi sulla propria profittabilità, ovvero “forestry and papers”, “”mining” e “oil and gas” sono, come auspicabile, fra quelle che offrono un livello maggiore di

disclosure di tali informazioni.

Il collegamento fra disclosure non finanziaria e Sustainable Development Goals

Una seconda grande scoperta in merito al contenuto delle informazioni di Corporate

Responsibility analizzate dall’indagine di KPMG riguarda il crescente impegno da parte

delle aziende nel raggiungimento dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs) fissati dalle Nazioni Unite: sempre più aziende infatti cercano di collegare le informazioni sulla responsabilità d’impresa discusse agli specifici SDG che intendono perseguire.

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Nel settembre del 2015, le Nazioni Unite hanno adottato un set di 17 macro-obiettivi per il periodo 2015-2030 che mirano a guidare tutti gli Stati verso uno sviluppo sostenibile globale che porti a un futuro migliore per tutti i soggetti dell’intero pianeta. In meno di due anni dal loro lancio, le statistiche dell’indagine “KPMG Survey on Corporate

Responsibility Reporting 2017” mostrano come circa quattro aziende su dieci fra quelle

che offrono informazioni in merito alla responsabilità d’impresa, sia nel campione N100 (39%) che nel campione G250 (43%), abbiano deciso di attivarsi nel comunicare esternamente come le loro attività di Corporate Responsibility siano guidate dal perseguimento di alcuni di questi obiettivi. La capacità degli SDG di coinvolgere le aziende è stata senza dubbio positiva sin dal loro lancio e si prevede questa tendenza possa continuare a crescere stabilmente nei prossimi tre anni. I 10 paesi che nel campione N100 presentano il maggior numero di aziende che hanno già optato per il collegamento concettuale fra attività di Corporate Responsibility e SDG sono: Svezia (60), Portogallo (58), Messico (51), Francia (47), Paesi Bassi (47), Finlandia (46), Spagna (46), Colombia (44), Regno Unito (43) e Italia (41), tutti appartenenti alle regioni di Europa e America Latina.

Anche l’obiettivo di una riduzione delle emissioni di CO2 con lo scopo di mantenere l’aumento della temperatura terrestre al di sotto dei 2 gradi centigradi nel XXI secolo, stipulato nell’Accordo di Parigi (COP21) sui cambiamenti climatici, sembra apparentemente destare un forte impegno da parte delle aziende nell’implementazione di attività volte al suo raggiungimento. Infatti, delle 233 aziende che comunicano informazioni in merito alla Corporate Responsability nel campione di studio G250 del 2017 ben il 67% (+9% rispetto al 2015) spiega come intenda ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera mediante le proprie azioni. Questa percentuale si ferma invece al 50% nelle 3.543 aziende del campione N100 del 2017 attive in materia di Corporate Reponsibility reporting. Va specificato però che è stato utilizzato il termine “apparentemente”, poiché, nonostante queste scelte siano in linea con quanto idealizzato dall’Accordo di Parigi, circa i due terzi delle aziende, sia nel campione N100 che nel campione G250 del 2017, sarebbero all’oscuro di tale accordo, o di target simili fissati da altre organizzazioni, e avrebbero implementato scelte di riduzione dei gas serra senza spinte esterne bensì come

target ambientale interno. La tabella sottostante mostra quale sia l’influenza di spinte

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le 1.765 aziende del campione N100 e le 156 aziende del campione G250 del 2017 che hanno divulgato informazioni in merito a obiettivi di questo tipo.

Figura 24: Aziende che collegano i loro obiettivi in merito alla riduzione delle emissioni di CO2 a obiettivi fissati da organizzazioni esterne a livello regionale, nazionale o internazionale101

Come si può osservare in entrambi i campioni le aziende che fanno riferimento espressamente all’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici sono meno di un quarto (23% in entrambi i campioni); basso anche il riferimento ad altri target esterni fissati da terze organizzazioni. Alla luce di questi dati, è importante affermare che negli anni futuri dovranno crescere quantitativamente e qualitativamente le misure, da parte dei governi

in primis, volte a diffondere la consapevolezza in merito all’esistenza di accordi

internazionali e/o target locali di questo tipo.

I diritti umani come business issue

La terza e ultima grande scoperta discussa all’interno dell’indagine di KPMG sulla reportistica della responsabilità d’impresa riguarda l’ormai sempre più diffusa consapevolezza, da parte delle aziende, che la questione dei diritti umani fa parte a tutti gli effetti delle problematiche aziendali da gestire e risolvere.

Nel 2011 le Nazioni Unite hanno emesso lo strumento “Guiding Principles on Business and

Human Rights” volendo intendere come sia forte e inseparabile la connessione fra queste

due tematiche. I principi infatti affermano che le aziende nello svolgimento della loro attività hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani, impegnarsi perché questi non

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vengano infranti e cercare di rimediare a qualsiasi impatto negativo su di essi che possa scaturire dal proprio operato. A sei anni dal lancio di questo strumento, la “KPMG Survey

on Corporate Responsibility Reporting 2017” ha rilevato che la maggior parte delle più

grandi aziende nel mondo riconosce la questione dei diritti umani come una business issue. In particolare, i dati mostrano che queste aziende rappresentano il 73% delle 3.543 aziende del campione N100 e il 90% delle 233 aziende del campione G250 che hanno intrapreso azioni di reporting in materia di Corporate Responsibility.

Dati senza dubbio positivi che però nascondono alcune tendenze degne di nota sulle quali si deve riflettere per una soluzione futura. Infatti, nonostante le aziende che riconoscono la questione dei diritti umani come un problema per l’azienda siano molte, soltanto i due terzi di queste (62% in entrambi i campioni oggetto dello studio) comunicano di aver implementano opportune politiche aziendali per affrontare la questione. In aggiunta solo un terzo di queste aziende fan riferimento ai suddetti princìpi indicati dalle Nazioni Unite. L’implementazione di una opportuna politica in merito alla questione dei diritti umani da parte delle aziende, possibilmente allineata con quanto indicato dai “Guiding Principles on

Business and Human Rights” delle Nazioni Unite, è di cruciale importanza per il

raggiungimento degli obiettivi fissati a livello mondiale.

Un altro aspetto importante riguarda la grande disomogeneità presente a livello geografico nel riconoscimento e nella disclosure della responsabilità in materia di diritti umani da parte delle imprese. Una disomogeneità che talvolta è situata anche all’interno di uno stesso continente, come si può osservare nel caso dell’Europa e delle Americhe.

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Figura 25: aziende che riconoscono i temi relativi ai diritti umani come una questione importante per l’attività aziendale102

Come mostrano i dati della tabella in alto, riguardanti le aziende del campione N100 del 2017 che offrono Corporate Responsibility information (3.543 su 4.900), le aziende dell’Europa Occidentale sono quelle che a livello globale riconoscono maggiormente il tema dei diritti umani come business issue (79%). Anche le aziende di Asia Pacifica e America Latina possono esibire discreti risultati (rispettivamente 72% e 71%). Mentre valori più bassi sono osservabili fra le aziende di Africa e Medio Oriente (68%), peraltro zone in cui più spesso i diritti umani subiscono più violazioni secondo i dati di Amnesty International103. Appare invece contradditorio come all’interno sia del continente

europeo che di quello americano, nonostante i buoni valori medi, vi siano due rispettive aree in cui una gran parte delle aziende lì localizzate non cita nella reportistica aziendale la questione dei diritti umani fra le problematiche per il business. Infatti, in Europa

102 KPMG International (2017), The road ahead: The KPMG Survey of Corporate Responsibility Reporting 2017 103https://www.amnesty.org/en/countries/middle-east-and-north-africa/

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Orientale e Nord America rispettivamente solo il 61% e il 65% delle aziende comunica a riguardo di tale consapevolezza.

Figura 26: Top 10 paesi per tasso di aziende che divulgano informazioni riguardanti i diritti umani104

Più nel dettaglio, i tre paesi che mostrano più alti valori, in riferimento all’intero campione N100 di 4.900 aziende del 2017, sono India (95%), Regno Unito (85%) e Giappone (83%). In particolare, in India l’alto valore è dovuto a un regolamento obbligatorio emanato dalla Borsa indiana che obbliga le 500 più grandi aziende quotate alla disclosure di informazioni riguardanti il modo in cui l’azienda affronta il tema dei diritti umani.

Interessante è inoltre osservare la questione sulla base dello specifico settore aziendale, dal momento che settori differenti hanno anche impatti differenti sulla questione.

Figura 27: Divisione per settore delle aziende che riconoscono i diritti umani come business issue105

104 KPMG International (2017), The road ahead: The KPMG Survey of Corporate Responsibility Reporting 2017 105 Ibidem

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I dati, che fanno riferimento alle sole aziende del campione N100 che offrono informazioni in merito alla Corporate Responsibility, mostrano come all’interno della disclosure riguardante la responsabilità d’impresa delle aziende del settore “mining” nell’88% dei casi si trovi un richiamo ai diritti umani; statistica che raggiunge il 100% dei casi se si considera il campione G250. Questi valori numerici stanno a indicare che le aziende dell’industria mineraria, talvolta associate a eventi negativi in tema di diritti umani per il grande impatto sulle comunità locali e per lo “sfruttamento” dei lavoratori delle miniere tipico della storia passata, hanno compreso appieno i benefici nella gestione delle relazioni con i propri stakeholder derivanti dal proprio impegno in tema di diritti umani. La disclosure aziendale in merito a tale impegno sembra infatti quasi rappresentare da parte loro una pubblica richiesta per la concessione della “license-to-operate” rivolta in

primis alle comunità locali. Lo stesso discorso si può fare, viste le molte analogie, anche

per le aziende del settore “oil and gas” che mostrano un livello di impegno in materia del 77%. Invece, un’interessante tendenza osservata coinvolge il settore dei servizi finanziari, poiché le aziende di questo settore sembrano differenziarsi molto al loro interno nel riconoscimento dei diritti umani come questione materiale per l’azienda. Infatti, se i dati delle aziende del campione N100 già attive nel Corporate Responsibility reporting, mostrano valori piuttosto bassi (66%), lo stesso tipo di dati all’interno del campione G250 sale al 92%. Questo ampio differenziale sta a indicare come vi sia una forte discrepanza fra le aziende di servizi finanziari top al mondo e quelle di minori dimensioni, probabilmente dovuta alla mancanza di risorse e di esperienza in materia da parte delle seconde. Se tale discrepanza non verrà debitamente sanata e, dunque, se non ci sarà una presa di coscienza dell’importanza per il proprio business della questione dei diritti umani da parte delle aziende minori, la loro capacità di sopravvivenza nel sistema economico sarà messa in forte pericolo.

In conclusione, da quanto si è potuto osservare dai dati relativi a tale terza principale scoperta dell’indagine “KPMG Survey on Corporate Responsibility Reporting 2017” va sottolineato il gran bisogno da parte del reporting aziendale di evolvere dalla semplice comunicazione del riconoscimento dei rischi collegati alla questione dei diritti umani a una più completa disclosure che spieghi anche come le aziende identifichino, rispondano e rimedino ai loro impatti sui diritti umani. Di particolare importanza sono l’impegno e la diffusione di tale impegno, all’interno della catena di fornitura aziendale, soprattutto per quelle imprese la cui catena di fornitura è estesa su scala globale e che molto spesso, a

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causa del minor costo dei fattori produttivi, operano proprio nei paesi con il più alto tasso di violazione dei diritti umani. Va detto che, l’evoluzione dei sistemi di reporting in quest’ottica è particolarmente difficile poiché, così come ora sono concepiti, non sono in grado di tracciare e misurare l’impatto dell’azienda sui diritti umani. Una soluzione, consigliata da J. Morrison amministratore delegato dell’Institute for Human Rights and Business, potrebbe essere, fra le altre, l’implementazione della blockchain technology a livello di intera supply chain aziendale106, la quale potrebbe permettere un’appropriata e

affidabile misurazione, discussione e verifica dei dati in ogni singolo nodo che la compone.

2.3 Conclusioni

Il capitolo, molto importante per l’osservazione della situazione mondiale in materia di

disclosure non finanziaria da parte delle aziende, mostra come globalmente si stia

verificando una progressiva evoluzione all’interno della materia. Da un lato, infatti, governi, mercati finanziari, associazioni di settore, standard-setters e altri “regolatori” iniziano sempre più a richiedere un’integrazione nella reportistica finanziaria aziendale con informazioni riguardanti la gestione di alcune questioni di carattere sociale e ambientale rilevanti per il business. A ciò si accompagna il progressivo passaggio dal carattere volontario al carattere obbligatorio di tali richieste. Dall’altro lato, le aziende iniziano a essere sempre più consapevoli che, oltre al fatto che i vincoli normativi collegati all’informazione sociale e ambientale stanno aumentando e continueranno a farlo in modo costante nei prossimi anni, la disclosure sociale e ambientale rappresenta una grande opportunità per l’evoluzione della propria attività e per il miglioramento del rapporto con tutti gli stakeholder. Inoltre, così come i governi iniziano a comprendere che senza il coinvolgimento attivo delle aziende non si possono mantenere le promesse assunte per il raggiungimento degli SDGs e degli obiettivi del Paris Agreement, allo stesso modo le aziende iniziano a essere coscienti di come le questioni sociali e ambientali abbiano un fortissimo impatto sulla sfera economico-finanziaria e dunque di come risulti necessario gestire efficacemente tali questioni, inserendole nella strategia aziendale e comunicando all’esterno il risultato delle proprie azioni.

106 Keynote speech delivered by John Morrison CEO of the Institute for Human Rights and Business (IHRB),

The Transformative Potential of ICT to Support Human Rights - “Sleeping Giants in the Valley of Opportunity”, Speech delivered at the Global e-Sustainability Initiative (GeSI) meeting, Brussels, 8 May 2018,

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È necessaria tuttavia l’affermazione di un framework internazionale universale che permetta da un lato alle aziende di avere maggior chiarezza nel loro processo di disclosure dell’informazione sociale e ambientale e dall’altro lato al pubblico della disclosure di ottenere un’informazione maggiore, trasparente, comparabile (nel tempo e nello spazio) e affidabile in merito a tali questioni e al loro impatto sull’attività aziendale, in particolare sul processo di creazione del valore nel tempo. Il capitolo successivo riflette su quest’ultimo tema, trattando i due framework ritenuti dal tesista più importanti: i “GRI Standards” del Global Reporting Initiative (GRI), attualmente lo standard più utilizzato al mondo in merito alla reportistica di sostenibilità, e l’”<IR> Framework” dell’International Integrated Reporting Council (IIRC), quello che appare come la migliore soluzione per il futuro, capace di generare una vera evoluzione dello strumento dell’Annual Report e di mostrare chiaramente come si svolge il processo della creazione del valore nel lungo periodo all’interno dell’azienda, integrando tutti gli aspetti (economici, sociali e ambientali) rilevanti in tale processo.

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Capitolo 3