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Il principato era stato abolito, ma il titolo rimaneva in vigore, e pure il grande significato sociale e politico della sede vescovi-

le trentina e del suo titolare. Quanto già valesse agli occhi del governo centrale la persona e l’opera del predecessore Luschin, che aveva portato a termine con successo il complesso processo di riordino istituzionale della diocesi nella nuova cornice au- striaca, è dimostrato dal fatto che questo prelato nel marzo del 1834 venne scelto dall’imperatore per reggere la complicatissi- ma diocesi di Leopoli/Lemberg/Lviv in Ucraina, negli estremi confini nord-orientali dell’impero austriaco, nella quale si in- trecciavano e si sovrapponevano diverse lingue e nazionalità e diverse confessioni cristiane e addirittura chiese cattoliche di diverso rito e tradizione canonica (latina e greca) – ognuna con una propria separata giurisdizione in concorrenza non sempre amichevole con le altre. Infatti Luschin durò l’ingrato compito soltanto per un anno e venne presto trasferito a un’altra arcidio- cesi, quella di Gorizia, pure questa importante e complessa nella costellazione politica austriaca. Fu lo stesso Luschin a suggerire all’imperatore come suo successore in Trento il vicario del Vo- rarlberg. A nulla valsero le rimostranze in contrario del candida- to. Anche la sua obiettiva difficoltà riguardo alla lingua (oltre ad un difetto di balbuzie) non deve essere apparsa sufficiente a dis- suadere l’imperatore da questa scelta: evidentemente prevalenti e più convincenti dovevano apparire, all’imperatore come al go- verno così come già al Luschin, le doti personali e le positive prove pratiche già fornite dal Tschiderer. Doveva in ogni caso risultare obsoleta l’impressione di scarsa energia che aveva sug- gerito al governatore del Tirolo Kotek di sconsigliare al governo centrale la nomina di Tschiderer per Trento già nel 1823. In ogni caso, ben consapevole dei propri limiti riguardo alla pre- ponderante componente italiana della diocesi, il Tschiderer scel- se un valente collaboratore nella persona del vicario generale, il sacerdote roveretano Giacomo Freinadimetz, che lo servì fino al 1856.

In effetti il compito era formidabile: si trattava di reggere una diocesi di quasi 400.000 cattolici (dati del 1833), suddivisa in 35 decanati (25 italiani più 10 tedeschi) e 142 parrocchie (ma complessivamente circa 600 stazioni pastorali nelle diverse tipo- logie di parrocchie in senso pieno, curazie, cappellanie esposte ecc.), con 1508 sacerdoti secolari e circa 150 sacerdoti religio-

si.12 Si trattava insomma di un gravoso impegno di reggere una

diocesi territorialmente molto estesa e al contempo, sotto parec- chi punti di vista (sociale, etnico, politico…), pure essa compli- cata – ancor più dopo l’ampliamento del 1818.

Si andava invece a risolvere in maniera negativa, se non francamente fallimentare, il tentativo dell’insediamento di una comunità rosminiana nella diocesi del suo fondatore. Il 1° mag- gio 1835 Tschiderer faceva il suo ingresso a Trento e già dal- l’autunno precedente don Antonio Rosmini era trasferito a Ro- vereto come parroco di San Marco, ma il 5 ottobre 1835 lascerà anche questo incarico e pochi mesi dopo il territorio stesso della diocesi e della provincia. All’inizio di ottobre 1835 Rosmini aveva chiuso anche la casa e la comunità di Trento. Gli stretti vincoli del giurisdizionalismo ecclesiastico austriaco, ancora pienamente vigenti e sentiti come inammissibili dal religioso roverertano13 e il poco coraggio dei due vescovi e la loro chiu-

sura alla profezia del Roverertano determinarono un imperdo- nabile impoverimento per la Chiesa trentina. In questo senso l’episcopato del Tschiderer si inaugurava proprio sotto il segno dei pesanti limiti che il pur ‘amico’ Stato austriaco continuava a imporre alla Chiesa e allo svolgimento della sua missione più propria. Purtuttavia, certamente scontando questi limiti, la Chie- sa trentina avrebbe conosciuto durante l’episcopato del Tschide- rer e più avanti lungo tutto il secolo un reale rafforzamento e avrebbe esplicato una potente azione pastorale sia strettamente religiosa che più ampiamente sociale e civile. Giovanni Nepo- muceno contribuirà a questo risultato in maniera niente affatto puramente burocratica e amministrativa e neppure semplice- mente nelle forme del governo e della giurisdizione, bensì molto di più – con risultati percepibili si può dire fino ad oggi –, con le sue personali virtù e la sua più genuina ed efficace azione pasto-

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Cfr. Vareschi, Il nuovo regime della Chiesa di Trento, p. 334.

13 Cfr. la sua opera Le cinque piaghe della Santa Chiesa, scritta proprio in quegli anni a cavallo tra il 1832 e il 1833, anche se pubblicata solo nel 1848: cfr. P. Marangon, Il Risorgimento della Chiesa. Genesi e ricezione delle

“Cinque piaghe” di A. Rosmini (Italia Sacra, 63), Herder, Roma 2000. Per la

vicenda rosminiana di Trento, cfr. Vareschi, Il nuovo regime della Chiesa di

rale e la sua carismatica irradiazione religiosa. In continuità con la sua impostazione e azione esplicata fino a quel momento, per il nuovo vescovo si trattava infatti di rivitalizzare e qualificare soprattutto dal punto di vista genuinamente religioso le istitu- zioni ecclesiali e la vita diocesana. In ciò il Tschiderer rimaneva certamente convinto della persistente bontà e attualità, ben al di là della stagione politica che oggi chiamiamo di Restaurazione, del modello di ‘cristianità’ e della necessità di continuare a ga- rantire, anche nell’epoca liberale – all’occorrenza anche in ma- niera polemica e combattente – il patrimonio storico dell’‘unità della fede’ nel Tirolo e il suo esplicito carattere cattolico. Niente in contrario se questo risultato doveva essere salvaguardato an- che valendosi di tutte le risorse che lo Stato metteva al servizio della Chiesa, come pure di tutte le ancora vigenti prerogative sociali e politiche del vescovo, ad esempio in qualità di deputato della dieta provinciale.