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Proattività e utilizzo delle informazioni. Euristiche e Non-Technical Skills

3. Il coinvolgimento organizzativo: la just culture e la cultura della segnalazione

3.3. Proattività e utilizzo delle informazioni. Euristiche e Non-Technical Skills

A livello Skill si agisce in modo automatico, sulla scorta di sequenze di azioni ben acquisite in passato. La percezione rispetto ai dati ambientali permette di identificare immediatamente il tipo di azione da svolgere; l’impegno cognitivo richiesto è generalmente molto basso, le attività si svolgono attraverso automatismi consolidati (ad esempio guidare in situazioni di traffico fluido percorrendo una strada nota a velocità costante) e le risorse attentive possono essere dedicate ad altro. Nel frattempo, il cervello monitora la situazione senza dispendio di energie, che utilizzerà solo in caso di necessità.

Infatti, a fronte di un imprevisto si è comunque pronti ad intervenire, ad esempio con una frenata brusca durante la guida. La condizione necessaria per la gestione dei compiti a livello di Skill è determinata dalla presenza di una situazione stabile e nota. Gli errori che si manifestano a questo livello sono causati da azioni inopportune e non volute (slips) oppure da involontarie dimenticanze (lapses) eseguite secondo automatismi (Bracco, 2013).

A livello Rule viene richiesto un maggiore sforzo cognitivo, le nuove attività che inizialmente vengono svolte seguendo le procedure apprese, con il passare del tempo si evolvono in automatismi, portando l’azione da livello Rule a livello Skill. Gli errori più comuni sono determinati dalla inadeguata comprensione della situazione e da un’inefficace scelta delle procedure (id).

A livello Knowledge ci si trova a gestire una situazione non familiare o inattesa, che si manifesta raramente. L’impegno cognitivo richiesto è molto elevato, è necessaria l’individuazione di una soluzione creativa facendo appello alle proprie conoscenze, competenze ed esperienze passate. In questo caso, l’errore non è di natura procedurale ma strategica, in quanto nasce dall’incapacità di comprendere una situazione e dalla mancanza di una giusta flessibilità di intervento (id).

Quanto sopra descritto si traduce nel modello Skill-Rule-Knowledge (SRK) teorizzato da Rasmussen per rappresentare il funzionamento cognitivo e le modalità di

“processamento” delle informazioni e di presa di decisione (Agnello et al., 2017).

La tendenza è quella di raccogliere solamente una parte delle informazioni rispetto a tutte quelle potenzialmente indagabili e di rappresentarle in maniera soggettiva adattandole a quelli che sono i bisogni, le credenze e le aspettative (Bracco, 2013). Sulla base di quanto sopra riportato, lavorando a livello di Knowledge non è possibile mettere in atto un processo razionale, in quanto verranno scelte forme di decisione e

ragionamento più veloci e pratiche chiamate euristiche10. Queste sono forme di ragionamento basate sull’esperienza passata, su informazioni parziali o valutazioni superficiali, consentono di lavorare a livello di Knowledge con minore sforzo cognitivo e maggiori risultati, di contro aumenta la probabilità di incorrere in errori o distorsioni sistematiche (bias). Le euristiche possono condurre a decisioni non corrette o portare l’operatore a sottostimare la probabilità di accadimento di un evento avverso (Servadio, 2019).

Un altro aspetto molto rilevante e critico viene evidenziato da Agnello (2017) ed è legato alla necessità di adottare, all’interno del gruppo di lavoro, un atteggiamento di ascolto non giudicante, di apertura alle nuove informazioni, di rispetto verso posizioni diverse. Questo atteggiamento organizzativo consente una comunicazione bidirezionale fluida, ove chi ascolta deve sapersi mettere in discussione, accettando che qualcuno metta in dubbio alcune pratiche già consolidate e “rodate”. In un sistema fondato sulla cultura della colpa, in cui lo scopo è la ricerca del colpevole, nessuno si sentirà libero di condividere un errore, un dubbio, un segnale debole. I sistemi di reporting, se utilizzati in una realtà organizzativa ove vige la cultura della colpa, spesso falliscono in quanto l’errore della persona viene visto come la causa principale dell’evento avverso e non come sintomo di un’anomalia sistemica.

Nelle organizzazioni dove vige la just culture, pur ragionando in termini sistemici, il rischio che si corre è quello di trattare un evento, un near miss o un segnale debole in maniera semplicistica senza effettuare una valutazione approfondita. Inoltre, il giudizio può essere condizionato dall’entità delle conseguenze di un evento avverso (Dekker, 2012); se l’esito è buono tutto il processo viene considerato corretto, il lavoro svolto viene giudicato buono, mentre se l’esito è sfavorevole ci si ridurrà a sentenziare che gli

10 I tre principali tipi di euristiche (Servadio, 2019):

1. e. della disponibilità, un evento viene valutato sulla base di quante volte è stato visto verificarsi o sulla base di quanto è saliente dal punto di vista emotivo;

2. e. della rappresentatività, la stima della probabilità di accadimento di un evento si basa sulla distribuzione di probabilità più rappresentativa nella mente del lavoratore;

3. e. dell’ancoraggio, porta gli operatori a dare giudizi e a fare scelte ancorandosi al primo elemento informativo che si trovano ad analizzare; a questo è legato l’effetto framing, ossia come la cornice

operatori coinvolti non avranno svolto un buon lavoro. Questo metodo di valutazione è evidentemente superficiale. È riduttivo accostare le conseguenze con il risultato senza una adeguata analisi sui reali nessi causali.

Partendo da questo assunto, è necessario che nel processo di analisi degli eventi avversi, si consideri la possibilità di ricorrere in bias, i quali possono condizionare il percorso di analisi dell’incidente. La ricerca del colpevole (blaming), la tendenza a ritenere un evento assolutamente probabile solo dopo che è accaduto (“trappola del senno di poi”), la risoluzione positiva di un evento che porta a considerare positivamente tutto ciò che lo ha preceduto (“trappola del lieto fine”), come nel caso dei mancati incidenti, sono solo alcuni esempi di insidie che possono impattare significativamente sulla obiettività della valutazione. Lo sforzo richiesto per evitare di cadere ripetutamente in questi inganni interpretativi è quello di cambiare prospettiva (Bracco, 2013).

Il passaggio da una visione degli eventi di tipo lineare ad un approccio sistemico richiede un’analisi più complessa, non ci si ferma alla causa più superficiale ma ci si spinge in profondità, con l’obiettivo di trovare soluzioni efficaci ed attuabili (Agnello et al., 2017).

Un sistema capace di rispondere agli eventi, di monitorare ciò che accade, di prevedere rischi e opportunità e di imparare dall’esperienza passata, viene definito “resiliente”. A fronte di una perturbazione (id.) il sistema resiliente richiede un rapido adattamento per gestire la situazione, cambiando la sua normale operatività.

Le organizzazioni resilienti sono improntate alla prevenzione degli eventi critici in maniera proattiva, cercando di anticiparne la comparsa. In queste realtà sono richieste sia abilità tecniche sia competenze non tecniche di tipo cognitivo e relazionale. Queste ultime permettono agli operatori di riconoscere la situazione in cui si trovano ad operare, di comunicare e lavorare come un gruppo, di essere flessibili e trovare le soluzioni adatte alle diverse situazioni che si presentano di volta in volta. Le abilità non tecniche declinate a seconda del contesto lavorativo e necessarie per portare a termine la propria mansione, sono rappresentate dalla consapevolezza situazionale, dalla capacità di decisione, dalla comunicazione, dal lavoro di gruppo, dalla leadership, dalla gestione dello stress e del carico di lavoro. Agendo a questi livelli, le abilità cognitive e relazionali dovranno essere monitorare e rinforzate allo scopo di mantenere alte produttività e sicurezza sul lavoro (id.), quindi un sistema resiliente sarà in grado di adattare il proprio funzionamento

prima, dopo e durante un evento, sia esso un cambiamento, un’opportunità o un’anomalia, rimanendo comunque operativo.

Alcuni studi condotti da Cohen, Cleveland (1983) hanno dimostrato che gli operatori lavorano più in sicurezza quando:

• vengono coinvolti direttamente nei processi decisionali,

• vengono investiti delle dovute responsabilità,

• vengono resi edotti rispetto agli obiettivi da raggiungere,

• viene fornito loro un feedback immediato in merito al lavoro svolto.

L’approccio della resilience engeenering11 (RE) pone il punto di vista dell’operatore allo stesso livello di importanza di quello del top manager, il quadro completo emergerà dalla loro integrazione e valutazione complessiva, ciò significa che ognuno viene coinvolto per quanto di propria competenza. In un’organizzazione resiliente l’attenzione verso i segnali deboli è fondamentale, sarà cura degli operatori e dei manager sviluppare la sensibilità e la percettività verso i segnali potenzialmente pericolosi e capirne le possibili interazioni in un clima di condivisione delle informazioni sia tra colleghi (condivisione orizzontale), sia con i superiori (condivisione verticale) (Agnello et al., 2017).

Da quanto emerso fino ad ora, si può sostenere che lo strumento di segnalazione, se correttamente usato e contestualizzato, nonché condiviso a tutti i livelli di un’organizzazione, è utile per favorire lo sviluppo delle Non-Technical Skills (NTS)12, coniugando un sapere teorico e tecnico e adattandolo al contesto (id.). Così facendo, ognuno si sentirà parte attiva dell’organizzazione potendo intervenire, oltre che con la segnalazione, anche con la ricerca di soluzioni condivise.

3.4. LEADERSHIP E CULTURA DELLA SICUREZZA ALL’INTERNO