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Il problema dell’ipotesi associazionista

4. D ALLA RFT ALLO STUDIO DELLE COGNIZIONI IMPLICITE

4.2. M ISURARE GLI ATTEGGIAMENTI

4.2.1. Il problema dell’ipotesi associazionista

Sebbene, come già avuto modo di anticipare, l’ipotesi associazionista sulla natura degli atteggiamenti e sulla loro accessibilità (modello di Fazio) rappresenti il principale cavallo di

battaglia della ricerca cognitiva, non possiamo esimerci dal constatare come tale assunto rappresenti un dato di fatto vero a priori, ma mai empiricamente sottoposto al vaglio dell’analisi e della

conferma sperimentale.

Il punto di vista qui esposto, considera tale premessa aprioristica uno dei principali anelli deboli nello studio degli atteggiamenti e delle credenze implicite all’interno dello scenario di matrice cognitiva. Nonostante ciò, misurare la forza dei legami associativi tra oggetto

d’atteggiamento e rispettiva valutazione, allo scopo di inferire il ruolo che gli atteggiamenti sotto osservazione possono assolvere nei riguardi delle nostre scelte, resta un caposaldo della ricerca sugli atteggiamenti impliciti che fino ad oggi ha permeato la costruzione delle principali procedure di assessment in tale ambito di ricerca.

Di seguito, proveremo ad illustrare per sommi capi, due tra i più consolidati strumenti di valutazione delle credenze implicite progettati allo scopo di generare un indice della forza delle associazioni automatiche che vengono attivate a livello mnestico: il già menzionato IAT

(Greenwald, McGhee e Schwartz, 1998) e le procedure di priming semantico e valutativo (Ochsner, Chiu & Schacter, 1994) dette anche “affective priming” o “sequential priming” (Fazio et al., 1986).

Lo IAT è un compito che viene svolto attraverso una procedura computerizzata. Consiste in una serie di prove di categorizzazione (nell’esempio proposto quattro categorie: persone Bianche; persone Nere; Buone; Cattive) (vedi figura 5). In ogni prova al centro del monitor compare uno stimolo campione, che può essere in formato testuale (es. “ridere”/“dolore”) o sotto forma di immagine (es. persone bianche o di carnagione scura) e il rispondente è chiamato a classificarlo il più velocemente ed accuratamente possibile selezionando specifiche etichette attributive, dette stimoli di confronto (es. Buono/Cattivo), poste rispettivamente a destra e a sinistra nella parte superiore del monitor. Quindi a seconda della categoria di appartenenza, il partecipante seleziona i due tasti di risposta collocati sulla tastiera (“E” e “I”) (vedi figura 6).

Figura 5. le 4 categorie comprese all’interno di una prova IAT per valutare il

pregiudizio razziale)

Figura 6. struttura tipica di una prova IAT per valutare il pregiudizio razziale (nel

quadrante sopra i due blocchi di apprendimento; nel quadrante sotto i due blocchi test)

L’uso di due diversi colori (nell’esempio bianco e verde) ha la funzione di facilitare il rispondente nell’associare gli stimoli campione alla relativa dimensione di categorizzazione.

Nei blocchi di apprendimento (blocchi di prova) ai partecipanti vengono proposti stimoli che appartengono solo a due delle quattro possibili categorie (es. persone bianche – buono / persone nere – cattivo) e che possono essere più o meno associate tra loro a livello cognitivo. Nei blocchi critici (blocchi test), invece, sul monitor vengono proposti stimoli di tutti e quattro i tipi di categorie.

La facilità o difficoltà con cui il partecipante effettua le categorizzazioni costituisce un indicatore delle sue cognizioni implicite (nel caso specifico del suo grado di pregiudizio razziale). In caso di errore nella risposta emessa dal soggetto partecipante la macchina virtuale è programmata per emettere un feedback di segnalazione visiva (vedi croce rossa nella figura 6).

Per la logica sottostante allo sviluppo di tale procedura di valutazione, maggiore è la forza dell’associazione tra un concetto (es. nero) e un attributo (es. fastidioso), minore è il carico cognitivo in termini di velocità e accuratezza della risposta (Greenwald et al 1998); dunque più semplice sarà il compito di categorizzazione (De Houwer 2003). In poche parole, maggiore è la velocità e l’accuratezza della risposta con cui le persone bianche associano le foto di persone nere a concetti negativi (forza dell’associazione), tanto più rilevante sarà il grado di discriminazione (comportamento inferito) con cui esse tenderanno ad esprimere pregiudizi verso le persone di carnagione scura.

Sebbene il comportamento di collegare una serie di stimoli (proposti dalla procedura

sperimentale) sia oggettivamente un evento osservabile, l’esistenza di associazioni mentali alla base di tali risposte rimane a tutti gli effetti un’inferenza che andrebbe dimostrata.

Un classico studio di Dasgupta e Greenwald (2001) sui pregiudizi razziali, condotto con le modalità sopra descritte, ha mostrato come le persone bianche esaminate ottenevano i risultati migliori ai blocchi di prova “bianchi”/“positivo” e “neri”/“negativo” rispetto ai blocchi di prova “bianchi”/“negativo” e “neri”/“positivo”, rivelando così un pregiudizio razziale pro- bianchi nonostante nelle misure esplicite (questionari self-report) gli stessi partecipanti all’esperimento dichiaravano di non avere alcun pregiudizio razziale in tal senso.

In una recente meta-analisi (Greenwald, Poehlman, Uhlmann, e Banaji, 2009) condotta su 184 campioni indipendenti (N = 14.900), gli autori hanno trovato che le misure implicite rilevate con lo IAT sono risultate predittive del comportamento con una r media di 0,27. Anche le corrispettive misure esplicite rilevate su 156 dei 184 campioni indipendenti (N=13.068) presentavano una r media pari a 0,36 dimostrando addirittura una capacità predittiva superiore; tuttavia questo valore era fortemente legato ad una maggiore variabilità ed etereogenità nella dimensione dell’effetto. La validità predittiva delle misure esplicite, infatti, è fortemente compromessa da temi socialmente sensibili (es. stereotipi e pregiudizi) diversamente da altri temi sociali in cui si rivelano

maggiormente efficaci (es. scelta della marca preferenziale nei prodotti di consumo o preferenze politiche).

Nello studio menzionato, per esempio, su 32 campioni in cui erano state prese misure attinenti all’analisi del comportamento interrazziale “nero-bianco”, i risultati ottenuti hanno mostrato una validità predittiva significativamente superiore allo IAT rispetto a alle stesse misure ottenute direttamente con strumenti di self-report.

Esempi di studi che hanno esaminato la Self-compassion o la Self-forgiveness utilizzando misure implicite sono praticamente rarissimi in letteratura. Uno dei pochi lavori reperibili è quello di Goldring (2011), il quale ha sviluppato uno IAT che tuttavia pone molto di più l’accento e l’attenzione sul perdono degli altri a seguito di trasgressioni subite, rispetto alla Self-forgiveness.

Oltre allo IAT, una seconda modalità di natura associativa per la valutazione delle credenze implicite, è a quella che comporta l’utilizzo di paradigmi di priming che affrontano sia la

dimensione semantica che quella emotiva delle valutazioni (Fazio et al., 1995; Wittenbrink, 1997). Il priming è un processo cognitivo che si manifesta nel cambiamento della performance a un test in conseguenza del fatto che uno stimolo “prime” (denominato così poiché viene presentato prima dello stimolo target) esercita un’influenza implicita e automatica sull’emissione della risposta a stimoli target successivi. L'influenza dello stimolo può esercitarsi a livello percettivo, semantico o concettuale, riducendo il tempo necessario per elaborare e valutare uno stimolo target associato al prime (Schacter 1999).

Un esempio schematico è quello in cui al soggetto vengono mostrati due stimoli linguistici separati, in successione temporale (il prime e il target) e il soggetto deve nominare il secondo dei due stimoli (il target). Questo processo fa sì che il riconoscimento della parola “cane” sia ad esempio più veloce se tale stimolo è preceduto dalla parola “gatto” piuttosto che dalla parola

“sedia”, proprio perché lo sforzo necessario per richiamare alla mente la parola “gatto” è inferiore, in quanto collegata per significato all’interno della rete semantica esaminata.

Con questo paradigma, dunque, ciò che si misura è l’intensità della relazione che lega prime e target (e quindi l’influenza che il primo esercita sul secondo).

Il fenomeno del priming si basa sulla teoria neuropsicologica delle reti associative (Anderson & Bower 1974) e viene spiegato dal concetto di estrazione cognitiva denominato “diffusione dell’attivazione” (Collins & Loftus, 1975) secondo cui i processi di memoria avverrebbero attraverso attivazioni che si propagano automaticamente (per diffusione) tra nodi interconnessi stabilitesi per mezzo dell’esperienza. In questo modo quando un concetto è attivato, anche il concetto ad esso relato (associazione tra nodi) viene attivato di conseguenza.

Per esempio, nel paradigma di priming semantico descritto da Wittenbrink e colleghi (1997) i partecipanti (tutti soggetti bianchi) sono stati sottoposti ad un compito di decisione lessicale che consisteva nel dover categorizzare una serie di stimoli target distinguendoli in parole (dotate di senso) o non parole (prive di senso). Tra le parole target, alcune rimandavano allo stereotipo della persona di carnagione scura (es. stereotipi positivi: sportivo, ospitale / stereotipi negativi:

aggressivo, superstizioso) alcune a persone di carnagione bianca (es. stereotipi positivi:

progressista, pulito / stereotipi negativi: intollerante, individualista), altre non avevano senso e altre ancora non erano legate allo stereotipo. Per un periodo di 15 ms., prima dell'apparizione della parola target da valutare (parola/non parola), veniva mostrato ai soggetti sperimentali un prime che poteva consistere nelle seguenti parole: “bianco” o “nero”.

I risultati mostrarono i seguenti pregiudizi impliciti: il prime “nero” accelerava il tempo di risposta (la categorizzazione degli stimoli in parole / non parole) quando lo stimolo target era un tratto negativo dello stereotipo (mentre non accadeva lo stesso con il tratto positivo) e il prime “bianco” accelerava il tempo di risposta quando il target da valutare era un tratto positivo dello stereotipo (mentre non accadeva lo stesso con il tratto negativo).

Nonostante l’entusiasmo che ha alimentato le ricerche cognitive sullo studio del priming, tali prove presentano diversi problemi di origine metodologica (segnalate nel 2012 dallo stesso premio nobel per l’economia, lo psicologo Daniel Kahneman). Infatti, il fatto che tali studi indaghino come unico fattore predittivo sulla performance prodotta, la velocità della risposta alla presenza di uno stimolo prime, senza controllare sperimentalmente altre altre variabili interferenti che possono influire sui tempi di risposta (come per esempio la lunghezza della parola, la sua frequenza d’uso, le differenze individuali nell’apprendimento del compito, ecc.) può condurre con elevate probabilità a formulare inferenze errate (Bargh & Chartrand 1999), rendendo perciò il ricorso al priming una tecnica poco attendibile.

In conclusione, da più di vent’anni a questa parte, l'ipotesi associativa è servita come base concettuale dalla quale partire per costruire le principali procedure di valutazione delle credenze implicite come quelle appena considerate, dettando la direzione della ricerca cognitiva e sociale nello studio degli atteggiamenti.

Il successo in termini applicativi di queste procedure, è ancora oggi testimoniato dalle numerose applicazioni all’interno dei differenti domini della ricerca psicologica (salute, consumi, ambito forense e clinico). Spesso, tuttavia, quando una disciplina incontra un deciso successo all’interno della propria comunità di appartenenza, il rischio è di continuare a investire tempo e risorse lungo la stessa direzione senza mettere in discussione i propri assunti di base (gli assunti aprioristici come quello riconducibile all’ipotesi associazionista), guidati dalle conseguenze decisamente rinforzanti che si ha la possibilità di contattare (Hayes, 2004). Una situazione del genere può tuttavia alla lunga rivelarsi un limite al progresso della scienza.

4.2.2 La scienza contestuale del comportamento come alternativa all’ipotesi