Interrompere la gravidanza indesiderata è uno dei modi per consentire alle donne di godere del diritto fondamentale alla libera e responsabile scelta della maternità per garantire la quale, infatti, la bella legge n. 405 del 1975 incaricava i consultori di perseguire vari scopi, tra i quali in particolare: «assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile»; «la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti»; «la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento»; «la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso».
Si rivedeva così sotto nuova luce la capacità di procreare, «non più usata come uno strumento dall’uomo e dalla società, ma da lei utilizzata in base a una sua propria scelta» affinché la donna «non debba diventare madre contro la sua volontà, schiava e vittima della possibilità che le ha dato la natura di procreare» (Remiddi, 1976, 31). Nel manuale giuridico ora citato del 1976 peraltro si affrontava già la questione della fecondazione artificiale per la quale – pur richiamando le posizioni di chi la considerava «una nuova insidia contro la famiglia e il matrimonio» – si affermava che non vi era norma che la proibisse e che «sul problema su chi debba deciderla, non vi è dubbio che può essere solo la donna» (Remiddi, 1976, 42).
Maternità come scelta e non come destino sociale. Procreazione solo se desiderata per evitare donne prigioniere del loro stesso corpo. Fecondazione assistita dalla tecnica come potenziamento dell’autonomia procreativa delle donne, a prescindere dalla sessualità. Come si colloca in questo nuovo paradigma della maternità il principio mater semper
certa est?
Mater semper certa est13 è un brocardo latino che – affatto nato per garantire alcun diritto
della madre sui propri figli, giuridicamente sottoposti al pater familias tanto quanto la
13 Di una «risignificazione costituzionale» di questo brocardo parla Olivito (2017, 24), per sottolineare il
«rilievo costituzionale ascrivibile all’essere nato di donna», ivi, p. 25, che l’A. pone a fondamento, nell’interesse dei minori, del rifiuto di un nuovo intervento legislativo in materia di maternità surrogata e a favore della «rivalutazione» (ivi, p. 27) del divieto penalmente sanzionato «inteso nei termini di un divieto
madre – serve tuttora a fondare le presunzioni di paternità (incerta in natura e, quindi, in diritto presunta) in base ai rapporti matrimoniali intercorrenti tra la madre e il marito. Non esprime, almeno nella sua origine, alcuna primazia giuridica della donna nella procreazione né nella genitorialità. Viceversa, ha attribuito un nuovo significato a questo brocardo la scelta che il nostro ordinamento ha compiuto già a fine Ottocento di consentire alle donne di non diventare genitrici, garantendo alla madre, cioè colei che ha partorito, la possibilità di non essere nominata nell’atto di nascita (ora art. 2, l. n. 127/97): l’ordinamento riconosce che non tutte le donne che partoriscono intendono (per mille ragioni diverse) diventare madri, donne che non si assumono la responsabilità di «crescere» chi hanno partorito, vale a dire di inserirsi nell’ordine simbolico della madre (Muraro, 1991), perlomeno non nei confronti di quel/la neonato/a. Diritto questo, di sottrarsi alla maternità, tutelato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo14. Sotto
questo profilo la Corte costituzionale ha specificato peraltro che «non risultando il nome della partoriente – anche se si assuma ex aliunde essere coniugata – non è possibile individuare il marito della stessa, né rendere operativa la presunzione di paternità di cui all’art. 231 del codice civile» (sent. n. 171 del 1974), riconoscendo una radicale disparità tra i sessi anche nella costituzione del rapporto di filiazione (Piccinini, 1999, 78). Nel nostro ordinamento giuridico la relazione generativa da indicare nell’atto di nascita consente di accompagnare l’atto di accertamento della nascita con il sorgere dello status di figlia/o: si tratta di una dichiarazione in cui l’elemento della libera espressione della volontà è particolarmente garantito, ancorché si presupponga corrisponda al vero, perché rappresenta «la cerniera tra l’evento biologico della procreazione e l’instaurazione di una completa relazione giuridica di filiazione» (Piccinini, 1999, 21). È vero che la riforma del 1975 ha introdotto il «diritto allo stato di figlio» eliminando alcuni limiti all’azione per la dichiarazione giudiziale, ma sempre in un contesto in cui i genitori in via di principio sono liberi di non riconoscere, anche se in costanza di matrimonio la madre assume
di intermediazione commerciale». Nelle presenti riflessioni il percorso di risignificazione di questo principio giuridico, sebbene accolga la definizione di Niccolai (2018), Principio mater semper certa e
divieto di surrogazione in dialogo, per riscoprire il valore del materno, come «il primato materno e la
libertà femminile nella procreazione», perviene viceversa a un posizionamento critico sul divieto assoluto della procreazione per altre/i e al tentativo di enucleare alcuni principi costituzionali inderogabili nell’alveo di una piena autonomia sessuale e procreativa delle donne.
maggiori poteri qualora neghi il proprio nome, proprio perché il brocardo del padre
numquam esprime l’idea della difficoltà di dimostrare la paternità.
Soltanto la donna che partorisce e riconosce volontariamente il neonato, dunque, diventa la mater certa, viceversa quella che partorisce ma non riconosce come figlio o figlia il neonato rifiuta o rinuncia a essere madre, almeno di quel/la figlio/a.
Dopo la rivoluzione che ha toccato la maternità negli anni Settanta con la sua caratterizzazione quale scelta libera e responsabile, e non come destino sociale, questo diritto riconosciuto alla donna partoriente assume una risignificazione: la donna non è costretta a «sentirsi» madre di qualcuno neanche quando porta a termine una gravidanza e «mette al mondo» una nuova persona. Al «fatto naturale» del parto si oppone il «fatto sociale» del rifiuto (o rinuncia) di quella maternità, a volte proprio in nome della volontà di essere madre simbolica di tante altre donne.
Da tempo, dunque, è lecito immaginare una donna che decide di portare a termine una gravidanza, partorire una nuova persona, ma non farle da madre. Giuridicamente, dopo la libertà di non risultare nell’atto di nascita, è l’istituto della adozione che ha modificato il concetto di maternità o, se vogliamo, è venuta maturando socialmente e giuridicamente la consapevolezza che accanto a chi non poteva o non voleva assumere le responsabilità della relazione madre/figlia vi era chi questa responsabilità voleva assumersi pienamente, pur in assenza della biologica relazione generativa: un’esperienza della maternità coltivata nei fatti da millenni che ha trovato una propria disciplina giuridica che, purtroppo, ha ingabbiato la madre nella dimensione della coppia unita in matrimonio e, dunque, eterosessuale.
Un passaggio successivo nella concezione sociale e nell’esperienza giuridica della maternità si è compiuto con l’avvento delle tecniche di fecondazione assistita che, innanzitutto, hanno consentito di prescindere dalla sessualità: infatti, nell’immaginario collettivo degli anni Ottanta le tecniche consistevano nelle «banche del seme» cui rivolgersi per ottenere gli spermatozoi necessari ad esaudire il proprio desiderio di maternità. Non c’era più bisogno di avere accanto un uomo e per di più fertile per divenire madre. In quel contesto la Mater certa era l’espressione de «il primato materno e la libertà femminile nella procreazione» (Niccolai, 2018): donne libere e responsabili che potevano decidere di interrompere la gravidanza, altrimenti di portarla avanti e fare la madre ovvero non riconoscere il nuovo nato come proprio figlio.
Il legislatore italiano è intervenuto «a gamba tesa» a ripristinare il presunto «ordine naturale delle cose»: la legge n. 40 del 2004 dichiara di disciplinare la procreazione medicalmente assistita e lo fa in un modo che è già stato dichiarato incostituzionale in quasi tutti i suoi profili critici, che verranno richiamati oltre. Il titolo della legge dedicato alla «procreazione» è fuorviante e trova come unico appiglio la previsione del reato di «maternità surrogata», senza alcuna altra previsione in materia, pure opportuna anche in un regime di divieto penale15. Il resto della disciplina, viceversa, verte sulla mera fecondazione. Con questo slittamento di significato si riduce il processo riproduttivo alla
fase iniziale della fecondazione, l’unica fase che vede il ruolo dell’uomo rilevante quanto quello della donna, corrispondendo appieno all’intento del legislatore della legge n. 40 del 2004 di rendere la posizione dei sessi simmetrica nell’intera procreazione. Si tratta, infatti, di una disciplina quanto mai espressiva del tentativo delle norme giuridiche di sminuire e ridurre l’autodeterminazione delle donne in materia riproduttiva, sebbene dal desiderio di non maternità fino ad allora disciplinato con la legge n. 194 si passasse a regolare l’opposto: il desiderio di maternità.
Sin da subito, soprattutto, il desiderio in questione diventa, non di maternità, ma di genitorialità. Non solo si tratta di genitorialità basata sul c.d. paradigma eterosessuale, ma è evidente che il legislatore diffida apertamente della donna che non sia accompagnata in modo stabile da un uomo: a partire dalla legge n. 40 del 2004 l’accesso alla fecondazione assistita è consentito solo alle coppie, tra queste solo quelle eterosessuali16, e non alla
donna in quanto tale (art. 5, l. n. 40 del 2004)17.
15 Precedenti progetti di legge in materia disciplinavano comunque le situazioni di maternità surrogata che
nella concretezza della realtà sociale avessero dovuto presentarsi, anche in un regime di divieto penale. Si rinvia Piccinini (1999, 209 ss).
16 Proprio l’asimmetria tra i sessi nella riproduzione è alla base di alcune disparità di trattamento tra coppie
lesbiche e coppie gay. Un esempio di diritto diseguale è la loi portant établissement de la filiation de la
coparente, entrata in vigore in Belgio nel 2015, che ha esteso alle coppie lesbiche il doppio rapporto di
filiazione di nato da fecondazione assistita fin dalla registrazione all’anagrafe, disciplina prevista soltanto per le coppie di donne dal momento che in Belgio non è disciplinata la maternità «surrogata», l’unica che consentirebbe anche alle coppie gay (oltre a tutte le coppie eterosessuali la cui donna non sia in grado di portare avanti una gravidanza) di diventare genitori e, inoltre, genitore biologico almeno per uno dei partner. Su questa differenza fondante tra coppie lesbiche e quelle gay insisteNiccolai (2015), che legge nel «divieto di surrogazione di maternità» un «principio generale in materia di filiazione che protegge la qualità della relazione materna e il bene della genealogia femminile». A mio parere questa disparità non trova alcuna giustificazione costituzionale nelle procedure di adozione né nella c.d. step child adoption.
Mere ragioni di delimitazione della prospettiva mi inducono a non approfondire le riflessioni critiche sul «paradigma eterosessuale» emerso nelle sentenze della Corte costituzionale nn. 138 del 2010 e 174 del 2014. Sulle problematiche connesse si rinvia ex multis, Schillaci (2014), Pezzini (2010); Veronesi (2007).
17In questa sede dedicata all’autodeterminazione della singola persona si critica il paradigma della coppia
Se la capacità fecondativa vede i due sessi condividere lo stesso ruolo nelle scelte e nelle responsabilità procreative, non può non rilevare il dato di fatto, incontrovertibile, che gli uomini non possono né iniziare né portare a termine una gravidanza né partorire. Questa differenza fondamentale, che emerge chiaramente nella legge sull’interruzione volontaria della gravidanza alla quale accede «la donna», nella disciplina sulle tecniche di fecondazione assistita perde del tutto rilievo giuridico, contrariamente a quanto previsto in altri ordinamenti (Regno unito e Spagna)18, che riconoscono l’accesso alle tecniche alla
singola donna.
La madre sola, simbolo della «maternità indipendente», torna a essere trattata come «una reietta», se non dalla società, dalla legge19.