Il tema «riproduzione e relazioni» è oggi sottoposto a nuove, ma anche rinnovate, tensioni.
La riproduzione della società consiste in una serie di lavori di cura delle cose e delle persone tradizionalmente svolta dalle donne a titolo gratuito, ma un ruolo determinante della riproduzione nel suo insieme è quello rappresentato dalla procreazione in sé1. Se è
necessario operare una radicale trasformazione della divisione sessuale del lavoro (di cura2 e non), che a mio parere non sarà mai soddisfacente se contemporaneamente non
1 Secondo Del Re (2012, 151-170), «una prima distinzione, alquanto rozza, si può fare tra lavoro domestico,
lavoro riproduttivo e lavoro di cura. Il lavoro domestico è il lavoro elementare […], quello che serve per sopravvivere, e cioè pulire, lavare, cucinare, fare la spesa etc.; chiamiamo lavoro di riproduzione il lavoro che serve a riprodurre “la specie”: non è solo fare figli, è crescerli, è creare le condizioni indispensabili per la continuità della vita, è occuparsi delle persone dipendenti. Il lavoro di cura ha a che fare con le relazioni, con la continuità dei rapporti, con l’affetto, con il sesso. Non sono esattamente separabili, s’intersecano e si sovrappongono, anche se hanno caratteristiche peculiari e sono costituiti da compiti che possono essere attribuiti – prevalentemente – a soggetti diversi».
2 Fischer e Tronto (1990, 36-54), hanno prospettato una lettura politica e democratica della cura che ha
molto a che fare con la qualità della vita che concorriamo a determinare. In Italia il pensiero femminista che propone «il “paradigma della cura” come un rovesciamento dei modi e delle forme del pensare e del vivere», come scrive Pomeranzi (2018), è espresso ne La cura del vivere, documento de Il gruppo del
verrà ripensato il rapporto tra riproduzione sociale e produzione3, è del tutto
imprescindibile un punto fermo che deve esser esplicitato e maisottaciuto: solo il corpo della donna può procreare, cioè compiere l’insieme degli atti e dei processi che consentono di trasmettere la vita. Quest’asimmetria tra i sessi nella procreazione è, dal mio punto di vista, un punto di ancoraggio indefettibile per ogni riflessione sul tema. È chiaro che gli uomini detengono un’altra capacità, essenziale e preliminare a quella procreativa, quella fecondativa4. Quest’ultima, tuttavia, non è mai autosufficiente, e si
concretizza solo attraverso l’incontro con la simmetrica attitudine della donna. Una volta avvenuta la fecondazione, invece, solamente il corpo della donna può portare a termine il processo riproduttivo, donando vita attraverso il proprio corpo. È importante ricordare che neanche le nuove tecnologie consentono di prescindere dal corpo della donna per l’intero ciclo procreativo, ma solo per il momento fecondativo. Per tale ragione bisognerebbe parlare di tecniche di fecondazione e non di procreazione medicalmente assistita, come invece fa la legge n. 40 del 2004. L’ovulo fecondato infatti muore, anche se congelato, qualora non venga trasferito e non attecchisca nell’utero di una donna. Solo il corpo della donna dunque può accogliere, proteggere e nutrire l’ovulo fecondato finché non sarà pronto a «venire al mondo», rendendosi fisicamente persona autonoma dal corpo materno (art. 1 c.c.)5. Per contro, accade solo alle donne di restare incinta e solo
le donne non possono sottrarsi ad una gravidanza indesiderata.
L’intreccio indissolubile tra gestione del corpo femminile e riproduzione della società è alla base dei permanenti tentativi da parte dei pubblici poteri e della società stessa – che proprio per tale motivo può dirsi patriarcale – di regolare l’uso del corpo femminile, se non addirittura di sottrarre alle donne stesse l’autonomia sessuale e procreativa e la piena disponibilità sui propri corpi: la gestione del corpo della donna e del suo potere di
3 Del Re (2008, 111) constata che «se la riproduzione degli individui è analizzata nell’arco della vita delle
persone, risulta evidente che ciascuno di noi è stato prodotto da qualcuno e per parti non irrilevanti della vita è stato o sarà dipendente da qualcuno che si occupa della sua riproduzione e del suo benessere. Se si assume nell’analisi come fondamentale la riproduzione della forza lavoro si diverge radicalmente da ogni ideologia liberista che veda l’individuo esclusivamente nell’istante in cui è sano, adulto, vive da solo e basta a se stesso. Il partire dalla riproduzione degli individui mette in evidenza l’improponibilità scientifica di un’analisi dei rapporti sociali che si attesti sulle capacità produttive degli individui, escludendo la relazione e la riproduzione».
4 Si ripercorrono qui alcuni passaggi del mio “Donne e corpi tra sessualità e riproduzione” (2006), versione
ampliata di “Donne, corpo e diritto” (2007, 141-169).
procreare è funzionale al controllo sulla società che si riproduce attraverso il corpo femminile.
In questa direzione è impellente, non solo proporre un pensiero giuridico all’altezza della promessa dell’autonomia personale e collettiva, compresa quella delle donne, propria delle Costituzioni democratiche e sociali, ma pure ripensare alla base il rapporto tra riproduzione e produzione6: rapporto che ora, in un ordine globale dominato e schiacciato
dalla deriva neoliberista, tutto riduce a merce, alla proprietà e all’iniziativa economica come diritto assoluto. Non si tratta più di fronteggiare solo una visione liberale costruita sulla infondata presunzione di individui indipendenti e proprietari, di sesso maschile, bianchi, eterosessuali e in buona salute, come ha fondatamente fatto il giusfemminismo finora, ma la sua radicalizzazione in cui, sull’altare del mercato ipercompetitivo, lo sfruttamento e il dominio sono giustificati come unico orizzonte e il profitto è inteso come diritto assoluto assistito a livello internazionale dall’azione di risarcimento. In questo quadro ogni vulnerabilità e qualsiasi forma di subalternità sono peccati da scontare e debiti da ripagare con alti interessi, se non con la morte: dal femminicidio alle «morti in mare»7, passando per le morti bianche.
La liberazione dagli impari rapporti di potere non può, oggi più che mai, che nutrirsi della capacità di intersezione tra i soggetti che pur da posizionamenti diversi – per ragioni di sesso, di genere, di origine geografica, di classe, di razzializzazione, di identità e/o orientamento sessuale – intendono agire in chiave di «antisubordinazione» (Pezzini, 2009; Pezzini, 2012, 15), rivendicando il diritto alla loro piena autonomia e, dunque, alla loro pari dignità sociale.
In quest’ottica, è necessario ripensare il concetto di autonomia: l’autonomia dovrebbe essere un concetto che esprime qualcosa di profondamente diverso dall’indipendenza che caratterizza il soggetto di diritto ipotizzato dal pensiero liberale e dal pensiero giuridico
6 Si aderisce alla posizione assunta da Federici (2012, 92-107) di «difendere, a dispetto delle tendenze
postmoderne, la […] scelta di continuare a mantenere separate produzione e riproduzione […] Che il lavoro riproduttivo sia essenzialmente “lavoro vivo” e lavoro intensivo è evidente soprattutto nella cura dei bambini e degli anziani non auto-sufficienti, che anche nei suoi aspetti più fisici, ha una forte componente emotiva, dovendo fornire un senso di sicurezza, consolare, anticipare paure e desideri. Nessuna di queste attività è puramente “materiale” o “immateriale”, né può essere frammentata, in modo da renderne possibile la meccanizzazione, o sostituita da un flusso virtuale di comunicazione on-line […] Quello di cui necessitiamo è una lotta collettiva sulla riproduzione, che reclami il controllo sulle sue condizioni materiali e crei forme di lavoro riproduttivo più cooperative e meno soggette alla logica del mercato».
7 Secondo i dati di Save the children «in base alle percentuali sugli arrivi via mare in Italia nel 2017, quasi
1 persona su 4 tra le vittime e i dispersi potrebbe essere una donna o un minore, ma sappiamo che nei naufragi sono proprio loro i più vulnerabili e il numero potrebbe anche essere maggiore».
dominante. Il pensiero giusfemminista offre gli strumenti concettuali per disvelare l’infingimento di pensarsi in un continuo processo di acquisizione di indipendenza perché viceversa dalla nascita fino alla morte siamo gli uni dipendenti dagli altri, soprattutto dalle altre: si dovrebbe parlare di relazioni di interdipendenza quali uniche forme che consentono di pensare un concreto esercizio di autonomia8.