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Profili evolutivi del processo di concentrazione bancaria in Italia

L’industria bancaria italiana è stata interessata da operazioni di concentrazione bancaria solamente a partire dai primi anni Novanta, circa dieci anni dopo l’avvio del fenomeno negli Stati Uniti145. Per comprendere le ragioni del ritardo delle M&A in Italia è bene passare in rassegna i principali aspetti del mercato bancario italiano del periodo precedente agli anni Novanta che, in un certo senso, hanno ostacolato l’avvio del processo. In particolare, la situazione del mercato bancario italiano, fino alla fine degli anni Ottanta, è stata a lungo caratterizzata da una bassa concorrenzialità e, quindi, dalla presenza di banche mediamente poco efficienti. Per questi ultimi motivi il sistema bancario italiano risultava, a sua volta, in linea con l’obiettivo principale delle Autorità che controllavano il mercato le quali, essendo in quel periodo preoccupate a garantire la stabilità delle banche, badavano a far sì che il mercato continuasse a rimanere poco concorrenziale, dal momento che esse erano interessate a privilegiare più la stabilità che la concorrenza delle imprese bancarie italiane. A tal proposito, lo strumento di vigilanza utilizzato dalle Autorità di controllo per raggiungere l’obiettivo della stabilità, giudicata storicamente molto importante e perseguita a lungo con grande tenacia, era la cosiddetta vigilanza strutturale, la quale si caratterizzava per avere come campo di intervento la struttura del mercato, ovvero si proponeva di determinare la configurazione del mercato intesa come numero di imprese, quote di mercato e campo di attività di ogni impresa o categorie di imprese bancarie146.

A partire dalla fine degli anni Ottanta anche il sistema creditizio italiano, in linea con i principali Paesi europei, ha subito trasformazioni profonde e riconducibili in ultima analisi ad un aumento della concorrenza del mercato bancario italiano, generate sia dal manifestarsi di fattori comuni all’esperienza dei sistemi bancari europei, sia da fattori peculiari del nostro sistema economico e istituzionale. Come negli altri maggiori Stati Membri dell’Ue, anche in Italia i cambiamenti sono stati alimentati dall’innovazione tecnologica nel campo delle telecomunicazioni, che ha contribuito a ridurre le barriere geografiche alla concorrenza; dall’Unione Monetaria, che ha eliminato il rischio di cambio nell’Area dell’Euro rendendo più agevole per le banche la possibilità di operare negli altri Paesi aderenti alla moneta unica; e, infine, dal processo di deregolamentazione dell’attività creditizia. La deregolamentazione del settore creditizio,

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Per un approfondimento sul processo di concentrazione negli Stati Uniti si veda nota 2 – Capitolo I.

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che a partire dalla metà degli anni Ottanta ha attenuato i vincoli all’operatività delle banche italiane, si caratterizza per una serie di provvedimenti normativi, analizzati di seguito, tra i quali alcuni hanno interessato sia i principali Paesi europei che l’Italia, mentre altri sono risultati tipici solamente del nostro sistema creditizio. Per quanto riguarda i provvedimenti normativi comuni sia al nostro ordinamento che a quello europeo si devono ricordare le due note direttive comunitarie, già trattate in precedenza, ovvero la Prima direttiva comunitaria (77/780/CEE), recepita in Italia con il d.p.r. 350 del 1985, mediante il quale è stato sancito il principio della libertà di stabilimento per le banche e la Seconda direttiva comunitaria (89/646/CEE), recepita dal d.lgs. 481 del 1992, che ha introdotto il principio del mutuo riconoscimento (home country control). Per quanto riguarda, invece, i provvedimenti normativi specifici solamente dell’ordinamento italiano è bene ricordare, in ordine temporale, innanzitutto la Legge Amato del 1990147, che ha consentito la trasformazione delle banche da enti pubblici a enti privati (società per azioni), privatizzazione resa necessaria per diverse ragioni. Innazitutto perché era emerso che la natura pubblica delle banche italiane si adattava male a un mercato altamente concorrenziale come quello che si era instaurato nel nostro Paese a partire dai primi anni Novanta; poi perché il soggetto economico pubblico implicava, rispetto a quelli di natura privata, una minore sensibilità all’obiettivo dell’efficienza, che, come si dirà tra breve, ha finito per affiancare quello della stabilità e, infine, perché le imprese bancarie italiane, proprio a causa della loro natura, non potevano nè essere incorporate da enti creditizi appartenenti ad altre categorie giuridiche nè fondersi con i medesimi148. Quest’ultima ragione, in particolare, impediva la realizzazione di processi di integrazione ritenuti indispensabili per un sistema bancario efficiente, dal momento che consentiva il passaggio di banche private verso il settore pubblico, ma non un corrispondente passaggio dal pubblico al privato. Era, dunque, necessario consentire che la proprietà dell’ente potesse essere acquisita anche da soggetti privati. A tal proposito, si inserisce, all’inizio degli anni Novanta, l’esigenza del legislatore italiano di procedere ad una riforma legislativa capace di consentire alle

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Si veda Decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, decreto attuativo della Legge n. 218 del 1990, detta “legge Amato”, concernente disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico.

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imprese bancarie di assumere la forma delle società per azioni e di partecipare a processi di concentrazione bancaria senza i limiti derivanti dalla loro natura pubblica. Risale sempre agli anni Novanta la liberalizzazione degli sportelli o rimozione dei vincoli all’apertura di nuovi sportelli, mediante la quale sono stati aboliti i controlli amministrativi sulla dislocazione territoriale delle strutture bancarie.

Un ulteriore provvedimento normativo importante che, come i precedenti, ha contribuito ad aumentare il livello della concorrenza presente sul mercato bancario italiano e che ha a sua volta accresciuto gli stimoli al ricorso a strategie di crescita esterna da parte delle banche italiane, è rappresentato dal Testo Unico delle leggi in materia Bancaria e Creditizia (TUB), contenuto nel Decreto legislativo del 1° settembre 1993, n. 385 che, oltre a riprendere molte delle novità legislative sopra citate, come, per esempio, le due direttive europee in materia bancaria e la Legge Amato149, ha posto fine alla vecchia Legge bancaria del 1936. Col nuovo disegno del sistema creditizio, introdotto con il TUB del 1993, è stato definitivamente eliminato il principio di specializzazione per scadenze in base al quale le banche erano suddivise in due grandi categorie. In Italia, fino ai primi anni Novanta, si avevano, infatti, da un lato, le aziende di credito ordinario abilitate a fare operazioni attive e passive con scadenza massima di diciotto mesi e, dall’altro lato, i cosiddetti istituti di credito speciale abilitati ad effettuare operazioni attive e passive con scadenza superiore a diciotto mesi. La presenza di banche con assetti giuridico-patrimoniali differenti e non compatibili rappresentavano, quindi, un ostacolo all’aggregazione fra intermediari creditizi. Il TUB, adottando un unico modello organizzativo, ovvero quello dell’impresa bancaria, ha consentito di facilitare le concentrazioni fra banche, operazioni che in precedenza, a causa del principio di specializzazione previsto dalla vecchia Legge bancaria, risultavano invece ostacolate. Il Testo Unico, però, non si è limitato solamente ad affermare il carattere d’impresa della banca, ma ha anche riconosciuto a quest’ultima, per la prima volta nell’ordinamento italiano, la possibilità di svolgere oltre all’attività bancaria (esercizio del credito e raccolta del risparmio) anche ogni altra attività finanziaria ammessa al mutuo riconoscimento. Storicamente la gamma di attività che le banche italiane potevano svolgere era piuttosto limitata, ovvero la loro attenzione era concentrata solamente sulle attività tradizionali. All’inizio poi degli anni Novanta, con il TUB e in presenza di un

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Nel TUB del 1993 hanno, quindi, trovato sedimento sia la Prima che la Seconda direttiva bancaria, sia la privatizzazione delle banche prevista dalla Legge Amato.

mercato caratterizzato da una concorrenza sempre più intensa, per le banche di una certa dimensione la strada è risultata essere una sola, cioè quella di ampliare la gamma di attività. Nel 1993 viene, quindi, introdotto in Italia il principio della diversificazione delle attività in base al quale gli intermediari bancari possono finalmente decidere la gamma e il mix di attività che intendono svolgere. La scelta delle banche italiane non si limita però solamente all’attività da esercitare, ma, sempre a partire dai primi anni Novanta, esse devono anche indicare la formula organizzativa da assumere. A tal proposito il TUB offre, per la prima volta, agli intermediari creditizi italiani l’opportunità di organizzarsi o nella forma di banca universale, che si presenta come un’impresa unica che esercita direttamente tutte le attività che ha deciso di svolgere e che si caratterizza, quindi, per un’estrema varietà e completezza di offerta; oppure nella forma di gruppo bancario polifunzionale o plurifunzionale, che si caratterizza per la presenza di una società capogruppo (una banca o una società finanziaria) che si avvale dell’operato di più società (bancarie, finanziarie e strumentali) controllate, specializzate in una o più attività150. L’ordinamento italiano, consente, quindi, alle banche italiane la possibilità di assumere o la forma della banca universale o quella del gruppo creditizio; tuttavia, nella pratica non è possibile definire un modello “puro” di banca universale o di gruppo creditizio, in quanto si sono chiaramente affermati una pluralità di modelli ibridi nei quali convivono, variamente combinati, elementi dei modelli teorici originari151. La scelta di un modello non può, inoltre, configurarsi in modo astratto, dal momento che essa risente indubbiamente di una serie di variabili ambientali e di contesto, che devono essere attentamente valutate nel loro dinamico evolversi. Tra quest’ultime si possono ricordare senza dubbio la struttura e il grado di competitività del mercato del credito, il livello di diversificazione dei competitor, le normative fiscali152, quelle che regolano il comportamento degli intermediari finanziari e lo sviluppo tecnologico. Oltre a quanto si è detto sopra, è necessario evidenziare che risulta difficile

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Si veda M. Onado, La banca come impresa, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 495 e ss.

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La banca universale “pura”, per esempio, è una struttura che trova spazio quasi unicamente nella teoria dal momento che, per quest’ultima forma organizzativa, sono previste delle riserve di legge per l’espletamento di alcune attività finanziarie ed, in particolare, per l’attività di gestione collettiva di patrimoni, che può essere svolta solo dalle società di gestione del risparmio e dalle Sicav, e per l’attività assicurativa che può essere svolta unicamente dalle compagnie di assicurazione.

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Si pensi, a tale riguardo, agli incentivi stabiliti in Italia dalla legge Amato-Carli per la trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni.

connotare il mercato di elezione di questi modelli organizzativi anche sotto il profilo geografico.

Ciò che può spingere una banca ad organizzarsi come banca universale o come gruppo bancario sono i potenziali vantaggi/svantaggi che possono derivare dalla scelta di una delle due forme organizzative.

In particolare, la formula della banca universale è quella più semplice, più lineare e forse anche più economica, nel senso che non implica una serie di inevitabili duplicazioni di costi caratterizzanti un gruppo bancario costituito da più società. La banca universale è, infatti, in grado di gestire la diversificazione delle attività produttive al proprio interno tramite la costituzione di divisioni di prodotto, a differenza del gruppo che, in ossequio al principio della specializzazione, deve ricorrere a società prodotto controllate. È proprio la presunta capacità di gestire la diversificazione con minori costi operativi che, a parere dei fautori del modello della banca universale, le conferisce una maggiore efficienza rispetto al gruppo creditizio.

Una banca di tipo universale assicura, inoltre, una puntuale e organica unità di comando, dal momento che le varie direzioni operative rispondono tutte a un unico organismo decisionale centrale, articolato nel consiglio di amministrazione e nella direzione generale; mentre nel caso del gruppo vi sono problemi di coordinamento perché le società controllate mantengono, nonostante siano poste sotto il controllo di una capogruppo, autonomia giuridica e patrimoniale.

Tuttavia, la banca universale non può dirsi immune da elementi di debolezza e aspetti di criticità. Tra i potenziali svantaggi associati allo spiccato grado di diversificazione produttiva connaturato al modello della banca universale vi è, senza dubbio, quello legato alla possibile incapacità di combinare adeguatamente al proprio interno la cultura e la mentalità della banca a operatività tradizionale, come sono state tutte le banche italiane fino qualche anno fa, con la mentalità, la cultura e la professionalità richieste dall’esercizio di tutte le nuove attività, diverse dalla raccolta del risparmio tra il pubblico e dall’esercizio del credito, che si sono diffuse negli ultimi anni. Infine, sempre con riferimento ai potenziali inconvenienti derivanti dalla forma organizzativa di banca universale, si ha che quest’ultima caratterizzandosi per una pronunciata diversificazione produttiva, che la spinge ad inserirsi in ambiti operativi difformi dall’intermediazione creditizia tradizionale, potrebbe anche assumere un grado di

rischio sensibilmente più elevato. In altre parole, attività tipiche di una banca di investimento o di una merchant bank determinano per la banca l’assunzione di un grado di rischio sensibilmente superiore153.

Una soluzione alternativa a quella della banca universale è rappresentata, invece, dal modello del gruppo, che rende possibile l’offerta di un ventaglio ampio e differenziato di prodotti e servizi e, in tal modo, permette di consolidare la presenza sul mercato, di raggiungere praticamente tutti i target di clientela e di fronteggiare le crescenti spinte concorrenziali. Tra i potenziali punti di forza dei gruppi bancari è possibile individuare la possibilità di avvalersi di più ampi e diversificati canali di distribuzione dei servizi finanziari, di moltiplicare le possibilità di approvvigionamento di risorse finanziarie, di instaurare alleanze e relazioni con altre imprese, di agire con flessibilità in termini sia di scelta degli investimenti, sia di capacità di rispondere con immediatezza alle fluttuazioni di mercato e, più in generale, al mutare delle condizioni esterne e interne al gruppo medesimo.

Il modello in questione, a fianco dei potenziali elementi di appetibilità sopraccitati, presenta anche una serie di fattori di debolezza che devono essere gestiti con estrema attenzione. Il problema più complesso risiede nel saper combinare le caratteristiche generalistiche dei vertici con quelle specialistiche delle varie unità operative di cui il gruppo si compone, dal momento che vi può essere il pericolo di una forma di concorrenza tra le diverse unità dello stesso gruppo. Un ulteriore problema da non trascurare, di cui si è già parlato in precedenza, è quello dei costi di struttura, che può essere almeno parzialmente risolto affidando alla capogruppo o a qualche altra unità ben individuata nell’ambito del gruppo lo svolgimento di alcune funzioni “di servizio154” che possono essere esercitate a favore di tutte le unità dello stesso gruppo, evitando inutili duplicazioni.

Infine, le difficoltà di collegamento tra le diverse unità operative presenti all’interno dei gruppi bancari implicano non solo una gestione meno unitaria dei servizi e delle risorse umane e una più complessa determinazione del fabbisogno globale della clientela, ma anche maggiori problemi nella trasmissione delle informazioni, che possono generare

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Si veda S. De Angeli, Banca universale o gruppo creditizio?, op. cit., p. 31 e ss.

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Per funzioni “di servizio” si intendono funzioni che, in un gruppo ben organizzato, possono essere svolte presso singole unità che lavorano al servizio di tutto il gruppo. Ne sono un esempio le funzioni di marketing, di amministrazione del personale, di gestione dei sistemi informativi e della contabilità.

inefficienti duplicazioni nel processo produttivo e che, in generale, si traducono in una limitata possibilità di accedere a economie di informazione.

Sulla base di quanto è stato detto finora, per una banca risulta difficile capire se sia meglio gestire le proprie attività attraverso società controllate, caso del gruppo bancario, o mantenerle al proprio interno, come nel caso della banca universale. In generale, anche se la scelta del modello di cui dotarsi scaturisce, sempre più spesso, da una vera e propria scelta strategico-organizzativa del management delle banche, conseguente a una preventiva analisi comparata dei relativi costi-benefici e della sua funzionalità al raggiungimento di specifici obiettivi produttivi, reddittuali e di rafforzamento del rapporto di clientela, sembra corretto affermare che il ricorso al gruppo bancario, comportando una maggiore autonomia per le controllate, appare coerente con attività a bassa correlazione, o a elevata diversità, proprio perché attività diversificate risultano gestite meglio da società specializzate; mentre il ricorso alla banca universale, favorendo la gestione delle interdipendenze, risulta coerente con attività ad elevata correlazione.

Nel settore bancario italiano il modello di integrazione che inizialmente è stato adottato dal management dei maggiori gruppi creditizi risulta essere quello della cosiddetta banca “federale”, ovvero del “gruppo federato multibusiness” in cui la componente bancaria risulta essere fortemente caratterizzata dalla presenza di banche commerciali che operano con il proprio marchio, a livello nazionale o locale155. Si tratta di un

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I gruppi bancari con riferimento all’assetto organizzativo possono scegliere in alternativa alla configurazione di gruppo federale, quella di gruppo funzionale oppure quella di gruppo divisionale. L’assetto funzionale, innanzitutto, sembra coerente con una ridotta complessità gestionale e ambientale e si caratterizza per un pronunciato livello di autonomia/imprenditorialità concesso alle controllate dalla capogruppo che, pertanto, svolge una contenuta attività di coordinamento. Alla luce di tali presupposti, la struttura interna della capogruppo organizzata per funzioni, può essere snella e semplificata e consentire, quindi, un contenimento dei costi di struttura; analogamente i costi di coordinamento del gruppo risultano compressi, a motivo della sostanziale assenza di un controllo stringente. Questa conformazione organizzativa è tipicamente utilizzata quando, in situazioni di mercato poco competitivo, i gruppi procedono ad accrescere la loro quota di mercato attraverso strategie di integrazione orizzontale, le quali si traducono nell’espansione della propria attività non tanto mediante uno sviluppo interno, ma soprattutto attraverso processi di acquisizione. Proprio questi ultimi sembrano essere dei facilitatori all’adozione di tale modello, in quanto esso soddisfa, almeno in parte, l’obiettivo della società acquisita di mantenere un significativo grado di autonomia. Il modello funzionale, del resto, è tipico di capogruppo che svolgono un’attività bancaria tradizionale. In questa situazione le società prodotto acquisite, operanti magari in ambiti più innovativi, vengono poste alla dipendenza della direzione generale, ma con un grado di controllo poco stringente, anche a causa dell’attività specialistica da esse esercitata.

Il modello funzionale, in questi ultimi anni, è stato progressivamente abbandonato/modificato dai gruppi di maggiore dimensione. L’evoluzione della complessità e competitività dei sistemi finanziari, la progressiva tendenza alla diversificazione geografica e produttiva, infatti, hanno fatto emergere i limiti della soluzione esaminata che consistono in un controllo direzionale molto blando, in frequenti e

modello che scaturisce dall’esigenza delle banche di perseguire contemporaneamente l’obiettivo di ottenere economie di scala e quello di mantenere un adeguato radicamento territoriale. In particolare, sono le banche con vocazione locale che manifestano un’elevata sensibilità al mantenimento dei propri caratteri distintivi, della propria identità operativa e al radicamento territoriale.

Il gruppo federale, che come si è già detto sopra, rappresenta il modello più diffuso nel nostro ordinamento, si caratterizza per avere una organizzazione di tipo accentrato con significativi poteri attribuiti alla capogruppo. Quest’ultima si distingue, a sua volta, per il fatto di assumere in prevalenza compiti di indirizzo strategico, di coordinamento e di controllo e per la capacità di mantenere accentrata la gestione di alcuni processi come quello della finanza e della tesoreria, di pianificazione e di controllo, di gestione dei rischi ed del coordinamento delle politiche di impiego per clienti di grandi dimensioni. A valle della holding si posizionano invece le società strumentali, che producono per il gruppo una serie di servizi operativi, quali i processi di back office, i servizi generali, la elaborazione dati e i sistemi informativi, la logistica, la gestione del patrimonio immobiliare e la formazione del personale; le società prodotto, che producono per le banche federate servizi destinati alla clientela (asset management, assicurazioni,

conseguenti comportamenti opportunistici da parte delle controllate e, a cascata, in una scarsa tensione all’efficienza. Tutti questi fattori uniti a stimoli a procedere ad adeguamenti dei processi di governo e a riorganizzazioni per segmenti e prodotti, hanno incentivato il passaggio a una struttura di gruppo