Come in ogni società magica, anche quella descritta dall’autrice prende le sue precauzioni e utilizza le sue tecniche di controllo del male che possiamo fare
agli altri e di quello che possiamo subire.
Ecco il testo ci parla di un altro dei feticci magici più cari alla letteratura
esoterica, gli amuleti: “uno degli strumenti protettivi più diffusi è l’amuleto, cui
ciascuno confida la propria sicurezza, utilizzandolo come oggetto di protezione”45.
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L’amuleto può essere un oggetto regalato da qualcuno proprio per portarci fortuna, così come un oggetto fabbricato o acquistato, magari “benedetto” da un operatore magico.
La principale funzione dell’amuleto, (elemento che ritroviamo di nuovo in moltissime culture, basti pensare all’onnipresenza del Nazar nella cultura turca e pre-islamica, al corno, la campa di coniglio ecc.), è quello di respingere l’occhio malo, l’invidia e tutte quelle energie distruttive che potrebbero venirci riversate contro, volontariamente o meno.
Di solito, quando l’amuleto entra in funzione, questo si rompe, dimostrando di aver svolto il suo dovere e la sua funzione come riportato nella seguente
testimonianza:
“Un giorno mia sorella usciva dalla chiesa con il bambino, e una signora le disse: ‘Che bella creatura!’, in quel momento il bambino si è ammalato. Tornati a casa, si scoprì che il cocco (amuleto sardo) si era spezzato. Se non l’avesse avuto, non si sarebbe ammalato, ma sarebbe morto”46. Questo esempio oltre a
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mostrare l’amuleto in funzione ci mostra la potenza e la violenza del malocchio, il potere terribile delle parole mortali che travolgeranno la Saada nei capitoli
successivi. Ne esce fuori una società fatta di terrore, un mondo carico di una
violenza latente dove si può arrivare a perdere un figlio o morire, per un semplice gesto d’invidia.
3.11 - Il male in noi
Le dinamiche del malocchio che ci descrive la Gallini, nonostante la sua visione
puramente socio-culturale, non mancano di trovare forti similitudini con la
letteratura magica generale. Ecco quindi che la risposta al malocchio viene anche qui effettuata da operatori particolari. Si parla di andare “in casa delle persone, che sanno dare la medicina”47, si fa riferimento a “Zia Barbara”, donna
capace di togliere il malocchio attraverso particolari ritualistiche, di “donne adatte” e così via.
Torna la figura della fattucchiera nella connotazione positiva e negativa,
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interessante come la predominanza di queste guaritrici sia proprio femminile,
elemento che rimanda al paganesimo e alla figura delle streghe e prima ancora
delle sacerdotesse, forse andando a sprofondare fino a società sciamaniche e
religioni primordiali fondate sul matriarcato.
Il punto sul quale ancora la Gallini si sofferma è la pesantezza della società e come questa possa portare a un malessere autoindotto. Non è quindi l’invidia a fare male ma la paura stessa dell’invidia, la studiosa a nostro avviso, prova ancora a riportatore il tutto entro dei limiti razionali, in una situazione di comprensione che non faccia sprofondare anche lei all’interno del mondo magico, in quella realtà oscura sul bordo della quale sembra spingersi per brevi
istanti anche la razionalissima Gallini.
Si notano momenti di incertezza nelle ultime fai dell’opera, “credere che il proprio male sia causato involontariamente da una certa persona è un modo per configurare e controllare rapporti di ostilità”48 spiega l’autrice; “oppure una
tecnica generica, nel senso che tende a configurare e a controllare generici
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impulsi invidiosi e di sospetto che la situazione ha generato più o meno nei confronti di tutti gli altri membri della comunità?”49.
Troviamo ancora una vola la studiosa a fare i conti con il vaso di Pandora che ha
aperto, la vediamo nel tentativo di tenere in piedi la sua teoria introducendo il
concetto di responsabilità.
Il malocchio può essere volontario o meno, l’involontarietà diventa però il collante che permette di tenere in piedi la struttura sociale della realtà contadina
descritta. Non si è necessariamente colpevoli, è una forza che può sprigionarsi
anche senza che possiamo controllarla, tutti siamo vittime, tutti siamo carnefici.
Vengono portati esempi di malocchio dato da generici passanti che finiscono
quasi in secondo piano rispetto al male e alla descrizione della guarigione. Si torna quindi sui temi dell’invidia, della paura della lode, di tutti quegli elementi prettamente sociali che non riescono però, nonostante gli sforzi dell’autrice, a rispondere in modo chiaro a una serie di quesiti lasciati in sospeso.
Interessante è proprio come nel capitolo “dinamiche interne ed esterne” del testo
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qui analizzato, l’autrice ignori totalmente la figura della guaritrice, il costante rimando a una comunità di ordinatori capaci di mediare tra il cittadino comune e
quel mondo di forze e energie che non ci è dato controllare.
Sono continui invece i richiami a queste donne, ogni episodio che la Gallini ci
riporta crea una situazione di tensione che raggiunge poi la sua risoluzione proprio nell’intervento magico. Affrontando la questione sotto un punto di vista parapsicologico, magico o prettamente razionale e sociologico, mi pare che
questa figura non possa essere ignorata e che scavalchi di prepotenza il valore degli eventi riportati, facendo tremare l’intero impianto sociale messo in piedi fin dalla prima pagina di “Dono e Malocchio”.
Ci troviamo in questo caso di fronte alla più plausibile delle spiegazioni, una
volta però addentratici nel profondo degli episodi descritti, troppi dubbi irrisolti,
e troppe forzature sociologiche mettono a repentaglio l’intero ragionamento che l’autrice di propone.
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3.12 - La Medicina
L’analisi della cura del malocchio viene svolta all’interno del testo in maniera superficiale, si parla di intervento della terapia magica “necessario per
ricondurre alla normalità quel rapporto comunitario che si era drammaticamente interrotto”50.
Il potere delle curatrici viene descritto come un mero riconoscimento della
figura materna delle donne in questione. Mi sembra di essere di fronte a una
spiegazione posticcia, a una toppa che tiene in piedi una struttura pericolante.
Nonostante il rapporto sciamanico che si crea durante la cura del malocchio
abbia un aspetto strettamente privato e segreto (basti pensare alle formule
bisbigliate, spesso incomprensibili, al mantenimento del segreto sulle tecniche di
cura magica che vengono tramandate solo in determinate occasioni), si insiste
sul concetto di comunità.
Quello che si evince invece dai resoconti registrati dall’autrice, è una forma strettamente privata della malattia magica e della sua cura, un concetto che
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troviamo in forma più chiara nella letteratura De Martiniana, quando si parla per l’appunto, di un media capace di fare da intermediario tra l’individuo e lo sconosciuto. Le donne di cui la Gallini ci racconta non sono donne comuni, il
processo che trasforma un individuo in un guaritore è molto più complesso di un
riconoscimento da parte della comunità. Il riconoscimento avviene, certo, ma
non quello di una figura materna, quanto quello di una figura dotata di poteri o custode di una conoscenza che va al di fuori di quella dell’individuo comune. La nascita di uno sciamano, in tutte le società, è un evento strettamente
individuale e tremendamente drammatico, spesso l’iniziazione è fortemente
traumatica. Senza comunità non esiste sciamano, questo non significa però che
sia la comunità con le sue credenze a dar vita a uno di questi.
Poco plausibile è anche l’idea di figura sciamanica come riscatto della donna in una società che vede la figura femminile adatta solo alle arti non materiali,
questo andrebbe a cozzare con tutte le altre tradizioni e con le figure magiche
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anche in quella del malocchio pugliese descritta da De Martino.