loavevano potuto
mai
soffrire, forseperchè unico101
maschio e ultimo nato, forse perchè esse,
pove
rette, erano tutt'e quattro brutte,
una
più brutta dell'altra, e lui (oh vanità! oh miseria!) bello, lui, lino iino, biondo e riccioluto.La
sua bellezzadoveva
parer lorodoppiamente
superflua, essendo egliuomo
e fin dall'infanzia destinato, col pia-cer suo, al sacerdozio.Prevedeva
che sarebbero avvenute scene disgustose, scandali, liti, almo-mento
della divisione ereditaria. Già i cognatiavevano
fatto apporre i suggelli alla cassaforte e alla scrivania nelbanco
del suocero,morto
intestato.
Ohe
c'entrava intantorinfacciare aluiciò che iministri di
Dio avevano
stimato giusto e oppor-tuno pretenderedalpadre perchèmorisse dabuon
cristiano? Ahi, per
quanto
crudele potesse riu-scire al suo cuore di tìglio,come non
riconoscere che labuon'anima
avevapertanti anni esercitato l'usura e senza in parteneppur
quella discre-zionechepuò almeno
attenuare il peccato?Vero
è che con la stessa
mano,
con cui aveva tolto,aveva anche
dato, enon
poco;non
erano però, a dir proprio, denari suoi; e per questo appunto,forse, i sacerdoti di
Montelusa avevano
stimato necessarioun
altro sacrifizio, all'ultimo. Egli, da parte sua, s'era votato aDio
per espiare con la rinunzia ai beni della terra il gran peccato in cui il padre era vissuto e morto.E
ora, per102
quel che glisarebbe toccato dell'eredità paterna, era pieno di scrupoli e si
proponeva
di chiederlume
e consiglio a qualche suo superiore, a mon-signor Landolina per esempio, direttore del Col-legio degli Oblati, sant'uomo, giàsuo confessore, di cui conoscevabene
l'esemplare, fervidissimo zelo di carità.Tutte quellevisite, intanto, lo imbarazzavano.
Per
quel che volevanoparere, datalaqualità dei personaggi, rappresentavano per luiun
onore immeritato; per il fine recondito cheleguidava,
un
avvilimento crudele.Temeva
quasi d'offen-dere a ringraziare per quell'apparenza d'onore cheglisifaceva;anon
ringraziareaffatto,temeva
di scoprir troppo il proprio avvilimento e d'ap-parir
doppiamente
sgarbato. D'altra parte,non
sapevabene
checosagli volessero dir» tutti quei signori,né
che cosadoveva
rispondere, nécome
regolarsi. Se sbagliava! se commetteva, senza volerlo, senza saperlo, qualche
mancanza?
Egli voleva ubbidire ai suoi superiori,sempre
e in tutto. Così, ancor senza consiglio, si sentiva proprio sperduto inmezzo
a quella folla. Preseil partito di sprofondarsi su
un
divanuccio sgan-gherato in fondo allo stanzone polveroso e sguarnito, quasi al bujo, e di fingersialmeno
in principio così disfatto dal cordoglio e dallo
103
strapazzo del viaggio, da
non
potere accogliere senon
in silenzio tutte quelle visite.Dal
canto loro ivisitatori,dopo
avergli stretto lamano,
sospirando e con gli occhi chiusi, simettevano
a sedere giro giro lungo le pareti e nessuno fiatava e tutti parevano immersi in quel gran cordoglio del figlio. Schivavano intanto di guardarsi l'un l'altro,come
se a ciascuno faces-se stizza che gli altri fossero venuti là a dimo-strare la sua stessa condoglianza.Non
pareval'ora a tutti d'andarsene,
ma ognuno
aspettava cheprima
se n'andassero via gli altri per dir sottovoce, a quattr'occhi,una
parolina a dou Arturo. Così nessuno se n'andava.Lo
stanzone era già pieno e i nuovi arrivatinon
trovavanpiù. posto
da
sedere e tutti gonfiavano in silen-zio e invidiavano i fratelli Morlesi che 'almenonon
s'avvedevano deltempo
chepassava, perchè, al solito,appena
seduti, s'erano addormentati tutt'e quattro profondamente.Alla fine, sbuffando, s'alzò per primo, o piut-tosto scese dalla seggiola il barone Cerella, pic-colo e tondo
come una
balla, e dri dri dri, conun
irritatissimo sgrigliolìo delle scarpe di cop-pale,andò
fino al divanuccio, si chinò verso don Arturo, e gli disse piano:— Con
permesso, padre Filomarino,una
pre-tiMera.
104
Quantunque
abbattuto,don
Arturosi levò su-bito in piedi:— Eccomi
a lei, signor barone !E
loaccompagnò,
attraversando tutto lo stan-zone, fino alla saletta d'ingresso. Eitornò poco dopo, soffiando, a sprofondarsi nel divanuccio;
ma non
passaronodue
minuti cheun
altro si alzò evenne
a ripetergli:— Con
permesso, padre Filomarino,una
pre-ghiera.Dato
l'esempio,cominciòla sfilata.A uno
a uno, di due minuti indue
minuti, s'alzavano, e...ma
dopo
cinque o sei,don
Arturonon
aspettò piùche venissero a pregarlo fino al divanuccioin fondo allo stanzone;appena vedeva uno
alzarzi, accor-reva pronto e servizievole e loaccompagnava
fino alla saletta.
Per uno
che se n'andava però,ne
sopravvenivano altri due o tre alla volta, e quel supplizio minacciava dinon
aver più fine per tutta la giornata. Fortunatamente,quando
furono le tre del pomeriggio,non venne
più nessuno. Eestavano nello stanzonesoltanto i fra-telli Morlesi, sedutiuno
accanto all'altro, tutt'e quattronella stessa positura, coi capi ciondoloni sul petto.Dormivano
lì da cinque ore.Don Arturo non
si reggevapiù su le suegam-be. Indicò con
un
gesto disperato alla giovine governante napoletanaqueiquattro dormientilà.105
—
Voi andate a mangiare,don
Arturì,—
gli disse quella.—
M<>' ci pens'io.Ma,
svegliati edopo
aver volto un bel po' in giro gli ocelli sbarrati, rossi di sonno, per racca-pezzarsi, i fratelli Morlesi vollero dire anch'essi la parolina in confidenza adon
Arturo, e invano questi si provò a far loro intendere chenon
ce n'era bisogno, che già aveva capito e che a-vrebbe fatto di tutto per contentarli,come
gli altri, fin dove gli sarebbestato possibile. Invano.I fratelli Morlesi
non
volevano soltanto pre-garlocome
tutti gli altri di fare inmodo
che venisse a lui la loro cambiale nella divisione dei crediti,non
volendo cadere sotto le grinfe degli altri eredi;avevano anche
da fargli notare che la loro cambialenon
era già,come
figurava,di mille lire,
ma
di sole cinquecento.— E come?
perchè!— domandò,
ingenua-mente,don
Arturo.Si misero a rispondergli tutt'e quattro insieme, correggendosi a vicenda e ajutandosil'un l'altro
a condurre a fine il discorso:
—
Perchè suo papà, buon'anima, purtroppo...—
No, purtroppo... per... per eccesso di...—
Prudenza!—
Dice, firmate per mille...— E
tant'è vero che gli interessi...— Come
risulterà dal registro...106
—
Interessi del ventiquattro,don
Arturo! del ventiquattro! del ventiquattro !—
Gliabbiamo
pagati soltanto percinquecentolire, puntualmente, fino al quindici del
mese
scorso.
—
Risulterà dal registro...Don
Arturo,come
se daquelle parole sentisse ventarlefiamme
dell'inferno, appuntivalelabbra e soffiava e soffiava, passandosi lapunta
dellemani immacolate
su le sopracciglia. Si dimostrò grato della fiducia che essi,come
tuttigli altri,riponevano in lui, e lasciò intravedere
anche
a loro quasi la speranza che egli, dabuon
sacer-dote, forsenon
avrebbe voluto sapere di quei denari.Non
poteva però contentarli tutti, pur-troppo, essendo cinque gli eredi enon
potendo egli disporre a piacer suo che d'un quinto dell'eredità.Quando
in paese sivenne
a sapere chedon Arturo
Filomarino, in casa dell'avvocato scelto per la divisione ereditaria, discutendo con gli altri eredi circa gli innumerevoli crediticam-biarli,