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La questione del made in Italy

Nel documento Reti di contratti e reti di imprese (pagine 41-47)

Appare interessante un approfondimento di una risorsa di fiducia che le imprese italiane possono vantare nella propria attività di produzione, attraverso lo sfruttamento dell’eccellenza ricollegata alla provenienza e all’origine controllata dei propri prodotti.

In realtà, affinchè un prodotto sia considerabile come made in Italy, è

sufficiente che il principale processo produttivo awenga all'interno del territorio italiano.

Così, ad esempio, l'olio extravergine di oliva spremuto in Italia è made in Italy anche se le olive sono coltivate e raccolte in Tunisia, un paio di scarpe sono made in Italy quando vengono assemblate in Italia, poco importa se il taglio e l'orlatura della tomaia avvengono in Serbia o Romania.

Il danno che ne deriva è di tutta evidenza. Scomparsa di posti di lavoro, perdita per lo Stato italiano di introiti fiscali. D’altra parte, però, le imprese incrementano i propri profitti in modo esponenziale perchè immettono sul mercato prodotti avvertiti come esclusivi dai consumatori in quanto recanti il marchio "made in Italy" anche se di fatto la produzione in Italia non avviene.

Si segnala incidentalmente che tale pratica costituisce anche un pericolo per il consumatore, indotto a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe concluso, secondo lo schema delle pratiche commerciali scorrette, in particolare delle pratiche commerciali ingannevoli31.

31 Sul punto esiste ampia e approfondita bibliografia. AA.VV, Cinque voci sulla

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Il Legislatore ha intrapreso un cammino parlamentare per riformare questo aspetto della normativa affinchè "le fasi di lavorazione, abbiano luogo prevalentemente nel territorio nazionale e, in particolare, se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore siano state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità.

Se la riforma entrasse in vigore è lecito aspettarsi che alcune fasi produttive rimarrebbero in Italia, ad altre addirittura vi farebbero ritorno, perchè molti imprenditori non sarebbero disposti a perdere il marchio di provenienza italiana, fonte di clientela tra i consumatori esteri.

Ed invero va sottolineato che in questo caso la proposta di legge è partita dal basso, da un'esigenza avvertita nella realtà, in netta controtendenza con l'attività legislativa di questi ultimi anni che tende ad allontanare sempre più il momento legislativo da chi, lo dice a chiare lettere la Costituzione , è il sovrano dello Stato Italiano: il popolo. La legge (denominata Reguzzoni-Versace-Calearo) nasce dall'iniziativa congiunta di alcuni imprenditori lombardi (tra cui Santo Versace, patron dell'omonima casa di moda Versace interamente di proprietà di detta famiglia) e alcuni parlamentari di schieramenti diversi .

I profili di delicatezza della questione sono di immediata evidenza.

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La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in proposito con la sentenza n. 166/2007 della Cassazione Penale sez. III precisa che l'art. 4, co. 49 della L. 350/2003 come modif. dal d.1. n. 35/2005 ha fissato le "condizioni che devono ricorrere per stabilire quando un prodotto possa qualificarsi come fabbricato o non fabbricato in Italia; con l'emanazione di tale norma, il legislatore ha inteso meglio definire l'ambito della illecita provenienza dei prodotti con segni mendaci, senza però fissare una definizione di «origine» o di «provenienza)) che si discosti da quella costantemente enunciata dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale, ai sensi ,dell'art. 517 c.p., per origine o provenienza di un prodotto deve intendersi la provenienza del prodotto stesso da un determinato produttore e non già da un determinato luogo, limitandosi a prevedere che l'utilizzo di diciture quali «prodotto in Italia)) o made in Italy, nel caso che un prodotto fabbricato all'estero per conto di un produttore italiano, risulta sicuramente idoneo a trarre in inganno il consumatore ai sensi dell'art. 517 C.p.”

D’attualità è poi il caso del sequestro, disposto dal p.m. di Firenze nel 2009 e riguardante una partita di camicie prodotte in Serbia e da tale paese provenienti recanti l'etichettatura: "prodotto e distribuito da FI Studio s.r.l. Floreze Italy" e la marca: "Romeo Gigli" ma prive della dicitura "Made in Serbia".

Il rischio, infatti, consisteva nel fatto che i consumatori fossero erroneamente indotti a pensare che il prodotto fosse prodotto in Italia data l'etichettatura evocante la città di Firenze e la marca di una nota impresa Italiana.

A seguito di apposita istanza al tribunale del riesame, il sequestro venne revocato a condizione che sulle camicie in questione fosse apposta la dicitura made in Serbia.

Secondo la suprema Corte, che nell'argomentare la propria decisione compie una panoramica della recenta legislazione sull'argomento, fino

alla già citata legge 350/2003, nessun obbligo era previsto in merito all'indicazione dei luoghi di produzione dei prodotti importati in Italia recanti marchi di imprese italiane

La legge 99/09, invece, estende il significato di indicazione fallace, facendovi rientrare anche i casi in cui prodotti confezionati all'estero recassero marchio italiano omettendo "l'indicazione precisa ed a caratteri evidenti" della provenienza.

La legge 166/09 opera una espressa abrogazione di suddetta norma configurando la fattispecie in oggetto non già come un illecito penale ma introducendo al contempo una nuova forma di illecito amministrativo che si verifica quando provenienza e marchiatura sono suscettibili di indurre il consumatore a confidare nella provenienza italiana di un prodotto che, invece, è prodotto all'estero.

Questa norma, protesa alla tutela del made in Italy crea non poche questioni a livello comunitario in quanto, di fatto, impedisce una libera circolazione delle merci, infatti mira ad inibire non propriamente merci contraffatte e quindi, ad esempio, prodotte all'estero e marchiate made in Italy, ma è volta a bloccare quelle merci che, formalmente, non sono marchiate in modo non conforme e veritiero sono idonee ad indurre in errore il consumatore.

In ogni caso, può concludersi che la provenienza del prodotto dalla filiera italiana costituisca un valore aggiunto che può incrementare la competitività della rete, che di essa faccia un proprio punto di forza sul mercato.

A questa tematica, peraltro, risulta strettamente correlata la questione delle risorse di fiducia dell’ imprenditore, che sempre più spesso costruiscono il collante delle reti di imprese, con particolare riferimento alle reti complesse.

Di tali aspetti si darà conto diffusamente nei prossimi capitoli, cui pertanto si rinvia.

CAPITOLO 2

I modelli di aggregazione nel mercato

Nel documento Reti di contratti e reti di imprese (pagine 41-47)