Nominativo e vocativo: tratti inerenti e tratti comun
2.2 La metafora della caduta e la concezione degli antich
2.2.3 Il quinto caso
Il titolo di un libro perduto di Crisippo, tramandato da Diogene Laerzio (VII, 189 =
S.V.F. II: 6, r. 2), ha dato il via a un acceso dibattito sulla concezione del vocativo secondo
gli stoici. Tale titolo, infatti, Περὶ τῶν πέντε πτώσεων (‘Sui cinque casi’), essendo l’unico frammento rimasto dell’opera, ha spinto gli studiosi a domandarsi se il quinto caso potesse essere o meno il vocativo e a cercare una risposta attraverso l’interpretazione di altre fonti e testimonianze sull’argomento.
Il problema fondamentale è che al tempo degli stoici i casi non erano ancora stati fissati in forma definitiva (o perlomeno non vi sono prove) né erano stati identificati tutti con un proprio nome. Ci si chiede, pertanto, se sia possibile conoscere ugualmente il modo in cui il vocativo veniva considerato, se una πτῶσις come le altre, una categoria a sé o se fosse del tutto escluso dalla discussione sui casi.
«Il fatto che il vocativo non sia preso in considerazione da Aristotele, negli scritti che ci rimangono, dipende – l’abbiamo detto – dall’interesse prevalente del filosofo per questioni di logica e, quindi, per gli enunciati di tipo apofantico. Parimente l’interesse della logica stoica per le forme che funzionano in effettivi enunciati predicativi avrà contribuito a mantenere ai margini le considerazioni sul vocativo»121.
Non abbiamo, dunque, testimonianze esplicite relative al caso vocativo; gli stoici, tuttavia, si cimentarono anche nell’analisi e nella classificazione di altri tipi di frasi, non predicative, tra le quali rientrava l’apostrofe e, indirettamente, anche il vocativo. Nel
120
Belardi (1990: 22).
121
seguente passo di Diogene Laerzio (VII, 66-68 = S.V.F. II: 60, rr. 40-42; 61, rr. 1-21 =
F.D.S.: 874), infatti, è presente un sintagma nominale al vocativo per fornire un esempio
di frase allocutiva:
προσαγορευτικὸν δέ ἐστι πρᾶγμα, ὅ εἰ λέγοι τις, προσαγορεύοι ἄν, οἷον Ἀτρείδη κύδιστε, ἄναξ ἀνδρῶν Ἀγαμέμνον122.
«L’allocuzione è l’espressione che una volta pronunciata suona così ‘Nobilissimo Atride, dominatore di uomini Agamennone’»123.
Molti studi riportano anche la testimonianza di Ammonio (Busse 1897: 2, r. 26 =
S.V.F. II: 61, rr. 43-45; 62, r. 1= F.D.S.: 897), in cui viene associato un nome a ogni tipo
di discorso.
καλοῦσι δὲ οἱ Στοικοὶ τὸν μὲν ἀποφαντικὸν λόγον ἀξίωμα, τὸν δὲ εὐκτικὸν ἀρατικόν, τὸν δὲ κλητικὸν προσαγορευτικόν
«gli stoici chiamano aksíōma il discorso predicativo, chiamano aratikón il discorso precativo, chiamano prosagoreutikón il discorso vocativale, l’apostrofe»124.
Queste testimonianze hanno offerto vari spunti di riflessione e di dibattito agli studiosi125. Ci si limiterà qui a fornire un quadro essenziale delle posizioni più rilevanti e a individuare tre punti critici su cui si scontra la letteratura, riassumibili nelle seguenti domande:
1) il vocativo è considerato un caso dagli stoici (può identificarsi, dunque, con il quinto caso di cui parla Crisippo)?
2) Tale quinto caso può essere costituito dall’avverbio?
122
S.V.F. II: 61 rr. 10-12.
123
Trad. di Donati (2009: 22, nota 10).
124
Trad. di Belardi-Cipriano (1990: 123).
125
3) Partendo dal presupposto che il vocativo sia anch’esso una πτῶσις, rientra o meno tra i casi obliqui?
Per quanto riguarda il primo punto, le tesi più note sono quelle di Steinthal (1862 [1971: 302]) e Pohlenz (1939: 169). Il primo esclude il vocativo dal novero dei casi, poiché per gli stoici avrebbe indentificato un tipo di discorso; ad esso si oppone Pohlenz (1939: 169) che non vede nelle prove addotte dallo Steinthal un’argomentazione valida per non considerare il vocativo una πτῶσις: se il vocativo è incluso nella frase allocutiva non è implicito il fatto che non venga inserito anche nel sistema dei casi126. Lo stesso Steinthal, in seguito sostenuto da Hjelmslev (1935 [1972: 4]), – che pure escludeva il vocativo poiché non esprimeva la relazione tra due oggetti (1935 [1972: 97]) – ritiene che Crisippo si riferisse al quinto caso come all’avverbiale127.
Che il vocativo fosse il quinto caso di Crisippo è invece dato per certo da Calboli e da Belardi e Cipriano. La differenza delle loro posizioni risiede nel fatto che Calboli lo considera un caso obliquo. Belardi e Cipriano ritengono invece che, dalla testimonianza di Diogene Laerzio (VII, 65 = F.D.S.: 696) tratta dal sommario di Diocle di Magnesia, si possa affermare con certezza che il vocativo non fosse un caso obliquo128; non figura infatti nel seguente elenco: πλάγιαι δὲ πτώσεις εἰσὶ γενικὴ καὶ δοτικὴ καὶ αἰτιατική.
I due studiosi (1990: 124-136), inoltre, effettuano un’analisi dettagliata dei passi di Varrone in cui si parla del vocativo (ling. 8, 42; 68; 9, 43; 91), al fine di provare che in essi non vi sia alcun indizio del fatto che il vocativo venisse considerato un caso obliquo, come invece Calboli ha cercato di dimostrare (1971: 120-122; 1972: 95).
Per quanto riguarda la questione della denominazione del caso, si può dire, con relativa certezza, che gli stoici non avevano assegnato un nome al vocativo (e il fatto non stupisce visto che, come si è detto, non ci sono prove di un riferimento diretto ad esso). Collart (1954: 165, nota 1) giunse a parlare dell’esistenza della κλητικὴ πτῶσις nella terminologia stoica, ma la sua proposta deriva da un’errata traduzione di Ammonio, il quale non attribuiva affatto il termine κλητικὸν alla dottrina della Stoà; κλητικὸν era semplicemente il tipo di discorso (cfr. traduzione sopra citata).
126
Cfr. Belardi-Cipriano (1990: 123).
127
Posizione contrastata da Barwick (1933: 592) e Pohlenz (1939: 169). A tal riguardo si vedano Belardi-Cipriano (1990: 123); Calboli (1971: 115-117; 1972: 94-95).
128
Sicuramente però, la concezione del vocativo come πτῶσις, ossia come forma modificata del nome, era propria degli stoici. Donati (2009: 25-29) apporta decisive argomentazioni a questa tesi, citando ulteriori fonti129 in cui il vocativo veniva usato anche all’interno di altri tipi di frasi, ad esempio quella imperativa. Ciò vuol dire che il vocativo poteva essere parte di una frase allocutiva come di una diversa tipologia di frase e poteva anche costituirne una indipendentemente; proprio per questo non doveva di certo essere escluso dalla categoria: «questo avvalora senz’altro la tesi che il vocativo fosse considerato, a tutti gli effetti, un caso, anche se probabilmente con alcune particolarità. Quantomeno esclude la possibilità che il vocativo debba essere espunto dai casi stoici perché visto solo come un tipo di discorso»130.