TITOLO I – IL PARLAMENTO Sezione II – La formazione delle legg
8.5 Le ragioni del “Sì”
A favore della riforma vi erano innanzitutto gli allora partiti di Governo, promotori della riforma, cioè il Partito Democratico, il Nuovo Centrodestra, l’Unione di Centro, Scelta Civica ed altri partiti minori alcuni dei quali assicurano al Governo un «appoggio esterno» come l’Alleanza Liberalpopolare-Autonomie di Denis Verdini (c.d. «verdiniani»).
I punti a favore del «sì» più comunicativamente spendibili erano la diminuzione del numero dei parlamentari e i risparmi sui loro stipendi.
Basti pensare al quesito referendario che risultava così formulato: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente "disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione", approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?»154.
I risparmi sarebbero stati ottenuti dall’abolizione del CNEL, dal fatto che i senatori non avrebbero più ricevuto uno stipendio e dalla definitiva abolizione delle province.
154 Per i sostenitori del no tale titolo, che secondo alcuni osservatori sarebbe stato così formulato tenendo
appositamente conto che sarebbe poi comparso sulle schede referendarie, risulterebbe fuorviante in quanto tendente a enfatizzare i buoni propositi della riforma senza dare concrete indicazioni sulle modalità con cui se ne dà applicazione, celando allo stesso tempo gli aspetti negativi e gli altri punti toccati dalla riforma. Il 5 ottobre 2016 rappresentanti del Movimento 5 Stelle e di Sinistra Italiana hanno presentato un ricorso al TAR del Lazio chiedendo un quesito più imparziale e in cui siano elencati tutti gli articoli modificati della Costituzione, nonostante abbia già avuto una valutazione al momento della richiesta del referendum dall'Ufficio centrale della Cassazione. Il 20 ottobre 2016 il TAR ha dichiarato il ricorso «inammissibile per difetto di giurisdizione».
In occasione del question time dell’8 giugno 2016 il ministro per le riforme Maria Elena Boschi, in risposta al quesito formulato da un deputato di Sinistra italiana, puntualizzava che «con il taglio del 33% delle indennità e rimborsi dei senatori avremo un risparmio di 80 milioni l’anno, a cui si aggiungono circa 70 milioni l’anno per il funzionamento delle Commissioni, per esempio, d’inchiesta, per la riduzione dei rimborsi ai gruppi parlamentari al Senato, a questo vanno aggiunti una progressiva riduzione dei funzionari che saranno necessari grazie al ruolo unico e all’unificazione di Camera e Senato per la gestione del personale. Dal superamento delle province il risparmio è di 320 milioni l’anno e di 20 milioni dalla soppressione del CNEL». Secondo i dati forniti dal ministro, il risparmio di spesa sarebbe ammontato a circa 490 milioni di euro l’anno.
In una nota della Ragioneria dello Stato del 28 ottobre 2014 però, si parlava di 49 milioni dal taglio del numero dei senatori e delle relative indennità e di altri 8,7 dalla chiusura del CNEL. Nello stesso documento, con riguardo ai risparmi derivanti dalla soppressione delle province, si parla di cifre non quantificabili.
Se da un lato, pertanto, il risparmio di spesa era certo, dall’altro la sua quantificazione era più incerta, considerando poi che parliamo al massimo di mezzo miliardo di euro su un bilancio pubblico di circa 500 miliardi di euro l’anno.
Le ragioni più «sostanziali» a favore del «sì» erano invece la semplificazione dell’iter legislativo, ottenuta grazie alla riduzione delle competenze del Senato e alla fine del bicameralismo perfetto.
Il 23 maggio 2016 quasi duecento giuristi tra professori ordinari, associati e ricercatori 155 protagonisti della vita accademica degli atenei italiano avevano
sottoscritto un «manifesto per il sì» al referendum sulla riforma costituzionale che si apriva sottolineando come «dopo anni e anni di sforzi vani, il Parlamento della XVII legislatura è riuscito a varare con una larga maggioranza - quasi il sessanta per cento dei componenti di ciascuna Camera in ognuna delle sei letture - una riforma costituzionale che affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese».
155 Tra questi Franco Bassanini, Roma La Sapienza, Tiziano Treu, Milano Cattolica, Guido Enrico
Tabellini, Milano Bocconi, Stefano Ceccanti, Roma La Sapienza, Pasquale Pasquino, New York University, Salvatore Vassallo, Università di Bologna, Carlo Fusaro, Università di Firenze.
Secondo i giuristi, il testo di riforma modificava molti articoli della Costituzione, senza stravolgerla, riflettendo una sintesi delle più accorte proposte di riforma in discussione da decenni e, nel caso del Senato, conformandolo al modello originario dei Costituenti, poi abbandonato a favore del bicameralismo paritario impostosi per ragioni prudenziali dopo lo scoppio della «guerra fredda».
A titolo ricognitivo venivano quindi elencati gli elementi positivi della riforma:
• «viene superato l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato, con la previsione di un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo»; • «i procedimenti legislativi vengono articolati in due modelli principali, a seconda
che si tratti di revisione costituzionale o di leggi di attuazione dei congegni di raccordo fra Stato e autonomie, dove Camera e Senato approvano i testi su basi paritarie, mentre si prevede in generale una prevalenza della Camera politica, permettendo al Senato la possibilità di richiamare tutte le leggi, impedendo eventuali colpi di mano della maggioranza, ma lasciando comunque alla Camera l’ultima parola. La questione della complicazione del procedimento legislativo non va sopravvalutata, poiché non appare diversa la situazione di tutti gli Stati composti: in ogni caso, e di nuovo in continuità con le esperienze comparate, la riforma prevede la prevalenza della Camera politica»;
• «i poteri normativi del governo vengono riequilibrati, con una serie di più stringenti limiti alla decretazione d’urgenza introdotti direttamente nell’art. 77 della Costituzione, per evitare l’impiego elevato che si è registrato nel corso degli ultimi anni e la garanzia, al contempo, di avere una risposta parlamentare in tempi certi alle principali iniziative governative tramite il riconoscimento di una corsia preferenziale e la fissazione di un periodo massimo di settanta giorni entro cui il procedimento deve concludersi»;
• «il sistema delle garanzie viene significativamente potenziato: il rilancio degli istituti di democrazia diretta, con l’iniziativa popolare delle leggi e il referendum abrogativo rafforzati, con l’introduzione di quello propositivo e d’indirizzo per la prima volta in Costituzione; il ricorso diretto alla Corte sulla legge elettorale, strumento che potrà essere utilizzato anche sulla nuova legge elettorale appena approvata; un quorum più alto per eleggere il Presidente della Repubblica. Del resto i contrappesi al binomio maggioranza-governo sono forti e solidi nel nostro
paese: dal ruolo della magistratura, a quelli parimenti incisivi della Corte costituzionale e del capo dello Stato, a un mondo associativo attivo e dinamico, a un’informazione pluralista»;
• «lo sforzo per ridurre o contenere alcuni costi della politica è significativo: 220 parlamentari in meno (i senatori sono anche consiglieri regionali o sindaci, per cui la loro indennità resta quella dell’ente che rappresentano); un tetto all’indennità dei consiglieri regionali, parametrata a quello dei sindaci delle città grandi; il divieto per i consigli regionali di continuare a distribuire soldi ai gruppi consiliari; e, senza che si debba aspettare la prossima legislatura, parimenti alle due novità precedenti, la fusione degli uffici delle due Camere e il ruolo unico del loro personale».
Gli stessi luminari ammettevano che il testo non era, né poteva essere, privo di difetti e discrasie ma, in Italia come in ogni altro ordinamento democratico, le riforme le fanno necessariamente i rappresentanti del popolo nelle assemblee politiche: ciò impone compromessi, impedisce astratte coerenze, mette talvolta in secondo piano dettagli, in nome del prevalente interesse a un esito complessivo utile. Nel progetto, si sottolineava, «non ci sono in ogni caso scelte gravemente sbagliate o oggettivamente divisive (per esempio in materia di forma di governo: l’Italia rimane una Repubblica parlamentare!), diversamente da alcuni dei precedenti progetti (Commissione D’Alema 1997-1998 e progetto del centro-destra 2005-2006, per esempio)».
Sul combinato disposto riforma costituzionale-legge elettorale, i giuristi sottolineavano come gli elettori erano chiamati a pronunciarsi solo sulla riforma costituzionale, non anche sulla legge elettorale la quale, in caso di approvazione della riforma, sarebbe stata soggetta a controllo di costituzionalità. Inoltre «nulla nella legge attuale, in combinato disposto con la riforma costituzionale, configura un’anomala concentrazione di poteri: la maggioranza di 24 deputati alla Camera al fine di governare non consente al vincitore né di rivedere da solo la Costituzione, né di esprimere da solo la composizione degli organi di garanzia».
I giuristi erano infine contrari all’ipotesi «spacchettamento» in quanto ritenevano che occorresse guardare al progetto di riforma nel suo complesso e che fosse giusto che i cittadini, come avevano già fatto i parlamentari, esprimessero un giudizio sintetico e complessivo: «se si dovessero artificialmente separare i contenuti in più quesiti,
rischieremmo di ottenere esiti schizofrenici, come mantenere il bicameralismo paritario e non invece la riforma dell’assetto regionale, o l’esito opposto» (v. infra). Il tema dell'omogeneità era ritenuta dunque una questione totalmente infondata, poiché nasce come requisito imposto dalla Corte costituzionale ai soli quesiti referendari abrogativi.
Per tutte queste ragioni di metodo e di merito i giuristi firmatari del «manifesto per il sì» erano convinti della bontà della riforma e della sua utilità per il miglior governo del Paese.