• Non ci sono risultati.

2 La rappresentazione ancor oggi dominante delle società di mercato

Il mercato è un’istituzione contestualizzata che poggia su un ben definito sostrato normativo. Le norme vigenti, tuttavia, non sono in grado di determinare appieno le de- cisioni economiche; né bastano a regolare in modo completo l’interazione economica. Ciò in quanto tutte le transazioni economiche, con l’unica eccezione degli scambi spot di beni e servizi oggettivamente identificabili, offrono alle parti l’occasione di compor- tamenti opportunistici attraverso i quali l’uno cerca di trarre vantaggio a spese dell’altro.

D’altro canto, l’aspettativa di incorrere in perdite di qualche tipo può suggerire al potenziale partecipante di non entrare in transazioni che pure risulterebbero vantaggiose per entrambe le parti. Come a dire, che quasi tutte le transazioni economiche necessita- no di una governance. Provvedono allora al bisogno, all’interno del quadro normativo esistente, la cultura e la competizione – “le due agenzie determinanti il mercato”, se- condo l’espressione di J.S. Mill.

1

Due sono le conseguenze che sono derivate da questo modo dicotomico di rappre- sentazione della realtà sociale.

Sotto il profilo della divisione del lavoro disciplinare, si è andata cristallizzando la separazione tra economia e sociologia. La frammentazione del sapere sociale in disci- pline fra loro sconnesse, se non addirittura antagoniste, ha finito col disarmare il pensie- ro critico.

La seconda conseguenza è stata l’affermazione di una linea di pensiero che identi- fica il mercato con il luogo idealtipico in cui gli individui sono motivati all’azione dal solo interesse proprio (self interest) quale che esso sia, non importa se egoistico o altrui- stico. Con il che si è andato avvalorando il convincimento in base al quale l’unico giu- dizio di valore che il mercato è in grado di sopportare e al quale sottomettersi è quello di efficienza, qui inteso come giudizio di adeguatezza dei mezzi rispetto al fine della mas- sima realizzazione (possibile) degli interessi di chi vi partecipa. Ci sono bensì altri valo- ri – riconoscono i sostenitori di tale linea di pensiero - con cui il mercato deve fare i conti ma questi sono, per così dire, a monte, riferiti cioè ai presupposti affinché il mer- cato possa giungere in esistenza e possa funzionare correttamente. Si pensi a valori (o sentimenti morali) quali onestà e fiducia – valori che configurano il cosiddetto codice di moralità mercantile: questi devono già essere accolti dagli agenti economici perché il mercato inizi ad operare.

Da quanto precede si trae che i pilastri su cui si regge la linea di pensiero sopra abbozzata e che, si sostiene che siano traballanti, sono i tre seguenti.

Primo, non è vero che le preferenze il cui soddisfacimento l’individuo cerca di massimizzare sul mercato hanno per oggetto esclusivamente i beni che entrano nel suo insieme di scelta. Anche il modo in cui gli oggetti “scelti vengono scelti” ha rilevanza per il soggetto, il quale assegna un valore anche alla possibilità sia di agire in base alle proprie convinzioni sia di formarsi convinzioni in linea con quanto va sperimentando. Tenere conto di ciò significa respingere sia il ben noto postulato di non sazietà (l’idea secondo cui il più coincide con il meglio), sia il postulato di continuità delle preferenze, con il che la nozione stessa di comportamento massimizzante perde di significato.

Generalizzando un istante, il senso di quanto precede che occorre dilatare la porta- ta del paradigma di razionalità in economia, vista l’immagine paradossale di un uomo che quel paradigma veicola. Da un lato, l’homo oeconomicus deve esibire grandi capa- cità di analisi e di calcolo per arrivare a definire il suo ordinamento preferenziale. Dall’altro, tutte queste capacità vengono utilizzate per fare una cosa sola:massimizzare una funzione di utilità sotto vincolo. È uno spreco di energia quello che identifica colui che Sen definì nel 1977 “sciocco razionale”. A parte la dubbia razionalità di chi spreca risorse, il fatto è che non è sufficiente prestare attenzione unicamente alla struttura delle preferenze, perché anche il contenuto di queste ultime e il sistema motivazionale da cui promanano sono elementi di cui tener conto per una teoria economica soddisfacente dell’azione umana.

In secondo luogo, legge, cultura e competizione non possono essere visti come strumenti alternativi per risolvere i problemi dell’ordine sociale e, in particolare, del co- ordinamento delle decisioni individuali. Si tratta piuttosto di strumenti complementari e ciò per la fondamentale ragione che se le transazioni di mercato dipendono dalle norme sociali e legali prevalenti, è del pari vero che il processo economico modifica quelle norme. E dunque che la distinzione tra i paradigmi dell’homo oeconomicus e dell’homo

sociologicus non è così robusta come si è finora creduto.

Già John Dewey2– il fondatore del pragmatismo filosofico – aveva avvertito che l’azione umana non può essere spiegata appieno né in termini di soli fini e credenze – come se i mezzi o l’ambiente nulla contassero – né in termini del solo ambiente – come se le credenze non esercitassero alcun peso. Il fatto è che ambiente e attore non sono tra loro separati; e ciò per la evidente ragione che gli uomini fanno bensì transazioni con l’ambiente circostante, un ambiente però che essi stessi contribuiscono a costruire.

In terzo luogo, non è vero che il mercato sia un’istituzione compatibile solamente con la motivazione egocentrica dei suoi attori. Non è vero che ciò che muove la compe- tizione di mercato è solamente il self-interest degli agenti economici. Piuttosto, il mer- cato può diventare mezzo per rafforzare il vincolo sociale, con la creazione di spazi e-

2

John Dewey, Knowing and the Known, in R. Handy e E. Harwood (a cura di), Useful Procedures of In-

conomici – ad esempio quello dell’economia civile – in cui la relazione interpersonale riceve un valore di suo – il valore di legame.

Solamente all’interno di una struttura di tipo relazionale, alimentata in modo si- stematico dalla pratica di “sentimenti morali” quali la simpatia e la benevolenza, è pos- sibile che il perseguimento del self-interest produca risultati positivi e dunque che “i guadagni di entrambe [le parti] siano mutui e reciproci”, come si esprime Smith nel ca- pitolo “Of the natural progress of opulence” della Ricchezza.

§3. Altruismo, socialità, relazionalità

Quello della teoria economica dell’altruismo è, indubbiamente, il tentativo più a- vanzato di dilatare la portata del programma di ricerca in economia allo scopo di fare posto alle motivazioni pro-sociali dell’agente.

Tre sono gli approcci principali attraverso i quali l’altruismo è entrato nel discorso economico. Con azzeccata scelta dei termini Khalil3 li ha denominati: egocentrico, e- goistico, altercentrico. I tre approcci costituiscono altrettante applicazioni di una mede- sima strategia, quella di mostrare che non vi sarebbe bisogno di rinunciare all’impianto individualista per spiegare comportamenti pro-sociali di tipo altruistico. Secondo tale strategia, tutto quanto si richiede è che la teoria economica si limiti a prendere in consi- derazione meccanismi (norme sociali; schemi di incentivo; codici morali) capaci di gui- dare il comportamento dell’agente a imitare quello dell’homo ethicus, senza che preten- dere che il primo coltivi gli stessi pensieri o i medesimi sentimenti del secondo. Non v’è alcun bisogno di liberarsi dell’assunto dell’homo oeconomicus per far poso, dentro il di- scorso economico – alla categoria dell’altruismo.

Sorge spontanea la domanda. Perché una teoria delle motivazioni altruistiche che restasse all’interno dell’orizzonte individualistico rappresenterebbe, dopo tutto,

3

E. L. Khalil, Adam Smith and the Three Theories of Altruism, in “Louvain Economic Reviez”, 17, 2001, pp.421-435.

un’inutile complicazione del discorso economico? Per la fondamentale ragione che essa non riesce a catturare la natura vera dell’altruismo. Scrive a tale proposito Nagel 4:

“L’altruismo dipende dal riconoscimento della realtà delle altre persone e dalla corri-

spondente capacità di considerare se stessi come individui tra i tanti…L’altruismo non va confuso con una generale affezione per la razza umana. Esso non è un sentimento (p.3)”.

Cerchiamo quindi di comprendere perché e in quale preciso senso è l’individualismo, cioè la negazione della natura relazionale della persona, il vero limite della teoria economica standard. Si pone allora l’interrogativo: qual è il fondamento ul- timo della relazionalità? È l’autorealizzazione della persona, cioè la sua fioritura,per ri- prendere l’espressione con la quale Sen traduce l’eudaimonia aristotelica. Infatti, ho bi- sogno dell’altro per scoprire che vale la pena che io mi conservi; anzi che fiorisca. Ma anche l’altro ha bisogno di essere da me riconosciuto come qualcuno che è bene che fio- risca. Poiché abbiamo bisogno del medesimo riconoscimento, io agirò nei confronti dell’altro come davanti ad uno specchio. La realizzazione del sé è il risultato di tale in- terazione. La risorsa originale che posso mettere a disposizione di chi mi sta di fronte è la capacità di riconoscere il valore dell’altro all’esistenza, una risorsa che – come annota Gui5 – non può essere prodotta se non viene condivisa.

È importante prendere atto di ciò che implica il riconoscimento dell’altro: non so- lo del suo diritto ad esistere ma anche della necessità che esista perché possa esistere io, i relazione con lui. Riconoscere l’altro come fine in sé e riconoscerlo come mezzo ri- spetto al fine della propria realizzazione tornano così a essere unificati. Con il che viene risolto il dualismo riduzionista fra una moralità, di marca kantiana, che esige che l’altro venga visto come fine in sé e basta e una teoria della razionalità strumentale – quella della rational choice – che invece vede nell’altro il mezzo per il proprio fine. Il bene

4

T. Nagel, The Possibility of Altruism, Princeton University Press, Princeton 1970. 5

B. Gui, Interpesonal Relations: A Disregarded Theme in the Debate on Ethics and Economics, in A. Lewis e K.E. Warneryd (a cura di), Ethics and Economics Affairs, Routledge, London 1994.

dell’autorealizzazione è raggiunto quando il riconoscimento reciproco tra persone è as- sicurato.

Quali conseguenze di rilievo deriverebbero dall’accoglimento della prospettiva re- lazionale? In primo luogo, se l’altruismo viene visto come reciproco riconoscimento se- condo cui bene che l’altro si realizzi, si può affermare che l’altruismo è antecedente al

self-interest e ciò nel senso che l’altruismo costituisce un requisito razionale – certo non

l’unico – della condotta umana. Prima ancora di configurarsi come un mezzo per rag- giungere un fine individuale, l’interazione con l’altro si configura allora come un fine in sé.

La seconda conseguenza è che la prospettiva relazionale offre una via pervia di uscita dalla intricata questione circa il nesso tra relazionalità e socialità dell’individuo.

Il principio sociale, inteso come tendenza al vivere insieme, è essenzialmente un principio di autorganizzazione che, in quanto tale, non è tipico dell’essere umano, es- sendo esso comune anche all’animale. Ciò che è tipico della persona è, invece la rela- zionalità la quale postula che l’io diventi un tu. È la presenza di tale componente che ga- rantisce che le relazioni sociali possano essere viste come relazioni umane6.