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Il recesso dall'Unione Europea prima del Trattato di Lisbona

Fino a tempi recenti, la questione del recesso di uno Stato membro dall'Unione Europea costituiva poco più che un mero caso di scuola, un'ipotesi percepita come lontana e improbabile al punto da meritare scarsa attenzione nella letteratura dottrinale e spazio nullo all'interno dei trattati europei.

Questi ultimi, infatti, non le avevano dedicato alcuna disposizione espressa: salvo il trattato costitutivo della Comunità Europea del

Carbone e dell'Acciaio (CECA), entrato in vigore nel 1952 con

termine cinquantennale, gli altri trattati fondamentali relativi all'integrazione europea erano sempre entrati in vigore senza limitazioni di durata, così come quelli modificativi.

Nessuno di essi conteneva disposizioni disciplinanti il recesso dall'organizzazione: l'ipotesi dell'addio di uno Stato membro restava pertanto priva d'una disciplina tanto espressa quanto implicita.

Tale silenzio, in ogni caso, non era certo casuale: rispondeva a circostanze fattuali e a scelte politiche ben precise.

Per quanto riguarda le circostanze fattuali, è innegabile come il processo di integrazione europea, fino allo scoppio della recente crisi economica, avesse suscitato principalmente entusiasmo e speranze a livello continentale e globale, nonostante la presenza di territori tradizionalmente euroscettici.

Al termine delle due guerre mondiali il vecchio continente si presentava come un cumulo di macerie: i danni umani, economici, sociali e culturali dell'ultimo conflitto erano immensi.

L'Europa, il continente che più la guerra aveva insanguinato nel corso della Storia, era giunto quella volta più vicino che mai all'autodistruzione: i miti della sovranità assoluta e del nazionalismo avevano ipnotizzato popolazioni intere conducendole allo scontro totale, portando il mondo intero sull'orlo dell'oblio e spazzando via la vita di oltre cinquanta milioni di esseri umani.

Finalmente consapevole di quale fosse il capolinea al quale conduceva il cieco nazionalismo, l'Europa seppe orientarsi verso una

cooperazione sempre più stretta tra i propri Stati membri, la quale

tra “Stati-isola” dotati di sovranità piena, si sostituì quello dell'autolimitazione della sovranità nazionale in settori sensibili, allo scopo di affidarla ad istituzioni sovranazionali, incaricate di amministrarli nell'interesse comune degli Stati partecipanti.

Fu questo l'imprinting che caratterizzò dal principio il processo di integrazione europea, forse il progetto politico più ambizioso della Storia dell'Umanità, intenzionato ad unire nel lungo periodo all'interno di un'unica entità sovranazionale gli Stati che più si erano combattuti nel corso della Storia.

Tale ambizione regalò all'Europa, per la prima volta in assoluto, 70 anni consecutivi privi di conflitti armati e ricchi di prosperità economica e sociale.

Il benessere assicurato ai popoli europei attraverso l'integrazione economica, politica e culturale da quella che nel tempo sarebbe diventata l'Unione Europea è stato tale da giustificare l'attribuzione a quest'ultima, nel 2012, del premio Nobel per la Pace,

for over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe209.

Se le Comunità europee costituirono per i Paesi membri, nei loro primi decenni di vita, una rampa di lancio verso la Pace ed uno sviluppo economico socialmente sostenibile, l'ultima decade del XX Secolo vide l'Europa Unita intraprendere un'altra storica evoluzione: accanto alla tradizionale anima economica dell'integrazione sviluppata fino a quel momento, riprese vigore la sua ambizione politica.

Caduta l'URSS, l'Unione Europea si preparò per il grande allargamento ad Est.

Tappe propedeutiche a tale allargamento furono la redazione degli artt. 2, 7 e 49 del Trattato di Maastricht (confluiti a Lisbona nelle medesime disposizioni del TUE) ed i c.c.d.d. “Criteri di Copenaghen”.

Se l'art. 2 TUE elenca i valori posti a fondamento dell'Unione Europea, l'art. 49 TUE ne eleva il rispetto a condizione imprescindibile per accettare l'adesione all'UE di uno Stato terzo candidato, mentre l'art. 7 TUE predispone un meccanismo sanzionatorio da attivare in caso di violazione grave degli stessi da parte di uno Stato membro.

I Criteri di Copenaghen, i quali derivano il proprio nome dal Consiglio Europeo tenutosi nel 1993 nella capitale danese, nel corso del quale furono adottati, elencano i requisiti che uno Stato terzo dovrà integrare per essere accolto come nuovo membro all'interno dell'Unione Europea.

Tra di essi, attinenti a condizioni di tipo economico (presenza di un'economia di mercato in grado di sopportare le forze e la concorrenza proprie del mercato unico dell'Unione), giuridico

(assorbimento dell'Acquis comunitario), rientrano anche requisiti di natura politica: la presenza di istituzioni nazionali in grado di garantire il rispetto della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani e la tutela delle minoranze nazionali diveniva requisito essenziale per divenire membri dell'Unione, la quale si ergeva così a baluardo difensivo dei diritti e della Rule of Law.

Questi criteri costituirono uno stimolo fondamentale per spingere i Paesi dell'Europa dell'Est, nati dal dissolvimento dell'URSS ed ansiosi di divenire parte dell'Europa Unita, sulla strada della democrazia. Questi ed altri elementi ci permettono di comprendere come, fino a pochissimi anni fa, quella dell'Unione Europea fosse una storia ricca di successi e appeal in grado di trasformarla, nell'immaginario collettivo del tempo, nel migliore esempio storico di connubio tra diritti umani, democrazia e progresso economico.

Tali considerazioni ci permettono di comprendere quanto irrealistica potesse apparire allora l'ipotesi del recesso di uno Stato membro dall'Unione.

Il precedente della Groenlandia, fuoriuscita dalla Comunità Economica Europea nel 1985 in seguito a referendum popolare per ragioni incentrate sull'economia ittica al centro della vita locale, non costituiva caso rilevante, né preoccupante.

La risoluzione di tale caso, infatti, poté addirittura essere gestita attraverso semplice revisione dei trattati vigenti al tempo secondo l'iter disciplinato dall'art. 236 del Trattato istitutivo CEE (attualmente disciplinata dall'art. 48 TUE).

Occorre infatti fare un'importante precisazione: quello della Groenlandia non rappresentò un caso di recesso ad opera di uno Stato

membro in senso stretto; si trattò, al contrario, di una revisione del

trattato CEE volta a ridurne il raggio d'applicazione rispetto al territorio di uno Stato membro, la Danimarca, conseguente all'acquisizione da parte della Groenlandia di uno status fortemente autonomo nei confronti delle autorità di Copenaghen.

La speciale disciplina dedicata a Nuuk fu inserita in un apposito protocollo210 e si attribuì alla Groenlandia lo status di “territorio

d'oltremare” associato all'Unione.

Nonostante il cambio di status della Groenlandia, quella dell'Europa Unita restava una storia di successo, democrazia e prosperità economica.

Ciononostante, oltre che dalle rilevanti circostanze fattuali appena esposte, il silenzio dei trattati sulla questione del recesso dall'Unione derivava anche da precise scelte politiche.

210 Protocollo n. 34, allegato al Trattato sull'Unione ed al Trattato sul

Funzionamento dell'Unione, concernente il regime particolare applicabile alla Groenlandia.

Tre le motivazioni211: in primo luogo, la previsione di una clausola di

uscita dall'UE avrebbe indebolito la percezione di vincolatività delle obbligazioni derivanti agli Stati dalla loro partecipazione all'Unione, scoraggiandone l'adempimento; disciplinare la possibilità di recesso ne avrebbe accresciuto le probabilità di concretizzazione; infine, la redazione di una clausola di recesso avrebbe reso necessario predisporre un'apposita procedura e studiare le conseguenze d'un suo ipotetico utilizzo.

La conseguenza diretta di tale assetto giuridico era l'assenza, per gli Stati membri, della possibilità esplicita di abbandonare l'Unione. Pur senza l'attenzione che si suole dedicare oggi all'argomento, già nei decenni che precedettero la stipulazione del Trattato di Lisbona dottrina e governi si erano interrogati circa l'esistenza o meno della possibilità di recedere unilateralmente dall'Unione in assenza di disciplina espressa.

Si erano delineati due macro-schieramenti: da un lato, coloro i quali ritenevano il silenzio dei trattati chiaro sintomo dell'irreversibilità della partecipazione all'Unione, dall'altro quelli che, facendo perno sulla concezione degli Stati membri quali “signori dei trattati”, asserivano che la possibilità di recesso degli stessi dai propri impegni internazionali restasse sempre attuale e praticabile.

I trattati contenevano però significativi elementi in favore della prima ricostruzione, a cominciare dalla loro durata illimitata.

Inoltre, ogni trattato giunto a segnare una tappa fondamentale nel processo di integrazione europea conteneva riferimenti testuali espliciti indicanti l'idea di irreversibilità sottesa alla partecipazione all'Unione. Il preambolo del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, ad esempio, affermava nel proprio preambolo che gli Stati firmatari si dichiaravano

“Determinati a porre le fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli europei”212.

Propositi ancor più orientati verso una crescente unione, e quindi incompatibili con una lettura dei trattati volta a configurarvi un'implicita possibilità di recesso, figuravano nel preambolo al Trattato di Maastricht:

“Rammentando l'importanza storica della fine della divisione del continente europeo e la necessità di creare solide basi per l'edificazione dell'Europa futura”;

211 ATHANASSIOU, Withdrawal and Expulsion from the EU and EMU, in Legal Working Paper No. 10, European Central Bank, 2009, p. 9.

212 Preambolo al Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, 25 Marzo 1957, Roma.

“Decisi a portare avanti il processo di creazione di un'Unione sempre più stretta tra i popoli dell'Europa”213.

Simili dichiarazioni d'intenti da parte degli Stati membri apparivano in forte attrito con qualunque volontà di leggere nei trattati, in assenza di clausole espresse, un implicito assenso all'ipotesi di recesso unilaterale dall'Unione.

L'accettazione da parte degli Stati membri dell'Acquis comunitario e la limitazione della possibilità di revisione dei trattati in base alle sole procedure e condizioni previste dagli stessi (attualmente disciplinate dall'art. 48 TUE) contribuivano a suggerire l'inesistenza in capo agli Stati membri di un diritto di recesso dall'Unione, tanto concordato quanto, a maggior ragione, unilaterale.

Si tentò così, da parte di alcuni, la ricerca di una soluzione all'assenza di tale clausola di recesso esplicita o implicita all'interno del Diritto Internazionale e, in particolare, nel parametro giuridico di riferimento per la disciplina dei trattati: la Convenzione di Vienna sul Diritto dei

Trattati del 1969 (VCLT), le cui norme sono in parte entrate a far parte

del Diritto Internazionale Consuetudinario.

La Convenzione di Vienna prevede che, sebbene il recesso unilaterale da un trattato non provvisto di clausole apposite sia contrario al principio del pacta sunt servanda, sussistono circostanze specifiche nelle quali tale operazione è legalmente possibile.

L'art. 56 VCLT si occupa proprio di disciplinare l'ipotesi del recesso da un trattato il quale non preveda espressamente tale possibilità, affermando:

1. Un trattato che non contenga disposizioni relative alla sua estinzione e che non preveda possibilità di denuncia o di recesso non può formare oggetto di una denuncia o di un recesso, a meno che:

a.

non risulti che corrispondeva all'intenzione delle parti ammettere la possibilità di una denuncia o di un recesso; oppure

b.

il diritto di denuncia o di recesso possa essere dedotto dalla natura del trattato.

2.

Una parte deve notificare almeno dodici mesi prima la sua intenzione di denunciare un trattato o di recederne in conformità alle disposizioni del paragrafo 1.

Risulta tuttavia dimostrato dalle considerazioni e dai richiami testuali precedenti come le parti contraenti non apparissero affatto intenzionate ad ammettere la possibilità di recesso da tali trattati, scegliendo anzi di

scoraggiare deliberatamente tale scenario privandolo di una disciplina esplicita ed inserendo nei preamboli dei trattati numerosi richiami alla perpetuità degli stessi ed al progressivo approfondimento dell'integrazione, per definizione stridente con un'ipotesi di recesso. Altra disposizione potenzialmente rilevante ai fini del nostro discorso, tra quelle contenute nella Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, è l'art. 62 VCLT, disciplinante la c.d. Clausola rebus sic

stantibus:

1. Un cambiamento fondamentale delle circostanze intervenuto rispetto alle circostanze esistenti al momento della conclusione di un trattato e che non era stato previsto dalle parti non può essere invocato come motivo di estinzione o di recesso, a meno che:

a.

l'esistenza di tali circostanze non abbia costituito una base essenziale del consenso delle parti a vincolarsi al trattato; e che

b.

tale cambiamento non abbia per effetto di trasformare radicalmente la portata degli obblighi che rimangono da adempiere in base al trattato.

2.

Un cambiamento fondamentale delle circostanze non può essere invocato come motivo di estinzione o di recesso:

a.

se si tratta di un trattato che fissa un confine; o

b.

se il cambiamento fondamentale deriva da una violazione, ad opera della parte che l'invoca, sia di un obbligo del trattato, sia di qualsiasi altro obbligo internazionale a danno di qualsiasi altra parte del trattato.

3.

Se, in applicazione dei precedenti paragrafi, una parte può invocare un mutamento fondamentale di circostanze come motivo di estinzione o recesso da un trattato, essa può ugualmente invocare detto mutamento come motivo di sospensione.

L'utilizzo della clausola ex art. 62 VCLT è da sempre considerato in dottrina come strumento da utilizzare esclusivamente in circostanze estreme, arma residuale in possesso degli Stati utile a slegarli, ove altre vie non siano praticabili, da trattati la cui partecipazione sia divenuta per essi inaccettabile o insostenibile.

In realtà, come già abbiamo rilevato in precedenza214, l'applicabilità

automatica del Diritto Internazionale, ed in particolare della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969, all'ordinamento europeo risulta particolarmente controversa.

Se infatti la Corte di Giustizia ha ricordato come nelle relazioni esterne tra l'Unione ed i Paesi terzi l'operato della UE sia sottoposto alle norme di Diritto Internazionale derivanti dalla Convenzione, codificante il Diritto Internazionale consuetudinario215, la stessa Corte ha ricordato in

numerose ed importanti pronunce la natura sui generis e

costituzionale216 dell'ordinamento europeo e la sua autonomia rispetto

alla sfera del Diritto Internazionale, il quale non può quindi sempre applicarsi automaticamente allo stesso, affermando inoltre che esso trae le proprie peculiarità proprio dalle limitazioni di sovranità nazionale ad esso sottese217.

La natura delle relazioni tra Stati membri dell'Unione risulta infatti qualitativamente differente rispetto a quelle regolate dal Diritto Internazionale, essendo le prime basate non sulla mera collaborazione tra Stati quanto sull'autolimitazione della loro sovranità.

L'ordinamento europeo e quello internazionale costituiscono pertanto sistemi talvolta intersecantisi, ma non necessariamente permeabili. Il solo Ius Cogens appare sempre applicabile anche all'ordinamento interno dell'Unione, e l'utilizzo dell'articolo 62 VCLT allo scopo di ottenere il recesso dall'Unione prima delle riforme di Lisbona avrebbe potuto forse essere configurabile solo in ipotesi particolarmente estreme.

Il Diritto Internazionale non risulta pertanto sempre direttamente applicabile ai rapporti tra Stati membri interni all'ordinamento europeo, ed anche il tentativo di applicare loro la Convenzione di Vienna non potrebbe che risultare fortemente controverso e latore di attriti tra partners europei, essendo per di più legato nell'ottica di alcuni commentatori ad una concezione di sovranità ormai obsoleta nel caso degli Stati europei.

Si è pertanto autorevolmente concluso in dottrina che, nell'assetto precedente all'adozione del Trattato di Lisbona, l'asserzione d'una possibilità di recesso unilaterale dai trattati attraverso utilizzo dello Ius

Cogens, ed in particolare della Clausola Rebus sic stantibus non poteva

che presentarsi come profondamente controversa (così come appare controverso il suo utilizzo attuale allo scopo di giustificare il recesso dalla sola UEM), difficilmente configurabile se non in circostanze assolutamente straordinarie ed in presenza di violazioni dei trattati talmente gravi e prolungate da rendere vane le speranze nei meccanismi attraverso cui i trattati cercano di dare risposta ad ogni tipo di situazione emergenziale ipoteticamente configurabile218 (azioni

215 Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sentenza del 16.6.1998, causa C-162/96, A. Racke GmBH & Co.

216 Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sentenza del 5.2.1963, causa C-26/62, Van Gend en Loos v. Administratie der Belastingen.

217 Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sentenza del 15.6.1964, causa C-6/64, Costa v. E.N.E.L.

derogatorie del Diritto dell'Unione in casi eccezionali, meccanismi sanzionatori, ricorso alla Corte di Giustizia di fronte a violazioni dei trattati ad opera di Stati membri o istituzioni europee, etc).

Concludendo, nell'assetto antecedente il Trattato di Lisbona, il recesso unilaterale dall'Unione Europea avrebbe costituito ipotesi completamente estranea alla lettera ed allo spirito dei trattati, ed anche un tentativo di giustificarlo sulla base del Diritto Internazionale, in particolare delle norme contenute nella Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969, sarebbe risultato fortemente controverso. L'unica strada legalmente percorribile per ottenere il recesso dall'Unione era costituita dalla stipulazione di un apposito accordo internazionale sottoscritto da tutti gli Stati membri.