É penalmente rilevante la condotta del medico che, in assenza di una situazione di urgenza ed in mancanza di consenso informato del paziente, sottoponga quest'ultimo ad un intervento chirurgico nel rispetto delle leges artis?
La questione, da tempo discussa dalla dottrina italiana e straniera200, è stata recentemente oggetto, nel nostro Paese, di diverse decisioni della giurisprudenza, contraddittorie tra loro, che hanno causato uno stato di incertezza presso gli operatori giuridici e sanitari.
Dal 1992 ad oggi si sono succedute una decina di pronunce, in cui la Corte ha espresso principi di diritto diversi, a volte anche in netto contrasto tra loro.
Vi è un punto che mette d’accordo tutti i giudici: il riconoscimento dell’esistenza di un preciso dovere del medico di acquisire il consenso informato del paziente al trattamento, preliminare all’esecuzione dello stesso. Su questo aspetto non mancano appigli normativi puntualmente ricordati nelle premesse di quasi ogni pronuncia: l’art. 32, II comma, Cost., che dispone che nessuno possa essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge; l’art 33 della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (l. 833/78) che prevede che « gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari»; l’art. 5, comma I, della Convenzione di Oviedo sulla biomedica del 1997 che recita «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato»; l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che, sancendo il diritto all’integrità fisica e psichica della persona, stabilisce che, nell’ambito della medicina e della biologia, deve essere rispettato «il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge»; lo stesso art. 35 del Codice di deontologia medica, ai sensi del quale «il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente»; e numerose altre disposizioni contenute in leggi speciali quali quelle in materia di procreazione medicalmente assistita, in materia di donazione di sangue, in materia di trattamento delle tossicodipendenze, ecc.201.
Nessuna di queste disposizioni, però sanziona penalmente l’inosservanza di un simile obbligo. Per queste ragioni si registra la divergenza fra le diverse pronunce. Vi è, pertanto, discordanza nell’individuazione delle conseguenze sul piano giuridico penale dell’inosservanza dell’obbligo del medico di informare e acquisire il consenso del paziente.
In Italia il primo autorevole – e particolarmente rigoroso - riconoscimento giurisprudenziale del principio del consenso informato risale al 1992 con la decisione Massimo (nome del chirurgo
200 GRISPIGNI F., La liceità giuridico-penale del trattamento medico-chirurgico,in Riv. dir. proc. pen., 1914, e ID., La
responsabilità penale per il trattamento medici-chirurgo arbitrario, in Scuola positiva, 1914.
201 VALSECCHI A., Sulla responsabilità penale del medico per trattamento arbitrario nella giurisprudenza di
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protagonista della vicenda), la quale ha contribuito a sensibilizzare la prassi sanitaria sulla necessità di acquisire il consenso informato del paziente prima di compiere qualsivoglia atto medico.
Tale decisione è stata di rilevanza storica la stessa è stata in grado, infatti, di scardinare la tradizionale prassi paternalistica.
La vicenda riguarda un'anziana paziente, ricoverata per un tumore intestinale, la quale presta il proprio consenso all'asportazione chirurgica della neoplasia. Durante l'intervento, a paziente anestetizzata, il chirurgo decide unilateralmente di modificare il tipo di intervento rispetto a quello concordato, procedendo ad un'operazione altamente demolitiva (asportazione totale addominoperineale del retto, con applicazione di ano artificiale), assai più invasiva e cruenta di quella cui la donna aveva acconsentito; tutto ciò in assenza di comprovate ragioni di necessità ed urgenza. La paziente, a seguito di complicanze specificamente connesse all’operazione effettuata, poco dopo l'intervento perde la vita.
La Corte d'Assise di Firenze, esclusa la ricorrenza di una situazione di necessità e di urgenza tale da giustificare il cambiamento dell'intervento stabilito, ritiene l'imputato Massimo responsabile di omicidio preterintenzionale.
Tanto la Corte di prime cure quanto la Corte di Cassazione si soffermano sul consenso del paziente quale presupposto di liceità del trattamento medico, fatte salve le ipotesi in cui operi lo stato di necessità e quelle previste da specifiche norme autorizzative di trattamenti sanitari obbligatori ai sensi dell'art. 32, comma 2, Cost202.
«Emerge in maniera evidente un principio basilare al quale l'attività del medico deve ispirarsi e, comunque, sottomettersi: il consenso del malato. Ciò che, in parole assai semplici, significa poi che nulla il medico può fare senza il consenso del paziente o addirittura contro il volere di lui.203»
Inoltre: «è infatti di tutta evidenza che nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute ed integrità personale, pur nei limiti previsti dall'ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze; il che a ragione non può essere considerato come il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere, o peggio, dall'arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente su di una scelta che […] riguarda la qualità della vita e che, pertanto, lui e lui solo può legittimamente fare204».
La Corte d'Assise giunge al punto cruciale: «praticando dunque alla paziente un intervento da questa non autorizzato e non voluto, al di fuori di qualsiasi situazione di necessità […] l'imputato pose in essere consapevolmente e volontariamente una condotta che sul piano giuridico integra indubitabilmente ed oggettivamente la fattispecie criminosa della lesione volontaria (art. 582 c.p.), sussistendo con tutta evidenza gli estremi dell'offesa all'integrità fisica della persona e dell'elemento intenzionale richiesto, cioè il dolo generico. E poiché da tale delitto voluto è conseguita, come effetto non voluto, la morte della persona […], ne deriva la responsabilità dell'imputato per il reato di omicidio preterintenzionale addebitatogli205»
La decisione della Corte d'Assise viene confermata in appello ed infine anche in Cassazione. Ciò consente di ricostruire la ratio decidendi di Massimo nel senso che «ogni intervento chirurgico cagiona una ''malattia'' ai sensi delle norme in tema di lesioni personali, indipendentemente dall'esito finale – fausto o infausto – del trattamento stesso: e dunque anche laddove il trattamento, come purtroppo non avvenne nel caso di specie, si risolva in un complessivo miglioramento della salute del paziente»206.
202 VIGANÒ F., Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2004, p. 147.
203 Ass. Firenze 18 ottobre 1990, cit., c. 186. 204 Ass. Firenze 18 ottobre 1990, cit., c. 189. 205 Ass. Firenze 18 ottobre 1990, cit., c. 190.
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Con la pronuncia della Corte di Cassazione207, si può affermare il riconoscimento giurisprudenziale del principio del consenso informato, che viene in tal modo valorizzato tanto da non distinguere più, in sua assenza, il ''colpo del pugnale'' dal ''taglio del bisturi''.
Viene, quindi, con questa pronuncia reso legittimo l'intervento medico solo laddove vi sia la manifestazione di un consenso valido, chiaro, libero, informato, consapevole e personale. In tal caso, infatti, non conta che il medico abbia agito in modo conforme alle leges artis né che l'operazione si sia conclusa con un esito fausto, benché seguito dalla morte della paziente.
Grazie alla sentenza Massimo cade l'antica tesi paternalistica della medicina, secondo cui «spettava al medico decidere, in scienza e coscienza, cosa fosse meglio per il paziente (doctor knows the best)»208. Tale impostazione oltretutto, legittimava l'attività sanitaria per il solo fatto che perseguiva scopi benefici. L'asse della relazione medico-paziente viene dunque trasferito dalla figura del sanitario a quella del paziente, infatti, secondo la severa pronuncia «senza il consenso libero e informato del paziente la condotta del medico si configura come un atto solo formalmente terapeutico e sostanzialmente illecito»209, anche laddove l'intervento sia stato eseguito a regola d'arte e si sia concluso con esito fausto.
Decisamente sulla medesima linea di Massimo si pone un ulteriore pronuncia del 2001, Firenzani. Anche in questo caso la Corte di Cassazione osserva – citando espressamente Massimo – che, salve le eccezioni rappresentate dai trattamenti obbligatori ex lege e dai casi di urgenza e indifferibilità del trattamento connessi ad un pericolo di morte o di grave pregiudizio della salute del paziente, «la mancanza del consenso (opportunamente ''informato'') del malato o la sua invalidità per altre ragioni determina l'arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo decidere se permettere interventi estranei sul suo corpo […]».