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La responsabilità medica per violazione del consenso informato secondo F Viganò di Giorgia Andolfo

Nonostante la dottrina e la giurisprudenza attuali neghino che il consenso del paziente possa essere ritenuto quale presupposto di liceità del trattamento medico e, per questo, inserito tra le cause di giustificazione ai sensi dell’art. 50 c.p., vi è un generale accordo sull’affermazione che un trattamento medico possa ritenersi lecito, di regola, se viene fondato sul consenso (informato) del paziente (o del suo legale rappresentante).

I presupposti di liceità del trattamento medico in oggetto mirano alla tutela del diritto fondamentale all’autodeterminazione terapeutica, così come previsto all’art. 32 co. 2 Cost., includendo inoltre altri diritti strumentalmente legati al diritto alla salute ovvero i diritti fondamentali all’integrità fisica (art. 2 Cost., art. 3 Carta europea dei diritti dell’uomo, art. 3 C.e.d.u.), alla libertà personale (art. 13 Cost.) e alla vita privata (art. 2 Cost., art. 7 Carta europea, art. 8 C.e.d.u.) nella misura in cui sono garanzia per l’individuo a non subire interventi indesiderati che invadano (e/o ledano) la propria sfera fisiopsichica. Si tratta, quindi, di presupposti di natura giuridica: spetta all’interprete il compito di desumere direttamente dai principi costituzionali le regole di esecuzione dell’atto medico (terapeutico o di cura) del sanitario, tutelando la centralità del paziente manifestata attraverso il principio suddetto all’autodeterminazione terapeutica. Il mancato rispetto di tali regole comporterà, quindi, l’illiceità (o “antigiuridicità”) dell’atto sanitario (e i relativi effetti anche sotto il profilo civile in relazione all’obbligo di risarcimento dei danni patrimoniali e non), a prescindere dalla sua conformità o meno alle leges artis251.

In riferimento alla rilevanza penale della condotta del medico che viola i presupposti di liceità funzionali alla tutela del diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente (nel gergo comune, il cosiddetto “atto medico “arbitrario”) – in assenza quindi di consenso informato ovvero dello stato di necessità – la questione che il Professor F. Viganò si pone è inerente difatti alla responsabilità penale del sanitario per lesioni personali o, addirittura, per omicidio in caso di decesso del paziente. Il nodo problematico centrale posto in evidenza da Viganò per poter rispondere al suddetto quesito consiste nel definire il requisito oggettivo della “malattia”, ai sensi delle norme incriminatrici delle lesioni personali.

Secondo l’Autore, in aperto contrasto con la giurisprudenza delle Sezioni Unite252, “ogni intervento medico (e certamente ogni intervento chirurgico) provoca nell’immediato una perturbazione del benessere psico-fisico del paziente, e produce una sofferenza fisica e psichica (nuova e distinta rispetto a quella connessa allo stato patologico preesistente) che incide direttamente sulla sua salute”; aggiungendo, inoltre, come ogni intervento di natura medica provochi “un’alterazione anatomica o funzionale dell’organismo” ed interferisca di fatto con l’integrità fisica della persona,

251 VIGANO’ F., Sub art. 50 c.p., cit., p. 689.

252 Secondo cui sussiste una “malattia” ai sensi delle norme incriminatrici delle lesioni personali nell’ipotesi di

“peggioramento complessivo delle condizioni di salute del paziente”, ovvero solo in riferimento all’esito finale del

trattamento: “l’atto operatorio in sé rappresenta solo una ‘porzione’ della condotta terapeutica, giacché essa, anche se ha preso avvio con quell’atto, potrà misurarsi, nelle sue conseguenze, soltanto in ragione degli esiti ‘conclusivi’ che dall’intervento chirurgico sono scaturiti sul piano della salute complessiva del paziente […]”.

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ovvero il bene giuridico tutelato in via primaria dalle norme in materia di lesioni personali253. Mentre sul piano soggettivo, il medico sa perfettamente quali saranno i risultati che dal trattamento deriveranno e vuole che essi si producano. Di fatti, come espressamente menzionato dall’Autore, ogni trattamento chirurgico che prevede una condotta arbitraria del medico costituisce un presupposto di delitto per lesioni personali dolose, dal momento in cui il medico che lo effettua vuole produrre una lesione254.Il trattamento chirurgico, sebbene sia funzionale al bene del paziente e costituisca un beneficio in termini di salute, consiste in un “intrusione corporea” e al tempo stesso in un’ “offesa” al corpo del paziente, compromettendo la funzionalità dell’organismo per un tempo variabile e proporzionale alla complessità dell’intervento che non può non configurarsi all’interno dell’art. 582 c.p.255. Per contro, in base a questa ricostruzione, l’atto di tipo terapeutico, non provocando alterazioni anatomiche – a differenza di quello chirurgico – non comporterebbe necessariamente una malattia, che deve in concreto essere dimostrata. Deve, pertanto, escludersi che le emotrasfusioni possano integrare un atto lesivo dell’integrità del paziente, nella misura in cui dall’intervento non si deduca un peggioramento dello status clinico del malato che implichi la nozione di “malattia”.

La questione è stata riproposta, in particolare, a seguito di una recente ordinanza del Tribunale di Torino in materia di emotrasfusione praticata su paziente dissenziente256.

La decisione si segnala per avere per la prima volta affermato la possibile rilevanza penale dell’atto terapeutico arbitrariamente adottato. Di particolare importanza per questa analisi è la considerazione secondo cui l’emotrasfusione imposta dal sanitario contro la volontà del paziente possa ritenersi sussunta nel delitto di violenza privata. Pertanto, in presenza di un dissenso proveniente da paziente capace di autodeterminarsi, l’esecuzione di un trattamento forzoso è illecito e dunque perseguibile penalmente ex art. 582 o art. 610 c.p. Tuttavia, sebbene sia pacifico che il medico possa rispondere di violenza privata nel caso in cui costringa con la forza il paziente a subire trattamento in presenza di un suo dissenso (e in assenza di un’apposita autorizzazione di legge)257; altrettanto non può dirsi nei casi in cui il trattamento rifiutato sia praticato a seguito di anestetizzazione consentita dal paziente.

Il primo problema da risolvere è quando – in siffatti casi – una condotta possa considerarsi “violenta”: secondo Viganò, la violenza potrebbe essere identificata nella “previa narcotizzazione del paziente”258; la stessa causazione di uno stato di incapacità del paziente può qualificarsi come condotta “violenta”259.

La seconda rilevante questione riguarda l’altro requisito di fattispecie, ovvero l’evento di costrizione. Per le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il medico che decide di mutare l’intervento prospettato e concordato in precedenza incorrerebbe in una “lesione” dell’integrità del paziente, ma non si può parlare, ben inteso, di autentica “costrizione”, quanto piuttosto di “abuso” dello stato di incoscienza del paziente.

Di fatto, la sola “mancanza” del consenso del paziente, non configura l’estremo di “costrizione” reale e concreto, bensì solo un contrasto di volontà apparente e presunto: al momento del fatto, il paziente avrebbe potuto esprimersi favorevolmente al mutamento del piano operatorio, ove ne avesse avuto la facoltà. Se ne deduce quindi che, secondo questo orientamento, la violazione del consenso informato da parte del medico non può essere ricondotta allo schema normativo della violenza privata. Diversamente, in presenza di dissenso del paziente, la giurisprudenza sembra

253 VIGANO’ F., Sub art. 50 c.p., cit., p. 702.

254 VIGANO’ F., Profili penali del trattamento chirurgico, cit., 150, p. 190.

255 VIGANÒ F., Profili penali del trattamento chirurgico, cit., p. 146, secondo cui “ogni intervento chirurgico (che

produca una menomazione funzionale nell’organismo del paziente) cagiona una “malattia” ai sensi delle norme in tema di lesioni personali, indipendentemente dall’esito finale – fausto o infausto – del trattamento stesso”.

256 Tribunale di Torino, sez. gip, ord. 15.01.2013. 257 VIGANÒ F., Sub art. 50 c.p., cit, p. 704.

258 VIGANÒ F., Profili penali del trattamento chirurgico, cit., p. 154.

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assumere una posizione netta: il medico è penalmente responsabile – evidentemente ai sensi della norma sulla violenza privata – della propria condotta contraria alla volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere”. In tale ipotesi sarebbero, infatti, presenti sia il requisito della coazione, nel senso di un contrasto evidente tra la volontà del paziente e la condotta del medico ed il requisito della violenza, qualificabile come costrizione del medico ad un intervento espressamente non voluto dal paziente260. A riguardo, l’ordinanza del 15.01.2013 della Sezione GIP del Tribunale di Torino, si esprime circa la responsabilità del medico che ha praticato l’emotrasfusione nonostante il dissenso (espresso ripetutamente) del paziente: a venire in considerazione è il delitto di cui all’art. 613 c.p., ovvero lo stato di incapacità (il paziente fu sedato con un pretesto) procurato mediante violenza, che punisce la causazione anche mediante inganno di uno stato di incapacità del paziente, fattispecie assorbita nel più (grave) delitto di violenza privata allorché il paziente, già ridotto in stato in di incapacità, viene successivamente sottoposto ad intervento espressamente rifiutato in precedenza, costituendosi gli estremi di un’autentica “costrizione a tollerare” ai sensi dell’art. 610 c.p.

Secondo Viganò, l’assenza del consenso (informato) costituisce presupposto di antigiuridicità della condotta arbitraria del medico. Ogni trattamento chirurgico integra un fatto materiale di lesioni personali che, a fronte del perturbamento dell’integrità fisica della persona, necessita di essere giustificato alla luce del consenso o, in alternativa, di uno stato di necessità261. La mancanza del consenso - quale causa di giustificazione – determina una responsabilità penale del medico ex art. 582 c.p. ss, indipendentemente dall’aver agito nel rispetto delle leges artis, nonché dall’aver ex post prodotto un esito migliorativo della salute del paziente262.

3. La responsabilità medica per violazione del consenso informato secondo P. Veneziani.

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