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Le prime ricadute della partecipazione italiana al processo di integrazione europea sul diritto di bilancio nazionale

IL PROGRESSIVO ADATTAMENTO DELL’ORDINAMENTO NAZIONALE AI VINCOLI EUROPEI IN MATERIA DI BILANCIO

3. Le prime ricadute della partecipazione italiana al processo di integrazione europea sul diritto di bilancio nazionale

Come esaminato precedentemente, tra la fine degli anni ’70 ed il decennio successivo si sono succedute riforme legislative volte a realizzare quegli obiettivi di riequilibrio degli andamenti di bilancio che l’andamento del disavanzo e soprattutto del debito rendevano sempre più improcrastinabili.

Il senso dell’urgenza che ha connotato le iniziative governative di razionalizzazione della finanza pubblica derivava indubbiamente dalla percezione dell’insostenibilità dei trend delle entrate e delle spese, cui si aggiungeva l’evidente necessità di rivedere i rapporti tra Governo e Parlamento, soprattutto nella particolare materia del bilancio. Tuttavia, tale considerazione non

tensioni cresciute al di fuori del suo Palazzo. Le responsabilità saranno tutte sue, il rischio della politicizzazione del conflitto fra essa e il Parlamento si accrescerà enormemente, la tentazione dello stesso Parlamento di controllare la Corte dall’interno crescerà a sua volta in misura direttamente proporzionale al manifestarsi di quel rischio”. In sostanza, Amato teme le ricadute sugli equilibri istituzionali da un rapporto troppo stretto tra la Corte dei Conti ed il Parlamento, nonché dal fatto che con tale sentenza la stessa Consulta si trova in prima linea rispetto alla produzione legislativa delle Assemblee, il tutto rispetto a leggi non ancora operative e delle quali, pertanto, non si conosce l’impatto sulla realtà sociale: considerazioni, queste, indicative del clima istituzionale dell’epoca. Di contro, S. Pergameno, Funzione di controllo della Corte dei Conti e instaurazione del processo di legittimità

costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale, 1976, pag. 2037, evidenzia che “un sistema di garanzie

costituzionali comporti necessariamente dei limiti ai poteri delle assemblee legislative e del governo, limiti posti nell’interesse dell’opposizione e dell’intero corpo elettorale, specialmente ove si consideri che governo e maggioranza parlamentare appartengono alla stessa parte politica ed ove si ponga poi in mente alla circostanza che sono le segreterie dei partiti che di fatto ispirano, quanto meno, l’indirizzo politico e la condotta governativa e parlamentare”. E’ da ricordare che la sentenza n. 226 del 1976 è stata tanto contrastata sia dalla dottrina che dallo stesso Legislatore, il quale ha cercato da subito di porvi rimedio, giungendo alla presentazione del disegno di legge costituzionale n. 350 del 1976 da parte del Sen. Branca per escludere in toto la possibilità per la Corte dei Conti di adire la Corte Costituzionale.

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Si veda, al riguardo, F. Pizzetti, Corte dei Conti fra Corte Costituzionale e Parlamento, in Giurisprudenza

Costituzionale, 1976, pag. 2042-2055, il quale evidenzia, tra l’altro, che “con questa decisione il giudice delle leggi

non solo ha modificato profondamente la posizione di ausiliarietà della Corte dei Conti in sede di controllo, non solo ha ammesso che la sua attività potesse estendersi dal controllo sulla legittimità degli atti al controllo, sia pure incidentale, della costituzionalità della legislazione, ma ha anche consentito a questo organo di arrestare l’entrata in vigore degli atti amministrativi e legislativi (sia pure solo quelle delegati) del Governo senza che questo possa, sottoponendosi al successivo controllo politico del Parlamento, superare, attraverso l’istituto della registrazione con riserva, la decisione della Sezione di controllo”.

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può disgiungersi da una compiuta valutazione degli effetti determinati dall’evoluzione del quadro internazionale e, in particolar modo, del processo di integrazione europea.

Sotto il primo punto di vista, indubbia rilevanza rivestono gli effetti della nuova politica fiscale e monetaria delle autorità americane, con una progressiva restrizione del credito che ha determinato, tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, l’incremento del livello generale dei tassi di interesse, foriero di inevitabili, ulteriori effetti sugli oneri per il servizio del debito.

Tuttavia, i riflessi di tali dinamiche sul sistema-Paese Italia sono stati amplificati dagli accordi valutari tra i Paesi europei che nel 1978 hanno dato vita al Sistema monetario europeo, fissando i tassi di cambio tra le monete secondo parità predefinite con margini di flessibilità garantiti da una banda di oscillazione entro cui le valute potevano oscillare e la possibilità di effettuare concordate svalutazioni qualora necessario per adeguare i valori del cambio stesso alle condizioni reali delle singole economie.

L’effetto indiretto di tale accordo sulla politica di bilancio è stato quello di inibire, di fatto, la possibilità di ricorrere alla c.d. “monetizzazione del disavanzo”, cioè l’acquisto da parte della Banca d’Italia dei titoli di Stato non assorbiti dal mercato, mediante il noto meccanismo del conto corrente di Tesoreria del Ministero del Tesoro acceso presso l’Istituto di emissione74.

Fino a quel momento, infatti, gran parte del debito veniva finanziato mediante l’emissione di base monetaria che, inevitabilmente, tendeva ad alimentare una continua spirale inflazionistica assecondata, a sua volta, dall’ancoraggio dei salari all’andamento dei prezzi (c.d. “scala mobile”): in tale contesto, la continua perdita di valore della lira sui mercati valutari internazionali consentiva all’Italia di mantenere la competitività delle proprie esportazioni nonostante l’incremento continuo del loro valore nominale75.

74 Nel senso A. Brancasi, op. cit., 8 agosto 2009, pag. 17, secondo cui i vincoli comunitari alle politiche di bilancio si sono espressi, in primis, mediante la restrizione del supporto della politica monetaria impiegata per la copertura delle spese in disavanzo secondo il canale Tesoro-Banca d’Italia (evoluzione che poi sarebbe stata formalizzata nel Trattato di Maastricht), successivamente con il divieto dei disavanzi eccessivi ed il Patto di Stabilità e Crescita. Al riguardo, G. Bognetti (op. cit., 1° giugno 2010, pag. 25-26) evidenzia il rapporto tra l’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo ed il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia deciso nel 1981 dal Ministro Andreatta, cui ha fatto seguito un rapido processo di disinflazione, mentre per il bilancio dello Stato non si sono evidenziati miglioramenti sul fronte dei disavanzi di bilancio. Tuttavia, il fatto che l’onere del finanziamento del disavanzo venisse scaricato in toto sull’emissione di titoli assorbiti dal mercato a tassi via via crescenti (a fronte dell’inadeguatezza dell’imposizione fiscale ad assicurare l’integrale copertura delle spese pubbliche) ha avuto comunque l’importante conseguenza di rendere trasparenti gli oneri degli squilibri di finanza pubblica, per il tramite del costo degli interessi: tale circostanza ha acquisito sempre più importanza con l’apertura internazionale dei mercati dei capitali italiani all’esterno e la possibilità per i residenti di diversificare i propri investimenti di portafoglio, facendo così cadere quale meccanismo di “coazione” del risparmio interno a favore del debito statale fino a quel momento operante.

75 Per una ricostruzione dei momenti che hanno portato al “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro, si vedano le considerazioni di M. Draghi espresse in un convegno su L’autonomia della politica monetaria organizzato dall'AREL presso l'ABI, Palazzo Altieri a Roma il 15 febbraio 2011 (testo disponibile su www.bancaditalia.it), a

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La legge n. 468/1978 si pone proprio in questo momento di passaggio, quasi a prefigurare quella che sarebbe poi diventata, a partire dalla creazione dell’Unione Monetaria Europea negli anni ’90, quella stretta interazione tra politica di bilancio nazionale e politica monetaria comune.

Nel caso del Sistema monetario europeo, non siamo certo ancora in presenza dei vincoli cogenti sulla politica monetaria degli anni ’90 quanto la stessa è stata poi avocata alla Banca Centrale Europea: tuttavia l’impossibilità di utilizzare lo strumento delle c.d. “svalutazioni competitive” poneva un forte limite alla politica di bilancio, in quanto il disavanzo non poteva essere finanziato mediante l’accomodamento della politica monetaria bensì mediante imposte e/o collocamento dei titoli di Stato unicamente presso il pubblico dei risparmiatori, con conseguente pressione verso l’alto dei tassi di interesse e dello stesso costo di servizio del debito76.

Ciò è dimostrato dall’andamento divergente dei tassi di inflazione e dello stock di debito nei primi anni ’80; in presenza di un forte fenomeno di disinflazione, si è assistito ad un incremento del debito che non trovava certo giustificazione da corrispondenti incrementi del disavanzo di bilancio, bensì da una ricomposizione dei fattori che lo determinavano, con un peso crescente assunto dalla spesa per interessi77.

trent’anni di distanza da quella decisione. Draghi ritiene che le ripercussioni del “divorzio” sulla politica di bilancio siano state sostanzialmente deludenti, fino all’accelerazione dei primi anni ’90 per rispettare i parametri previsti dal Trattato di Maastricht. Tuttavia, Draghi fa riferimento al fabbisogno annuo del settore statale che effettivamente non diminuisce al di sotto del 10% rispetto al PIL, con ciò ricomprendendovi anche la spesa per interessi; in realtà, il saldo primario è passato da un disavanzo del 5% ad un leggero avanzo nel 1991, mentre il peggioramento del fabbisogno è da ascrivere all’incremento della spesa per interessi, derivante da cause esogene (quali il venir meno dell’effetto calmierante della Banca Centrale sui tassi di interesse ai quali venivano collocati i titoli di Stato, il generalizzato incremento dei tassi di interesse internazionali a seguito della politica monetaria restrittiva adottata dalla Federal Reserve americana, .

76 Nelle Considerazioni finali lette il 30 maggio 1981, l’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi aveva evidenziato la necessità di un radicale cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolgesse la funzione della Banca Centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito. Successivamente Ciampi indicava i tre pilastri su cui tale costituzione monetaria si sarebbe dovuta fondare: l’indipendenza della Banca Centrale nella creazione di moneta, l’azzeramento del disavanzo corrente dello Stato (escluse cioè le spese per investimento, secondo la c.d. golden rule), nonché la politica dei redditi. Come ricorda P. Peluffo autore di una biografia su Ciampi (Carlo Azeglio Ciampi: l’uomo e il Presidente, Rizzoli, Milano, 2007) “all’epoca, l’idea di Nino Andreatta, condivisa da Ciampi, era quella di indurire l’art. 81 della Costituzione, riducendo la possibilità di aggirare l’obbligo del pareggio di bilancio con il ricorso al mercato. Ma si trattava di una strada lunga e difficile con un dibattito in Parlamento per una legge costituzionale. Si seguì invece una strada diversa, molto più rapida e senza ostacoli legislativi. Venne attuato uno scambio di lettere, concordato, tra Governatore e Ministro del Tesoro, in cui quest’ultimo prendeva atto della cessazione degli acquisti automatici di BOT invenduti alle aste. Una rivoluzione realizzata per via amministrativa!”.

77 Per una disamina della politica di bilancio nazionale negli anni ’80, si rimanda a A. Monorchio e N. Quirino, op. cit., 2005, pag. 51-55, nel quale Monorchio evidenzia, tra l’altro, che “il disavanzo di bilancio, in particolare, pur in presenza di una netta accelerazione del gettito fiscale, continua a crescere a ritmi sostenuti tanto nella fase ascendente del ciclo, dal 1983 al 1988, quanto nei periodi di congiuntura sfavorevole. Ma diversamente dall’esperienza degli ani ’70, in cui fu soprattutto l’ampliamento della spesa corrente primaria a sospingere il disavanzo, in questi anni è la massa crescente degli interessi passivi a giocare un ruolo determinante (…) dal 1980 al 1992, la spesa di parte corrente delle amministrazioni è continuata a crescere in maniera vigorosa, finendo con l’attestarsi alla fine del periodo al 52,1% del Pil, a fronte di una media europea del 47,5%. Quest’incremento di spesa è stato determinato per circa il 70% dai maggiori oneri per interessi, sui quali ha pesato sia l’enorme mole del debito sia, soprattutto a partire dal 1985, l’orientamento restrittivo della politica monetaria, necessario per il

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Il vincolo europeo aveva così agito per via indiretta ma non per questo meno efficace, restringendo uno dei tre canali principali di finanziamento della spesa78.

Pur se le soluzioni adottate dal Legislatore nel 1978 risentono indubbiamente del dibattito teorico degli anni precedenti e della generalizzata percezione delle carenze strutturali della

governance di finanza pubblica nazionale, il ruolo del vincolo esterno appare per la prima volta

strettamente connesso all’effettiva realizzazione dei primi importanti tentativi di riforma del sistema di bilancio che non a caso vengono realizzati proprio in quel periodo.

La successiva legge n. 362/1988, anch’essa volta a rafforzare gli strumenti di programmazione ed il perseguimento degli obiettivi di contenimento del disavanzo, deve essere letta alla luce dell’Atto Unico Europeo sottoscritto nel 1985 con il quale veniva programmato un progressivo allentamento dei controlli sulla libera circolazione dei beni, dei servizi e delle persone fino alla definitiva liberalizzazione prevista entro il 1992 (anticipata al 1990 per i movimenti di capitale).

Tra le novità apportate, è da evidenziare l’effetto che l’apertura del sistema finanziario nazionale ha determinato sulla gestione della politica di bilancio, questa volta sotto l’aspetto del finanziamento della spesa mediante debito: veniva infatti meno la possibilità per lo Stato di “coartare” il risparmio privato verso l’investimento in titoli del debito pubblico, in quanto si affacciavano sempre più le possibilità di investimenti alternativi in altri strumenti finanziari: in più

mantenimento del cambio della lira entro i margini di fluttuazione fissati dallo Sme. Il contributo della spesa corrente primaria è risultato quindi piuttosto contenuto (…) Diversamente dagli anni ’70, nel periodo in esame si registra un marcato inasprimento della pressione fiscale, che si accresce complessivamente di oltre dodici punti percentuali, collocandosi nel 1992 al 43%, cioè ad un livello grosso modo in linea con quello dei maggiori paesi europei. Tuttavia, in tali paesi, poiché si partiva da valori più elevanti, l’incremento relativo è risultato decisamente più contenuto, pari a poco più di mezzo punto percentuale”. Monorchio pone l’accento sul fatto che negli anni ’80 non sono stati affrontati gli squilibri strutturali di finanza pubblica, come testimonia l’andamento crescente sia della spesa complessiva che del debito: in realtà, qui si intende sostenere una posizione meno critica, facendo leva sul fatto che nel periodo in esame tale aumento della spesa è da ricondurre principalmente all’incremento della componente degli interessi e dello stesso stock di debito (il quale prescinde da politiche discrezionali espansive di bilancio ma riflette fattori esogeni e scelte compiute precedentemente dai policy-makers) e che, finalmente, il flusso delle entrate tributarie tenda ora ad avvicinarsi al trend delle uscite, colmando progressivamente quel gap che sin dalla fine degli anni ‘60 aveva posto le premesse per un deficit spending incontrollato. Bisogna considerare, tra l’altro, che la capacità di reazione del sistema istituzionale rispetto alle criticità di finanza pubblica scontava la perdurante debolezza della forma di governo parlamentare italiana: anche alla luce di tale sommatoria di inadeguatezze, si ritiene di dover apprezzare gli sforzi (certo insufficienti, ma comunque importanti) posti in essere all’epoca.

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Appare paradigmatico che l’azione indiretta del vincolo europeo (nel caso di specie, l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo) sia stato recepito mediante un accordo informale, tra Tesoro e Banca d’Italia, non basato cioè su fondamenti giuridici che ha sancito l’autonomia della politica monetaria rispetto alla politica di bilancio (nel senso, P. Garbero, L’Italia di fronte al debito pubblico e all’integrazione monetaria europea, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 16).

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si aggiunga il fatto che la stessa dinamica dei tassi di interesse nazionali rifletteva sempre di più le scelte di politica monetaria adottate altrove79.

Bisogna sottolineare, al riguardo, che tale processo di adattamento dell’Italia alle mutate condizioni esterne è avvenuto in assenza di vincoli contenutistici in materia di finanza pubblica. La limitazione del margine di azione della politica monetaria e di cambio si è riverberata in senso restrittivo sulle modalità di finanziamento della spesa pubblica, facendo sostanzialmente venir meno il ricorso alla monetizzazione del disavanzo e demandando al solo collocamento dei titoli di Stato sul mercato finanziario (oltre, ovviamente, alla leva fiscale) la copertura dei saldi di bilancio. Dalla surrettizia “imposta da inflazione”, che redistribuiva gli oneri a livello intragenerazionale80 si passa così alla traslazione degli oneri sulle generazioni successive mediante il massiccio ricorso al debito, il cui valore aumentava non solo a livello nominale in presenza di tassi di interessi crescenti, ma anche in termini reali, proprio a causa della progressiva disinflazione che si registra nel periodo considerato e che trovava origine proprio nel venir meno del canale monetario assicurato per tutti gli anni ’70 dalla Banca d’Italia.

In conclusione, anche senza parametri numerici predefiniti, in questo periodo prende avvio l’impegno al risanamento della finanza pubblica, grazie alle progressive limitazioni che sia il Sistema Monetario Europeo che l’Atto Unico Europeo avevano imposto all’Italia nei termini sopra detti.

Il punto di arrivo di questo processo è individuabile nel 1991, quando finalmente è stato registrato un sia pur lieve avanzo primario, a dimostrazione dell’importanza delle innovazioni legislative e delle modifiche nei regolamenti parlamentari degli anni precedenti nell’avviare il processo di risanamento della finanza pubblica, sotto la pressione crescente dei “vincoli esterni”.

E’ comunque importante ribadire che tale processo è sorto non a seguito di espresse prescrizioni comunitarie sui saldi di bilancio, bensì a seguito, appunto, di “vincoli esterni” che agivano sugli strumenti di finanziamento del disavanzo pubblico, nel duplice aspetto della politica di cambio e dell’apertura del Paese ai movimenti di capitale. Si può ritenere, pertanto, che l’introduzione del Sistema Monetario Europeo e l’entrata in vigore dell’Atto Unico Europeo

79 Nel senso, G. Guarino, Verso l’Europa, ovvero la fine della politica, Mondadori, Milano, 1997, pag. 35 e seguenti. Nel richiamarne i contenuti, G. Di Taranto (L’Europa tradita. Dall’economia di mercato all’economia del profitto, in La nuova disciplina della società europea, a cura di F. Capriglione, Cedam, Padova, 2008, pag. 27-28) evidenzia che “prima della liberalizzazione dei capitali, il risparmio, non potendo essere trasferito all’estero o in titoli esteri, doveva obbligatoriamente restare in Italia. Lo Stato, quindi, regolava gli interessi che avrebbe corrisposto sui titoli in emissione, tenendo conto di tutte le esigenze dei settori produttivi per i quali i tassi di approvvigionamento dei finanziamenti erano a loro volta dipendenti dal tasso applicato dallo Stato. Dopo l’Atto unico europeo, lo Stato ha perduto questo potere, così come, con la sua precedente adesione allo SME, aveva perso il potere di fissare unilateralmente il tasso di cambio. In tal modo, lo Stato stesso era stato privato di due dei fondamentali attributi della sovranità, perciò, con la fine del confine, esso deve ricorrere a nuovi mezzi che non siano l’autorità”.

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abbiano avuto un importante effetto sul rendimento delle politiche di bilancio in forza di un approccio di costi-benefici che tali accordi (sia pure indirettamente) determinavano, nel senso di porre quel senso del “limite” alle politiche di bilancio che fino a quel momento era venuto a mancare81.

I costi, in particolare, consistevano nella perdita di competitività nazionale, nel “voto dei mercati” vieppiù rafforzato dalla crescente attrazione dei titoli di Stato verso investitori esteri (sempre più liberi di investire in Italia in concomitanza con il progressivo smantellamento del “confine” finanziario), nell’aumento del costo del debito per il tendenziale allineamento dei tassi d’interesse nazionali a quelli esteri (senza che da queste maggiori spese derivassero benefici in termini di consenso paragonabili a quelli associati comunemente alle ordinarie decisioni di spesa).

Al tempo stesso, gli incentivi erano espressi in termini di maggiore stabilità del livello generale dei prezzi, che a sua volta consentiva di ridurre i tassi di interesse nominali per la parte connessa al “premio per l’inflazione”, e dello stesso tasso di cambio, ancorando l’Italia a Paesi più virtuosi nella gestione della politica economica ed “importando” così la loro credibilità nel condurre politiche responsabili: soprattutto, le autorità si ponevano esse stesse di fronte ad un vincolo esterno (e, quindi, non aggirabile alla stregua di quanto avvenuto con le prescrizioni dell’art. 81 della Costituzione) che le costringeva a ridefinire procedure, tempistiche ed orientamenti della politica di bilancio.

Peraltro, restringendo i margini di intervento della politica monetaria, la decisione di bilancio veniva inevitabilmente costretta a confrontarsi direttamente con il problema della ristrettezza delle risorse rispetto al fabbisogno di spesa delle amministrazioni pubbliche: l’accumulo del debito si rifletteva sugli andamenti di finanza pubblica per il tramite del servizio del debito, con l’effetto di irrigidire ancora di più il contenuto del bilancio, essendo tale “voce” suscettibile di variare solo in relazione agli andamenti dei tassi d’interesse di mercato ed alla durata media dei titoli stessi.

Non a caso, proprio in questo periodo si rafforza il dibattito dottrinario sulle cause profonde